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Editoriale



«Equità e sostenibilità, giustizia sociale e armonia ecologica sono i due corni con cui ogni politica economica deve fare i conti. Due vincoli necessitanti, costrittivi, ma potrebbero essere vissuti come scelta intenzionale, voluta da una società più consapevole di sé e del mondo».

(Wolfang Sachs, Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione, 2002)

Il nuovo millennio si è aperto con una serie di sfide che, entro il contesto controverso dell'"interdipendenza globale", attengono l'intera comunità politica mondiale. Si tratta di sfide nuove che in realtà hanno radici profonde. Esse mettono in gioco l'idea stessa di persona, il suo benessere (e, di converso, il suo malessere), il suo rapporto con l'ambiente e il contesto sociale, produttivo e di distribuzione delle risorse (a partire da quella, essenziale, del cibo), ma anche e soprattutto l'idea stessa di futuro.
Da parte degli analisti più attenti è esplicitata la vivida percezione che la storia abbia subito una brusca impennata, un'accelerazione epocale, ciò che Alberto Asor Rosa ha definito di recente, con termine quanto mai appropriato, «civiltà montante»[1].
Da un lato, in questo contesto di cambiamenti subitanei – e assai raramente progressivi – sovente si continua a decretare la fine del "mestiere degli intellettuali", l'esaurirsi di una "funzione" che per almeno due secoli (fino almeno agli anni Ottanta del Novecento) li ha visti protagonisti di un rapporto strettissimo tra politica e cultura: l'esito di questa marginalizzazione è il rinchiudersi della politica in se stessa, nelle logiche dell'amministrare il presente, in una sorta di sopravvivenza e di sua marginalità nel quadro delle biografie individuali e dell'orizzonte collettivo.
Dall'altro lato, come dimostrano gli articoli raccolti in questo fascicolo, pare lentamente delinearsi un complesso processo che volge in direzione (ostinatamente) contraria: un rilancio dei saperi che consentono di "riagguantare" la dimensione del futuro, a partire dalle sfide del presente.
Su questo versante, per esempio, una novità significativa degli ultimissimi anni sta nel fatto che si sta facendo sempre più largo, tra economisti, sociologi e politici "illuminati", il concetto secondo cui la misurazione del benessere non costituisce un problema esclusivamente tecnico, e questo per la semplice ragione che la concezione stessa del benessere chiama in causa le preferenze e i valori di fondo di una società e degli individui che la compongono: e dunque si pone come problema eminentemente politico. In altri termini, la tensione si determina tra le urgenze del presente, che richiedono di essere tecnicamente gestite e amministrate, e una più ampia visione dei problemi e dei nodi, che richiedono un investimento per così dire "comunitario" – nelle possibilità di orientare, e dunque governare, i processi, di dare loro forma, entro l'orizzonte di un'apertura al futuro.
In questo senso, appare lampante quanto possano essere differenti le visioni strategiche della società nei Paesi dell'Occidente: basti pensare all'Italia e alla Francia. Da un lato, il nostro "caso", con una politica ripiegata su se stessa, incapace di una narrazione autentica delle questioni del presente e, a partire dalla loro risoluzione, di costruire futuro, perché alle prese con la miope difesa di interessi e rendite di posizione contingenti (è quanto mai opportuno, a questo riguardo, il grido che si leva da parte delle giovani generazioni di un furto – legalizzato – del futuro stesso). Dall'altro, quello transalpino, dove un governo di destra riesce a comprendere che un cambio di paradigma è necessario e che occorre farvi fronte con nuovi strumenti, messi a punto da intellettuali che riscoprono la loro vocazione, pur senza rinunciare al loro sapere "tecnico". Il Rapporto della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, lo strumento che il Governo Sarkozy ha messo in campo per dipanare molti dei nodi della matassa, aveva infatti come principale obiettivo l'individuazione di fondati argomenti sui limiti del PIL e sulle strategie da adottare per "superarlo".
Nel Rapporto vengono ricordati i casi – ben noti, come quello delle spese per riparare i danni ambientali e prodotti dall'inquinamento (ambiti, questi, che rimettono in gioco il ruolo civile degli scienziati e il risvolto assai concreto delle loro competenze) – in cui il PIL cresce e il benessere sociale, per quanto ampiamente inteso, non aumenta. Di qui l'elaborazione di "raccomandazioni" che dovrebbero condurre non tanto alla definizione di un indicatore sintetico alternativo al PIL, quanto alla messa a punto di statistiche in grado di cogliere il benessere sociale nelle sue molteplici dimensioni, e dunque di orientare – o ri-orientare – le finalità dell'agire politico e istituzionale.
E in Italia? Come accennato, nel nostro Paese manca una vera discussione su questi argomenti, un dibattito che coinvolga i mondi sociali nella costituzione di un nuovo patto in grado di guardare al futuro e alle nuove generazioni, da quelle del presente, che sono davanti ai nostri occhi, in carne e ossa, a quelle prossime. Questo clima di generale scollamento, che coinvolge anche in larghissima parte intellettuali e scienziati, fa sì che la politica abdichi alla sua naturale visione prospettica della società, chiudendosi in "interessi" di breve e brevissimo termine.
Una delle chiavi di lettura fondamentali per misurare la capacità di stare al passo con i cambiamenti in corso e di orientarli o di subirli riguarda le questioni ambientali. Il recente Summit di Copenaghen consegna un risultato che, pur considerato insufficiente per la mancanza di obiettivi concreti e misurabili, pare poter indicare un percorso nuovo per la lotta ai cambiamenti climatici e per le politiche ambientali in generale. Paesi come gli Stati Uniti e la Cina, da sempre storicamente ai margini di questa discussione a livello mondiale, oggi ne sono diventati protagonisti, così come lo diventeranno sempre di più tutti i Paesi emergenti quali il Brasile e il Sud Africa. Per chi volge gli occhi all'orizzonte, alzandoli e fuoriuscendo dalla gabbia in cui la crisi epocale ci ha rinchiuso, un nuovo modello di sviluppo pare possibile, così come possibile e auspicabile pare un altro mondo.
Diverse sono le forme e le modalità di delinearlo: in questa sede si privilegia quella che rimanda alla "via verde", e al diffondersi della cosiddetta "green economy". Di questa vengono tratteggiati l'ascesa nel dibattito pubblico (dal contesto statunitense a quello italiano), le sue dimensioni "tattiche" e "strategiche", le sue connessioni con le tematiche energetiche e con quelle della gestione e dello smaltimento dei rifiuti.
L'obiettivo di questa strategia è quello di raggiungere un impegno costante per far fronte ai cambiamenti climatici e tentare di coniugare l'innovazione, la tutela del bene comune e la qualità del nostro vivere. Einstein sosteneva che «non possiamo risolvere i problemi con i medesimi schemi di pensiero con cui li abbiamo creati»: un'affermazione che dovrebbe indurci a rivedere tutte le nostre convinzioni su che tipo di "sviluppo" – ammesso che questo possa essere ancora un termine all'altezza dei tempi nuovi – vogliamo e che pertanto ci porti a mettere in campo una nuova trasformazione del pensiero.
La "riconversione ecologica dell'economia" – altro termine che affiora in maniera ricorrente nel lessico dei tempi nuovi – prospetta un nuovo possibile traguardo che peraltro segna, come ha opportunamente osservato Wolfang Sachs, una riconfigurazione della stessa cultura ecologista e ambientalista[2]: da ideatori e costruttori di opzioni di nicchia i cittadini a vocazione ecologista divengono realizzatori di buone pratiche che si collocano nel mainstream della società.
In questo contesto, che pare poter strutturare anche una serie di risposte per attraversare e fuoriuscire da una crisi strutturale, si intravede anche una ridefinizione del sistema economico ed imprenditoriale: nuove possibilità di "crescita" grazie a soluzioni ecosostenibili e in grado di valorizzare il capitale umano e sociale o addirittura percorsi di «decrescita felice» (seguendo il lessico di Serge Latouche). Orizzonti che pongono al centro un principio che nell'epoca della affluent society e del trionfo, apparentemente armonico, della società dei consumi pareva definitivamente messo in soffitta: quello della sobrietà.
A fondamento di questa nuova visione della produzione vi è il concetto secondo cui l'impresa competitiva (e di conseguenza ciò che da più parti viene evocato come "il territorio") è quella che considera prioritari un rapporto positivo con l'ecosistema, la creazione di utilità per tutti gli interlocutori (non solo utili monetari), anche mediante il rilancio di pratiche di cooperazione, la corresponsabilità con gli attori del territorio nella creazione di valore e nel suo trasferimento alle future generazioni.
Fuori da questa logica – e qui si gioca un'altra sfida per le istituzioni, all'insegna dei rapporti tra logiche economiche e capacità 'orientante' della politica e dell'agire collettivo – le potenzialità della green economy anziché ritagliare un nuovo ruolo per le comunità locali e regionali rischiano di chiudersi entro un programma di business, dominio di pochi scaltri "innovatori" (con nuovi rischi per la tutela del suolo, della qualità dell'aria, dell'ambiente in generale).
Un caso esemplare di interconnessione (e interdipendenza) tra nuove sfide globali, questioni ecologiche, rapporto tra generazioni e giustizia intergenerazionale[3], ruolo delle istituzioni nazionali e territoriali, è rappresentato dal tema dell'energia. Scegliere di investire massicciamente nel nucleare o perseguire la via alternativa delle energie rinnovabili – come illustrano importanti contributi del fascicolo – non rappresenta una scelta tecnica, bensì profondamente e autenticamente politica. Una scelta che rimanda alla visione della società e dell'ambiente, al rapporto tra chi c'è ora e chi vivrà nel futuro, agli orizzonti della scienza e al mestiere degli scienziati in relazione alla società, alle possibilità di valorizzare la capacità di pianificazione e di governo delle istituzioni, sovranazionali[4], nazionali e anche locali[5]. Una scelta che, come per tutti gli altri temi trattati in queste pagine, rimanda a quello che di fatto costituisce un bivio: restare immersi, quasi soffocati, nella marea della «civiltà montante» del presente, oppure, attraverso «esercizi di immaginazione radicale del presente»[6] e buone pratiche, seguire vie alternative che disegnano le possibilità di un futuro che si delinea già dal "qui ed ora". Un futuro che, se pensato davvero come effettiva capacità di muovere "verso", assume i tratti di un dolce avvenire: esso, fiorendo da semi coltivati con cura, testimonia concretamente il senso e la pratica di un'altra civiltà. Una civiltà che, cambiando gli schemi, può liberarsi dall'oppressione delle «passioni tristi»[7] e recuperare l'energia generatrice della speranza.



Thomas Casadei


[1] A. ASOR ROSA, Il grande silenzio, a cura di S. Fiori, Laterza, Roma-Bari 2009.
[2] W. SACHS, Ecologia, in Il dolce avvenire. Esercizi di immaginazione radicale del presente, a cura di A. Bosi, M. Deriu, V. Pellegrino, Diabasis, Reggio Emilia 2009, p. 122.
[3] Cfr. F. IOMMI, Il diritto della specie, Albatros, Roma 2010.
[4] Un esempio recentissimo al riguardo è fornito dalla Comunicazione della Commissione europea (2010) 677: Priorità per le infrastrutture energetiche per il 2020 e oltre – Piano per una rete energetica europea integrata.
[5] Sulle possibilità di radicale riorganizzazione del sistema energetico, nel pieno rispetto della natura e delle forme del vivente, e sulla possibile costruzione di un «governo democratico e partecipato dell'energia» (mediante «una pianificazione codecisa nel territorio») si veda M. AGOSTINELLI, Energia, in Il dolce avvenire, cit., pp. 141-147.
[6] Il rinvio è al sottotitolo del suggestivo volume Il dolce avvenire, cit.
[7] M. BENASAYAG, G. SCHMIT (2004), L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005.


IN QUESTO NUMERO

Il numero 2.2010 di Cosmopolis ospita nelle sue sezioni principali due grandi temi: da una parte, il rapporto tra la scienza e il contributo che questa può dare al miglioramento della società; dall'altra, una riflessione approfondita sulla green economy, termine ormai diventato di uso comune e globale per indicare la riconversione della produzione industriale secondo criteri di efficienza energetica e per l'utilizzo di energie rinnovabili.
Gli argomenti toccati nella prima sezione riguardano problemi ambientali considerati dal punto di vista del loro contenuto scientifico, della loro influenza sulla vita quotidiana dei cittadini e della ricaduta in ambito "politico" che possono avere.
Celina Vitali, ad esempio, compie un'attenta analisi di quale sia la normativa europea riguardo all'inquinamento atmosferico e di come dovrebbero conseguentemente caratterizzarsi le politiche di qualità dell'aria, in particolar modo riferendosi alla situazione italiana. Se e come possiamo convivere in maniera "pacifica" con le radiazioni elettromagnetiche, considerate in tutte le loro possibili forme, è l'argomento affrontato da Margherita Venturi: il messaggio finale è che il vero punto di discrimine è come chi lavora in ambito scientifico si pone rispetto all'uso delle radiazioni stesse. Andrea Segré ci parla, poi, delle disuguaglianze a livello globale, dal punto di vista del problema dello spreco delle derrate alimentari. La proposta del "Last Minute Market", basato su uno scambio – o "dono" – di prodotti tra impresa e mondo non-profit, rappresenta un esempio di modello alternativo di mercato che tiene conto delle esigenze delle persone più bisognose di aiuto, riducendo gli sprechi. L'angolazione dalla quale Marco Taddia guarda, invece, al rapporto tra scienza e società è particolare: il discorso riguarda le "frodi" compiute all'interno del mondo scientifico, limitare e controllare le quali è la base di un'etica scientifica che voglia considerarsi saldamente fondata. Infine Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli affrontano i temi del nucleare e delle energie rinnovabili: il primo rispondendo puntualmente alle argomentazioni generalmente portate nel dibattito pubblico a sostegno di un utilizzo dell'energia nucleare; il secondo riflettendo su tutte le forme di energie rinnovabili che l'"astronave Terra" mette gratuitamente a disposizione degli uomini, che possono quindi far fronte in maniera adeguata alla sempre più esigua disponibilità di combustibili fossili.
La convinzione che ha mosso la scelta di un tema come quello della green economy, trattato nella seconda sezione, è quello riportato da Sergio Salsedo nel suo contributo. L'attuale inflazione di interventi e discussioni su questo argomento ha una ragione di fondo importante: si tratta della «contemporaneità tra la peggiore crisi economica della storia moderna e l'esplodere dell'emergenza climatica». Grazie alla green economy, infatti, si può rispondere alla crisi affrontando «alla radice le cause del riscaldamento globale dovuto ai combustibili fossili». Anche il contributo di Cristian Torri può rappresentare, come quello di Salsedo, una cornice generale in cui inserire il problema: l'autore analizza, infatti, i motivi e i modi grazie ai quali la green economy è diventata uno dei temi centrali del dibattito pubblico attuale, facendo riferimento a due casi specifici, quello tedesco e quello italiano. La green economy negli Usa è, invece, l'argomento dell'articolo di Barbara Bendandi, che lo sviluppa riflettendo su rapporti e contatti tra mercato e politica e sulle implicazioni che questi possono avere sulla società. Parlare di green economy, poi, significa anche affrontare il problema dei rifiuti, che Paul Connett lega al concetto di sostenibilità: l'obiettivo dei "rifiuti zero" viene definito come un trampolino verso la sostenibilità, considerata come la sfida più grande che la nostra società si trova ad affrontare oggi. Altra sfida è quella riportata da Alberto Bellini, il quale sostiene con dati precisi e riscontri oggettivi come la riduzione dei consumi attraverso il risparmio energetico sia il principale obiettivo da perseguire e come una politica energetica che voglia definirsi lungimirante debba incentivare l'uso di energia solare e introdurre il metodo della fiscalità ambientale.
Anche in questo numero, infine, Cosmopolis ospita interessanti e variegati contributi nella sezione "Fra le righe". Un'intervista a Serge Latouche, che bene si collega con le tematiche ambientali affrontate nelle prime due sezioni, ci invita a riflettere sulla proposta della "decrescita", intesa come necessità dell'abbandono dell'obiettivo della crescita illimitata che caratterizza la nostra società.
Il contributo di Giovanni Codovini si sofferma su un problema che Cosmopolis ha spesso affrontato: la questione israelo-palestinese, questa volta considerata dal punto di vista geopolitico, sottolineando il fattore di forza rappresentato dall'idropolitica. Una finestra letteraria è aperta da Sara Codini, che ci racconta Le silence de la mer di Vercors mettendo in evidenza i rapporti tra silenzio, parola, ascolto e gesto politico, attraverso le vicende, le parole, i personaggi. I contributi di Brunella Casalini e María José Guerra Palmero affrontano invece la questione di "genere", ma secondo due punti di vista particolari: la prima collegando il problema del multiculturalismo a quello del femminismo, anche analizzando avvenimenti recenti che hanno riguardato direttamente le donne, alle prese con il problema della cittadinanza, il rischio della discriminazione e la sfida dell'integrazione; la Guerra Palmero ha invece affrontato il tema dell'"ecofemminismo", che vuole coniugare l'esigenza di liberazione della donna con le problematiche ecologiste.

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