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Immagini del mondo, mondi dell’immagine e miti:tre indispensabili media della politica

ENNO RUDOLPH
Articolo pubblicato nella sezione Immaginazione e politica.

1. Immagini del mondo

Le immagini del mondo [Weltbilder] sono immagini “di” in un duplice senso:
- le immagini del mondo raffigurano il mondo;
- le immagini del mondo formano il mondo conformemente alla percezione che ciascuno ha di esso, e in base alla quale costui o costei si configura il suo mondo – proprio nel senso che lo “forma”. Può trattarsi di un individuo, di un soggetto collettivo o anche di un’epoca, quest’ultima intesa come un soggetto storico; in tutti i casi, i soggetti si creano i loro mondi in forma di immagini.
Com’è noto, Martin Heidegger (1938, p. 83; trad. it. pp. 88-89) ha definito la modernità come l’epoca delle immagini del mondo. La tesi implicita in questa affermazione è che la modernità sarebbe un’epoca per la quale il mondo ha ancora valore soltanto nella forma dell’immagine che il soggetto può farsi di esso – dunque come una riproduzione [Abbild], la cui conformità all’originale non sarebbe possibile verificare, in quanto l’accesso all’originale rimarrebbe precluso. Per “originale” nel lessico di Heidegger si intende l’“essere”; di conseguenza, la modernità deve considerarsi l’epoca di un costitutivo oblio dell’essere.
Il fatto che noi, nell’uso linguistico comune, impieghiamo i vocaboli “immagine del mondo” e “visione del mondo” [Weltanschauung] perlopiù come sinonimi ci induce purtroppo a dimenticare il significato autentico, e non soltanto etimologico, di “immagine del mondo” come la forma in cui il mondo ci è dato come immagine. La diagnosi sulla modernità come epoca delle immagini del mondo per Heidegger era direttamente connessa alla “missione” che si era assegnato: riportare di nuovo la domanda sull’originale al centro dell’indagine propriamente filosofica. Heidegger si è schierato contro l’immagine, ritenendola indizio di un autoinganno; ha finito così per praticare un riduzionismo ontologico che lo ha portato a prendere le distanze non soltanto dalla filosofia moderna, ma anche dalla tradizione greca, nella misura in cui questa trova in Platone il suo autorevole fondatore.
Nella sua principale opera cosmologica – il Timeo – Platone ha infatti proposto di interpretare il mondo naturale, visibile, come un’immagine che, al pari di quella realizzata da uno scultore, fa vedere un originale che funge da misura per l’immagine: l’immagine è conforme all’originale non come un qualcosa di second’ordine, ma piuttosto, al contrario, come la realizzazione di un progetto architettonico ideale (Timeo, 28B-29C). Tutto ciò è, per così dire, la grammatica dell’immagine: non soltanto l’immagine non è epigonale, ma essa è grammatica applicata e forma indispensabile dell’originale. Platone, dunque, ritiene fondamentale il mondo come immagine; Heidegger, di contro, lo svaluta. In Platone l’originale è una struttura formante che diviene efficace nell’immagine; per Heidegger, invece, l’originale è nascosto dietro l’immagine, ripudiato dallo scultore, cioè dal “soggetto cartesiano” della modernità.
Credo che, dal punto di vista di una teoria dell’immagine, la posizione di Platone sia ancora attuale, mentre definirei quella di Heidegger una concezione platonistica nella misura in cui non è platonica. Per platonistica intendo una posizione come quella radicata nella metafisica del neoplatonismo cristiano, che va all’incirca da Plotino fino a Ficino, secondo cui il rapporto tra l’idea e la realtà è caratterizzato essenzialmente da una incompatibilità tra le due e non, come in Platone, da una adeguatezza rappresentativa. È chiaro che qui predomina nettamente la metafisica della differenza qualitativa tra l’essere e l’apparenza, trasformata nella differenza teologica tra Dio e il mondo, tra la civitas dei e la civitas terrena. Soltanto questa tradizione interpretativa, cui Heidegger è rimasto fermamente legato, ha per così dire cementato la metafisica fluida del platonismo di provenienza cristiana; essa ha influenzato fino ad oggi l’immagine di Platone che troviamo nei nostri manuali e rappresenta una conseguenza dell’usurpazione distruttiva della filosofia platonica avvenuta nel nome di interessi teologici.
Platone in persona, invece, ha proposto una tesi che oggi si rivela sorprendentemente rilevante per il dibattito contemporaneo delle scienze dell’immagine. Teorici dell’immagine come Gottfried Boehm (2001) e Lambert Wiesing (2005, p. 137 ss.) si sono dedicati, dal punto di vista di un’analisi dell’immagine, al problema di cosa distingue un’immagine da una mera riproduzione – per esempio da una fotografia (cfr. anche Schmitt 2001, p. 32; Rudolph 2009). Se la esaminiamo in relazione al suo scopo, allo stile e al contenuto, una riproduzione si esaurisce nella funzione di rimandare in tal misura a un originale che lo sguardo, indotto dall’immagine, cerca costantemente l’originale; lo sguardo dunque si allontana dall’immagine, nella consapevolezza che l’originale rende l’immagine superflua. Al riguardo Wiesing ha affermato che la riproduzione è “trasparente” rispetto all’originale, a cui essa rimanda. Direi quindi che un’immagine che risulta trasparente rispetto a un originale o a un criterio (questo può anche essere un contenuto spirituale, un significato) è un’immagine di qualcosa, e in tal senso è una riproduzione. Invece, un’immagine in senso stretto – e questa è anche la posizione di Gottfried Boehm – non fa vedere qualcos’altro, ma mostra se stessa. L’immagine non ha bisogno di essere validata da un a priori, perché basta a se stessa. La distanza tra la tesi di Platone e quella di Heidegger si comprende alla luce di questa opposizione: il mondo di Platone è un’immagine, mentre il mondo della modernità heideggeriana è una riproduzione.
Molto tempo prima dell’odierno dibattito nel campo delle scienze dell’immagine, questa interpretazione è stata anticipata da Ernst Cassirer nel contesto di un’esegesi del pensiero di Platone. Nel suo saggio Eidos und Eidolon (Cassirer 1924, p. 23; trad. it. p. 26), pubblicato dalla Biblioteca Warburg, Cassirer nota infatti che il rapporto tra archetipo (eidos) e immagine (eidolon) non è caratterizzato in primo luogo dalla mimesi, ma piuttosto dalla partecipazione, dalla methexis. L’originale e l’immagine partecipano l’uno dell’altra. Il mondo platonico è l’immagine in cui esso si presenta. Il mondo heideggeriano, invece, è la vittima del processo di produzione dell’immagine del mondo. Cercherò adesso di spiegare perché questa tesi, espressione di una teoria dell’immagine (e non di una “metafisica”) che da Platone, attraverso Cassirer, giunge fino a Boehm e colleghi, comporti delle precise conseguenze per il concetto di simbolo.


2. Simboli e mondi dell’immagine

La domanda è se si possa o meno sospettare che il simbolo, in quanto “portatore del senso di un significato”, non sia altro che una mera riproduzione – la riproduzione di un senso al quale esso rimanda, ma che non incarna in sé. Le “forme simboliche”, di conseguenza, sarebbero soltanto le quintessenze di tipi simbolici determinati, catalogati secondo gli stadi della storia della civiltà – dall’epoca del mito fino a quella della scienza – e da sistemi di interazione come l’arte o l’economia. Se adesso ci volgiamo a considerare la teoria del simbolo di Kant, e ammettiamo una volta tanto che Ernst Cassirer le ha attribuito il significato di teoria guida rispetto allo studio del simbolo, ne risulterà che il sospetto secondo cui il simbolo sarebbe solo una riproduzione viene confutato in toto da Kant; parimenti, la tesi della corrispondenza tra segno e significato viene assolutamente confermata. A tale riguardo risulta particolarmente importante il paragrafo 59 della Critica del giudizio, dove Kant indica il “macinino” come il simbolo della forma di governo della monarchia (Kant 1790, § 59, B 256). Inoltre, in questo paragrafo emerge chiaramente che la motivazione che muove la teoria del simbolo in Kant è in realtà una critica della politica.
Nella Critica del giudizio Kant ha applicato più volte il metodo, caratteristico del suo pensiero, di una critica dissimulata al regime politico del suo tempo: non solo nel già ricordato paragrafo 59, la cui funzione, a prima vista, sembra essere soltanto quella di offrire una chiarificazione circa i rapporti tra etica ed estetica e di analizzare il concetto di simbolo, introdotto a tale riguardo; ma anche nel paragrafo 83, dove, allo stesso modo, l’argomentazione riguarda apparentemente solo la definizione più dettagliata della cultura come fine ultimo della natura (Kant 1790, § 83, B 392 ss.). Da una lettura conseguente del primo dei due brani emerge che la relazione simbolica tra bellezza e moralità è analoga a quella tra un macinino e il tipo di governo di una monarchia: entrambe le relazioni sono “simboliche” (il macinino simboleggia la monarchia, la bellezza la moralità), ed entrambe le relazioni sono, da parte loro, analoghe. Dunque, così ci insegna Kant, le simbolizzazioni sono analogizzazioni tra fenomeni dissimili. Chi vuole riconoscere l’analogia tra un macinino e la monarchia deve introdurre una quantità non irrilevante di riflessione e, soprattutto, deve poter comprendere la funzione della comparazione: l’effetto dell’esercizio del potere politico di un monarca sui sudditi è immediatamente analogo a quello del macinare chicchi di grano o di caffè. Quel che ne risulta – farina o polvere – corrisponde al popolo livellato: in una monarchia, le differenze caratteriali individuali tra le singole persone – tra gli elementi della società – sono cancellate. Con talento retorico, Kant assegna dunque una missione rivoluzionaria alla sua analisi del concetto di simbolo, che risulta prima facie così innocua e puramente accademica: l’apologia della democrazia, o meglio, della sua forma repubblicana, che oppone resistenza contro la forma di governo vigente. Kant svolge l’attività di combattente clandestino nella sfera pubblica colta e, attraverso il suo contributo intellettuale, qualifica questa stessa sfera pubblica in un modo particolare: come spazio di discussione per l’uso pubblico della ragione; come un potere politico, in cui egli istituisce la parola “illuminismo”, impiegata così sottilmente, ed educa alla critica pratica. Chi vorrebbe essere ridotto in farina? Chi vorrebbe essere un fermento indistinguibile della massa del popolo, e rimaner tale per sempre?
Nell’opera ci sono molti passi paragonabili a questo per la forza esplosiva e l’arguzia politica. Quello più simile dal punto di vista dell’architettura del testo, così come del contenuto oggettivo, si trova, come già ricordato, nel paragrafo 83. A una lettura contestuale salta subito agli occhi che questo passo si collega direttamente all’altro del paragrafo 59. In esso viene abbozzata – di nuovo in modo dissimulato, e non senza tendenze sovversive – l’utopia di un modello alternativo alla monarchia: l’edificazione di una “società civile” su scala mondiale è il fine ultimo della natura, e soltanto questo fine merita il nome di “cultura”.
Tornando al paragrafo 59: naturalmente, a nessuno verrebbe in mente di vedere in un banale utensile domestico, come un macinacaffè o un macinapepe, una relazione simbolica o in qualche modo proporzionata alla monarchia. Una forma di governo è una struttura organizzativa, un macinino è un oggetto d’uso comune. Il simbolo e ciò che viene simboleggiato emergono insieme attraverso una relazione di dissomiglianza, sottolinea Kant. La relazione di rimando tra i due, quindi, deve essere espressamente costruita. A ciò provvede l’immaginazione. Secondo Kant l’immaginazione schematizza, cioè individua un tertium in cui convergono la monarchia e il macinino. Il tertium è l’analogia dei significati, che avvicinano le funzioni dei due diversi oggetti del confronto: entrambi operano attraverso la pressione assoluta e la distruzione dello “stato di natura” – l’uno attraverso un macinare meccanico, l’altra attraverso l’assoggettamento politico. L’analogia ha qualcosa di caricaturale, e deve persino essere tale, in quanto effetto dissimulato della critica politica e, al tempo stesso, in quanto specimen per la manifestazione estetica di una richiesta morale che viene avanzata alla politica.
Tengo particolarmente a chiarire in che cosa consiste la rivendicazione intellettuale, e la prestazione intellettuale connessavi, della simbolizzazione: nel fatto di riconoscere (o, per formularlo nei termini di Platone: tornare di nuovo a riconoscere) delle connessioni spirituali negli artefatti; connessioni che ci consentono di interpretare i mondi oggettuali in cui viviamo, e che noi creiamo, come mondi dell’immagine [Bildwelten]. Questa mediazione significativa è, al tempo stesso, simbolizzazione e generazione della cultura, in Kant come in Cassirer. Citando liberamente da Nelson Goodman, i mondi dell’immagine sono prodotti della “produzione del mondo” (Goodman 1978). Sono il tertium nella diastasi tra il mondo e l’immagine. Le immagini del mondo sono mondi dell’immagine rappresi; i mondi dell’immagine sono immagini del mondo de-dogmatizzate.
Infine, in Cassirer troviamo un terzo elemento. La genealogia del diverso sviluppo storico e dei suoi stadi culturali conduce infatti in origine a una forma che, secondo Cassirer, si distingue per una convergenza immediata tra un mondo dell’immagine, che essa è, e un’immagine del mondo, che essa produce e allo stesso modo rappresenta: il mito.


3. Miti

Rispetto a Kant, in Cassirer la consapevolezza della valenza potenzialmente politica della competenza culturale alla produzione dei mondi dell’immagine si è sviluppata tardi, con la scoperta del pericolo rappresentato dai miti politici. John M. Krois (2009) ha tuttavia mostrato, in uno dei suoi ultimi saggi, che in Cassirer ci sono dei rimarchevoli stadi preliminari circa lo statuto del mito rispetto a Il mito dello Stato, il manifesto apparso postumo (Cassirer 1946). Tra questi stadi si deve annoverare la fruttuosa collaborazione di Cassirer con Erwin Panofsky nell’ambito dell’iconologia. Krois dimostra come entrambi gli autori, in stretto contatto con Aby Warburg, negli anni Venti fossero d’accordo nel valutare il passaggio dalla credenza nelle stelle alla conoscenza delle stelle, ovvero dall’astrologia all’astronomia (o, in termini più generali, dal mito al logos), come un progresso culturale, cioè precisamente come un processo, la cui irreversibilità deve essere garantita dalla scienza allo stesso modo in cui questa ha garantito il processo da Tolomeo a Keplero. È noto che in La forma del concetto nel pensiero mitico (1922) Cassirer fa esplicitamente riferimento alla conferenza di Aby Warburg Divinazione antica e pagana (1920), da cui Krois riassume: «È sempre possibile ricadere in un modo di pensare non scientifico», e successivamente egli cita Warburg: «Atene è destinata ad essere costantemente riconquistata da Alessandria, più volte» (Krois 2009: 104). In effetti, nella genealogia dei processi culturali elaborata dai warburghiani ricorrono anche dei moniti circa i possibili regressi culturali. E proprio tali moniti ci consentono di cogliere non soltanto l’immenso ottimismo che i tre esponenti di quell’interdisciplinarietà tra le scienze della cultura, praticata dal circolo di Warburg, nutrivano all’epoca, in vista delle accresciute competenze di civilizzazione della scienza, ma anche (e questa è la questione più importante) il significato di quella trasformazione che segna profondamente la cultura: la trasformazione delle mere immagini del mondo, intese secondo l’accezione di Heidegger, in mondi dell’immagine, così da superare il dualismo metafisico heideggeriano.
Con ciò, tuttavia, diviene evidente una peculiare ambivalenza del significato del pensiero mitico per l’interpretazione della cultura come “processo di auto-liberazione dell’uomo”. Secondo la morfologia della cultura di Cassirer, i miti prendono parte attivamente a questa pratica di liberazione; dall’altro lato, tuttavia, essi rientrano, con la specifica forma politica che producono, tra gli indizi più vistosi del regresso culturale. La domanda che si impone è se questa ambivalenza del mito non rispecchi quella che emerge nella sintesi di un mondo dell’immagine e di un’immagine del mondo: in quanto mondi dell’immagine, cioè come documenti e prodotti della pluralità politeistica di significati, i miti sono correttivi politici alla tendenza alla dogmatizzazione propria delle immagini del mondo e delle ideologie che queste portano con sé; in quanto immagini del mondo visualizzate, i miti entrano in concorrenza con le pretese di validità delle altre immagini del mondo.
Nel corso della sua biografia Cassirer ha tracciato accuratamente i contorni di entrambe le componenti del mito, mostrando ogni volta di nutrire una chiara simpatia nei riguardi dei miti dell’origine, ma esprimendo anche una seria preoccupazione nel caso dei miti politici. Egli era perfettamente consapevole del fatto che, in Germania, l’implementazione violenta di miti politici a partire dal 1933 aveva avuto successo solo in seguito allo sterminio dei gruppi più rappresentativi dell’ebraismo illuminista. Nella conferenza tenuta in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Cassirer, Jürgen Habermas (1997, p. 39) ha ricordato il commento che lo stesso Cassirer scrisse nel 1944 a proposito del rapporto tra cultura ebrea illuminista e miti politici:

Nessun ebreo potrà mai superare la terribile ordalia di questi ultimi anni. [...] E tuttavia, alla fine, fra tutti questi orrori e miserie c’è almeno un conforto. [...] Gli ebrei moderni non hanno dovuto difendere solo la loro esistenza fisica o la preservazione della “razza” ebraica. In gioco c’era molto di più. Noi abbiamo dovuto rappresentare tutti quegli ideali etici che sono stati creati dal giudaismo e che hanno trovato il proprio corso nella cultura umana, nella vita di tutte le nazioni civili. [...] Se il giudaismo ha contribuito a distruggere il potere dei moderni miti politici, allora ha compiuto il proprio dovere, realizzando ancora una volta la sua missione storica e religiosa (Cassirer 1944, p. 126).

Che il giudaismo, dal canto suo, veicoli contenuti mitici e li impieghi politicamente non ci è noto soltanto a partire dai lavori di Gershom Sholem sulla rilevanza politica della mistica ebraica; anche Cassirer ne era consapevole. E anche Habermas, commentando il passo di Cassirer citato, ha sostenuto che «I miti politici ritornano perché sono fenomeni ibridi, che si nutrono della sostanza ignota di uno strato di immagini mitiche, ancorato nella costituzione simbolica dell’essere stesso» (Habermas 1997, p. 39).
I miti si rivelano attraverso le epoche come affascinanti sintesi di immagini del mondo e di mondi dell’immagine: simboleggiano dei significati, rendendoli percepibili, per servire così di nuovo come fonti di nuove norme e significati. E forse, per Cassirer, la domanda se il pensiero mitico si possa rivolgere criticamente contro la produzione politica di miti con una prospettiva di successo politico, costituirebbe ancora un ambito di ricerca assolutamente attuale.


Riferimenti bibliografici

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Traduzione dal tedesco di Renata Badii


Nota al testo di Renata Badii

Il saggio che presentiamo, ancora inedito in lingua tedesca, ha il merito di restituirci, pur nella sua brevità, l’intero spettro degli interessi di ricerca perseguiti da Enno Rudolph nel corso della sua lunga attività scientifica: Professore emerito di Filosofia all’Università di Lucerna, Rudolph si è confrontato a lungo con il pensiero di Platone (Rudolph 1996) e di Kant (Rudolph 1978, 2008), ma anche con l’opera di Ernst Cassirer e la sua Kulturmorphologie (Rudolph 1995, 1999a, 2003), concentrandosi in particolar modo sui temi delle forme simboliche e del mito (Rudolph 1990, 1994, 1999b, 2009) e cercando sempre di creare un dialogo tra le due discipline filosofiche cui ha dedicato la propria attività didattica – la filosofia della cultura e la filosofia politica. L’intento del saggio “Immagini del mondo, mondi dell’immagine e miti: tre indispensabili media della politica” è infatti quello di sollecitare una riflessione sulla funzione e il potenziale politico di tre costrutti cognitivi di cui gli individui si servono per elaborare una rappresentazione di ciò che essi chiamano “realtà”.
Al pari delle “metafore assolute” di Hans Blumenberg (altro autore che ricorre spesso negli studi di Rudolph), le immagini del mondo (Weltbilder), i mondi dell’immagine (Bildwelten) e i miti possono rubricarsi nella nozione di Unbegrifflichkeit (inconcettualità), categoria con cui lo stesso Blumenberg indica una famiglia di problemi relativi al rapporto tra fantasia, immaginazione e logos, che mettono sotto scacco l’idea stessa della filosofia come strada a senso unico «dal mito al logos» (Blumenberg 1960, p. 3 trad. it.). Una costellazione di domande, problemi, ansie che, pur non potendo mai essere completamente concettualizzate nel linguaggio rigoroso della teoresi, continuano ad avere una rilevanza centrale per la vita degli individui: interrogativi che per principio non ammettono una risposta definitiva e verificabile, ma che tuttavia si dimostrano ineliminabili, per la semplice ragione che «non siamo noi a porli, bensì li troviamo già posti nella costituzione stessa dell’esistenza» (Blumenberg 1960, p. 15 trad. it.). Pur senza ignorare le differenze che li caratterizzano, immagini del mondo, mondi dell’immagine e miti possono infatti considerarsi complessivamente come dei tentativi di individuare una risposta ad una domanda che non può essere risolta con gli strumenti concettuali della teoresi, e che pure esige continuamente una risposta: quella sulla posizione dell’uomo nel mondo.
Si tratta dunque di dispositivi caratterizzati da una “forza pratica”, secondo l’accezione kantiana del termine. Weltbilder, Bildwelten e miti originano tutti dall’esigenza eminentemente pratica di prendere posizione di fronte al mondo, ovvero dalla necessità di sapere che cosa sia il “mondo”, in quanto ciò costituisce una componente ineliminabile per ogni tentativo di rispondere alle domande: “Chi sono?” e “Come devo agire?”. Immagini del mondo, mondi dell’immagine e miti offrono infatti una rappresentazione (in alcuni casi complessiva, in altri solo parziale) di una totalità come il mondo che, in quanto tale, non è mai effettivamente definibile né completamente esperibile, ma che tuttavia deve essere presentificata in un’immagine per permetterci di vivere nel mondo. Essi costituiscono dunque le diverse componenti di quell’orizzonte di riferimento ultimo – conoscitivamente indominabile, ma praticamente ineludibile – rispetto al quale si definisce ogni condotta pratica. Da qui la loro rilevanza anche per l’agire politico.
Contro la tesi di Martin Heidegger circa il carattere esclusivamente “moderno” (e patologico) delle immagini del mondo, il contributo di Rudolph si situa quindi all’interno di quella tradizione di pensiero che, da Ernst Cassirer a Max Weber, fino a Hans Blumenberg e Peter Sloterdijk, considera invece questi dispositivi dell’inconcettualità elementi fondamentali del nostro modo di rapportarci al mondo: bussole imprescindibili per orientarci in ciò che chiamiamo realtà, selezionare alcuni atteggiamenti pratici ed escluderne radicalmente altri dall’orizzonte di ciò che consideriamo “sensato”, definire le proprie aspirazioni e aspettative, plasmare l’estensione e le forme concrete della nostra capacità di concepire “il nuovo” e “il possibile”.
Tentando di delineare la fisionomia specifica di questi tre diversi dispositivi e le relazioni che intrattengono tra di loro, e mostrando al tempo stesso le loro diverse funzioni o potenzialità in relazione all’agire politico, Rudolph offre un contributo prezioso non solo per gli studiosi delle scienze dell’immagine, ma anche per chi considera le immagini del mondo e le altre dimensioni dell’inconcettualità un punto di riferimento indispensabile per articolare una Zeitdiagnose sull’agire politico contemporaneo e sulle forme di soggettività che abitano la nostra tarda modernità.


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