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Essere di sinistra oggi: dall’ideologia politica all’immaginario sociale

AMBROGIO SANTAMBROGIO
Articolo pubblicato nella sezione Immaginazione e politica.

Introduzione

Il concetto di immaginario è stato usato in diversi sensi. Molte volte, anche nella letteratura scientifica recente, è stato in parte sovrapposto e confuso con quello di senso comune (cfr. Taylor 2004). In questo testo, cercherò di proporre, alla luce di una riflessione da me avviata (cfr. Santambrogio 2013a; 2013b), una nuova interpretazione del concetto, utile a sostituire quello di ideologia e, tendenzialmente, a coprire il vuoto di senso che la cosiddetta crisi delle ideologie ha creato nella discussione politico-sociale contemporanea e nelle identità dei soggetti, siano essi individuali o collettivi. Così facendo, si può aprire la strada per dare un contributo ad un ripensamento della sinistra, a partire dalla possibilità di indicare uno sfondo comune di riferimento, capace di sostenerne l’identità sociale, in primo luogo, e politica, in secondo.


Destra e sinistra: una nuova fase?

Ritengo che destra e sinistra siano categorie del moderno e che ne esprimano efficacemente la natura essenziale. Esse rappresentano due modi diversi di pensare la scissione individualistica che costituisce la modernità e, di conseguenza, due concezioni diverse di pensare il conflitto tra particolare e universale (cfr. Santambrogio 1988). Più semplicemente e direttamente: costituiscono due modi diversi di pensare l’individuo. Per la sinistra deve essere possibile avere un punto di vista esterno con cui vedere l’individuo; per la destra, invece, il criterio è sempre di tipo interno. Se per la sinistra l’autodeterminazione individuale è possibile in forza di una critica che la fa emergere dal dato, sentito come limitante, per la destra, al contrario, coincide con un dato da portare alla luce. Per la sinistra, l’individuo si realizza superando ciò che è; per la destra, conformandosi a ciò che è. L’etica della sinistra muove da un superamento della dimensione fattuale, quella di destra dalla sua valorizzazione. Da una parte, il criterio universale è pensato nella prospettiva del superamento dei limiti che di fatto costringono l’individuo; dall’altra, come un criterio di fatto, ineludibile e che deve essere riconosciuto. La vera soggettività del soggetto è per la sinistra qualcosa che sporge continuamente dal soggetto reale. Per la destra, invece, qualcosa che coincide con il soggetto reale. In sintesi: il soggetto è, per la sinistra, qualcosa che deve diventare e che ancora non è, un compito a se stesso. Per la destra, qualcosa che è e che deve essere riconosciuto come tale. I contenuti – cosa deve diventare l’individuo, per la sinistra; cosa invece è, per la destra – cambiano, naturalmente. Ma tutte le destre e tutte le sinistre sono sempre un tentativo di dare, in modi diversi, un’identità al soggetto, in un mondo in cui tale identità non è data una volta per tutte, come avveniva nelle società premoderne, dall’appartenenza a un determinato livello della gerarchia sociale.
Destra e sinistra si sono articolate storicamente in molte fasi e in molte forme, ma sempre seguendo un processo di progressiva generalizzazione dei loro contenuti, cioè, come si è detto, di diverse nozioni di individuo. All’inizio, infatti, soprattutto nella prima metà dell’ottocento, la dicotomia rappresentava solo la posizione delle parti all’interno delle aule parlamentari; poi, con l’emergere delle masse, ha identificato i soggetti sociali protagonisti dei conflitti di classe; mentre, alla fine, l’epoca del totalitarismo ha rappresentato il tragico tentativo di ricostituire dentro la modernità l’idea di una unità perduta. Questo processo di generalizzazione è tuttora in corso all’interno delle nostre democrazie. In questa linea interpretativa, quali cambiamenti stanno subendo le nozioni di destra e di sinistra? In effetti, qualcosa di profondamente nuovo è avvenuto, a partire dai processi di globalizzazione. La dimensione politica, tradizionalmente incarnata nello Stato-nazione, ha subito, sia al suo interno che al suo esterno, nuovi processi di ridimensionamento. Non che la politica abbia perso la sua funzione e che si sia davanti alla fine della politica. La mia idea è che alcune funzioni decisive, una volta appannaggio della sfera politica, oggi siano finite altrove. In particolare, sono ormai il prodotto, più o meno consapevole, dei processi sociali e collettivi. La politica è sempre più raffigurabile, come ormai pensa la gran parte delle scienze sociali, come una funzione interna ai sistemi sociali, insieme alla religione, al diritto, all’arte, ecc. Una prima linea di lettura da tener presente è, quindi, l’idea per cui anche destra e sinistra diventano sempre più categorie sociali e sempre meno dimensioni politiche in senso stretto.
In questa linea evolutiva, il processo di astrazione sta subendo ulteriori sviluppi, svincolando le nostre due categorie anche dalle identità collettive. Se osserviamo bene la nostra realtà attuale, in effetti è difficile trovare soggetti sociali che si identifichino strettamente con una delle due categorie, la cui identità sia intrinsecamente di destra o di sinistra. Sicuramente non lo è più la classe operaia, qualunque cosa si intenda con questo termine. Ma anche gli altri ceti sociali – i ceti medi, i professionisti, gli imprenditori, il ceto impiegatizio, i commercianti, gli artigiani ecc. – non sono più necessariamente di destra o di sinistra, ma articolano la propria posizione sociale in maniera autonoma e imprevedibile. Non si tratta solo del loro comportamento elettorale, che del resto, come molte ricerche empiriche dimostrano, segue questa stessa tendenza. Sto parlando di qualcosa di più profondo e radicale, che va al di là del voto e che riguarda il modo con cui ci si pone davanti alle questioni cruciali del nostro tempo, il multiculturalismo, i diritti, l’equità sociale, l’ambiente, lo sviluppo, ecc.
Voglio proporre allora l’idea per cui siamo davanti ad una nuova fase evolutiva, in cui le nostre due categorie non identificano più identità sociali ben definite, ma, astraendosi e generalizzandosi, sono diventate visioni del mondo a disposizione di soggetti che, volta a volta, possono variamente attingere da tali bacini valoriali, simbolici e culturali. Poiché il concetto di visione del mondo riecheggia quello di Weltanschauung, e poiché quest’ultimo è stato a lungo usato per rappresentare le diverse posizioni di soggetti sociali tra loro contrapposti, preferisco sostituirlo con quello di immaginario collettivo. Una visione del mondo, in effetti, porta con sé l’idea di una dimensione relativamente coerente, compatta e organica, capace appunto di presentarsi come il punto di vista di qualcuno contrapposto a quello di qualcun altro. Al contrario, il processo di astrazione subito da queste due categorie le ha sollevate da tale esigenza di coerenza e compattezza: più che visioni del mondo vere e proprie, oggi esse sono grandi contenitori di idee, non necessariamente coerenti tra di loro, prodotte da soggetti sociali tra di loro diversi e, a volte, anche in conflitto reciproco, in grado di essere variamente utilizzate da più soggetti e a diversi livelli. Il miglior esempio di tale fenomeno è il variegato arcipelago del new-global, che contiene al suo interno posizioni difficilmente conciliabili e che non può essere definito un soggetto sociale in senso stretto.


Utopia senza ideologia: il concetto di immaginario

Cos’è un immaginario sociale? Per rispondere a questa domanda, occorre porsi la questione del pensiero collettivo. In senso stretto, è sempre e solo l’individuo in grado di pensare: la società non pensa. Bisogna però riconoscere che i nostri stessi pensieri sono enormemente influenzati dal fatto di appartenere a determinati gruppi sociali, al punto che può diventare difficile separare ciò che è un reale prodotto della nostra autonoma capacità di pensiero da quella che è la mera riproposizione di una idea collettiva; separare produzione, che consente il cambiamento, e riproduzione del pensiero, su cui si basa l’ordine sociale. Per immaginario sociale si deve intendere una specifica forma di pensiero collettivo, che deve essere distinta da altre, come i miti, il senso comune, la religione civile, l’ideologia e l’utopia. Alcune di queste forme sono così importanti e significative che, probabilmente, segnano tutta la storia dell’umanità, indipendentemente da ogni specifico periodo storico. Basta fare solo l’esempio dei miti. Anche il senso comune è però presente in tutte le società. Per quanto riguarda il nostro tema, possiamo soffermarci soprattutto sui concetti di ideologia e di utopia, poiché sono quelli che più da vicino riguardano la nostra discussione sulla sinistra e sul concetto di immaginario sociale di sinistra.
La storia del concetto di ideologia è particolarmente importante, perché ripercorre significativamente le tappe di sviluppo e di affermazione della diade destra/sinistra (cfr. Mannheim 1957; Eagleton 1993). Tale concetto fu introdotto in epoca illuminista, in una formulazione che possiamo chiamare concezione particolare dell’ideologia. L’illuminismo crede che attraverso la ragione l’uomo possa superare i vecchi miti che avevano da sempre obnubilato la sua capacità di discernere il vero dal falso. Usando la ragione, posso allora smascherare l’errore altrui, che sia fatto in buona fede o meno. Possiamo parlare di concezione particolare dell’ideologia, perché l’errore da smascherare è l’espressione di una soggettiva incapacità di vedere il vero. Con lo sviluppo della società e, soprattutto, con l’emergere del conflitto tra classi contrapposte, il concetto di ideologia cambia di significato. Ora ideologico diventa il pensiero del proprio avversario sociale e politico. Egli è in errore non perché soggettivamente sia preso da miti o false credenze, ma perché egli ha fatto proprie le idee che caratterizzano la sua classe sociale di appartenenza. Si parla così di concezione totale dell’ideologia. L’errore non è più soggettivo in senso stretto, ma da collegare ad una posizione sociale che è in sé sbagliata. Si tratta della nozione di ideologia, in estrema sintesi, introdotta da Marx. Sempre attraverso il dispiegarsi del conflitto sociale, la nozione di ideologia cambia però nuovamente. Contro Marx, e il marxismo in generale, si oppone un’idea semplice e radicale: perché proprio la concezione del mondo proletaria è quella giusta? Non è anche il proletariato una delle classi sociali e la sua posizione non è anch’essa, inevitabilmente, particolare, esprimendo non l’interesse di tutti, ma solo quello suo specifico? Detto questo, così come il proletario può smascherare il borghese – con l’argomento che la sua posizione esprime una specifica posizione nel mondo, non quella di tutti – allo stesso modo, e con gli stessi argomenti, il borghese può smascherare il proletario. La tecnica dello smascheramento si diffonde tra tutti i ceti e le classi e alla fine le singole concezioni del mondo appaiono per quelle che realmente sono: l’espressione di soggetti sociali specifici e particolari, nessuno dei quali può legittimamente provare ad imporre la propria posizione come quella vera a tutti gli altri. Si passa così da un uso particolare della concezione totale ad un uso generale: la concezione totale dell’ideologia viene usata da tutti.
Con quali risultati? Se tutto è ideologico, niente è più ideologico e non è più possibile distinguere il vero dal falso. Conservatorismo, liberalismo e socialismo, in estrema sintesi, sono le tre grandi ideologie moderne ed ognuna rappresenta la concezione del mondo di una specifica classe sociale, rispettivamente nobiltà, borghesia e proletariato. Esse costituiscono visioni del mondo relativamente coerenti, ben organizzate, capaci di costituire un modo di vedere il mondo e la realtà quasi nella sua totalità. Capaci di sostenere l’identità individuale e collettiva di milioni di individui. Ora, invece, come esito di un conflitto sociale che non risparmia nessuno e nulla, tutte le concezioni appaiono parziali e nessuno più detiene la verità, né può pensare di raggiungerla. Già a partire dal primo dopoguerra si inizia a parlare di fine delle ideologie, proprio nel senso appena esposto. Le cosiddette ideologie totalitarie, quelle fascista, nazista e comunista, non sono in senso proprio ideologie: infatti, non esprimono la tensione tipica di un conflitto tra soggetti sociali diversi, quanto piuttosto, all’interno di un mondo disincantato e confuso, il bisogno di una nuova unità, senza conflitti e senza incertezze. Un bisogno che è espressione di una «fuga dalla libertà» e che produce i risultati a tutti noti. La questione della fine delle ideologie riappare ripetutamente dentro la storia sociale e politica del secolo scorso e va di pari passo con la grande trasformazione sociale che caratterizza il secondo dopoguerra: la fine, o per lo meno l’indebolimento, delle grandi identità sociali, in estrema sintesi delle identità di classe.
Insieme alla fine delle ideologie, sembra scomparire anche la possibilità dell’utopia. Sembra venir meno cioè la spinta propulsiva al cambiamento sociale e la forza di idee per le quali valga la pena mettersi in gioco. Sembra scemare quel sogno illuminista e moderno per cui è possibile realizzare dentro questo mondo una realtà relativamente più giusta. Fare i conti con il relativismo che si viene così a produrre è perciò ancora una delle grandi sfide della nostra realtà attuale. In un mondo in cui si spera che nessuno possa ancora pensare di detenere la verità – non perché è più razionale degli altri e non perché appartiene a quel gruppo sociale che più degli altri è capace di vederla – è ancora possibile un’utopia, l’idea di un’emancipazione collettiva che provi a realizzare il sogno dell’autorealizzazione individuale?
Innanzi tutto, occorre dire che nessuno deve più pensare di poter tornare a quel mondo fatto di certezze che aveva caratterizzato la prima modernità, diciamo almeno sino al secondo dopoguerra. Non esiste più un punto di vista completamente privilegiato, da cui poter dettar legge agli altri. Ma questo non deve voler dire relativismo. Proprio a questo scopo può servire il concetto di immaginario. Un immaginario sociale è un enorme deposito di idee, rappresentazioni, visioni del passato, del presente e del futuro che si è andato producendo attraverso il contributo di innumerevoli gruppi sociali, ognuno dei quali ha portato il proprio contributo in maniera spesso inavvertita e inconsapevole. Fondamentale, in questa direzione, è stato, ed è, il ruolo dei movimenti sociali. Sull’enorme e ricchissima eredità lasciata dal movimento operaio, con la sua storia secolare, si sono innestati contributi provenienti da sensibilità nuove ed eterogenee, che hanno da un lato fatta propria tale eredità, dall’altra l’hanno superata, compiendo significativi passi in avanti. Se pensiamo alla storia italiana, ma anche ovviamente a tutta la storia del secolo scorso, vediamo bene come, a partire dagli fine degli anni cinquanta, i movimenti giovanile, studentesco, femminile, pacifista, ecologista, new-global e tutto quell’enorme fermento di piccoli e a volta sconosciuti gruppi locali o monotematici abbiano profondamente e definitivamente cambiato il punto di vista simbolico della sinistra. Dopo la fine dell’ideologia, possiamo parlare allora del lento ma inesorabile costituirsi di un immaginario sociale di sinistra, composito, denso, eterogeneo e a volte contraddittorio, in grado però di costituire il grande bacino di idee cui possa attingere la prospettiva di un mondo migliore. Certo non si tratta più di una concezione del mondo relativamente omogenea e coerente, come era un’ideologia, né esiste un soggetto sociale che ne sia il portatore principale e prioritario, come ha fatto in passato la classe operaia. Si tratta però di una dimensione simbolica maggiormente in sintonia con i nostri tempi, capace, in un mondo senza ideologie, di non cancellare per sempre l’utopia.
Vediamo alcune caratteristiche dell’immaginario in quanto tale, che lo distinguono dalle ideologie. Come abbiamo brevemente visto, c’è alla base un diverso processo di costruzione del pensiero collettivo. Mentre l’ideologia è un prodotto che si riversa dalla politica, e dai suoi attori, sulla società, l’immaginario è un prodotto autonomo della seconda. Esso è un insieme poco coerente di valori, idee, simboli, aspirazioni, molto eterogenee e differenziate, prodotte da soggetti sociali anche molto diversi tra loro. La scarsa coerenza è significativamente correlata al fatto che non esiste un unico soggetto di riferimento, come poteva essere la classe, che si faccia portatore di uno specifico immaginario. Possono riferirsi ad esso soggetti individuali e sociali assai diversi tra loro e non è detto che i soggetti più tradizionalmente di sinistra, sempre per restare al nostro esempio, ne siano i più convinti sostenitori.
Inoltre, l’immaginario non è quasi per nulla un sistema logicamente elaborato. La teoria sociale e politica, in quanto diretto frutto del lavoro di pensatori preposti alla sua elaborazione, deve avere un alto grado di coerenza logica e di non contraddittorietà: la messa in luce delle sue difficoltà interne coincide con l’evidenziazione di contraddizioni logiche che essa contiene. Al suo interno, non occorre, e non si deve, fare riferimento a categorie di appartenenza. L’ideologia, pur non avendo bisogno della stessa rigida coerenza logica, assumeva però la forma di un sistema di pensiero relativamente coeso e organico, le cui componenti dovevano raggiungere una certa omogeneità e coerenza (cfr. Santambrogio 2001). Tutto questo viene meno con l’immaginario. Se anch’esso mantiene una notevole capacità di strutturare con forza l’esperienza quotidiana, fornendo chiari valori di riferimento, viene però meno la sua possibilità di costituirsi come un vero e proprio sistema di pensiero, anche solo relativamente coerente. Il processo di modernizzazione, da questo punto di vista, non sembra ridurre la dimensione immaginativa e fantastica dei soggetti sociali: al contrario, la dilata e la espande. Essa diviene una prerogativa diretta di tutti quei diversi soggetti sociali, che, diventando volta a volta protagonisti, si dotano autonomamente di propri specifici modelli culturali. Si pensi al modo del tutto originale e diretto con cui i movimenti giovanili hanno tradotto il pensiero di alcuni teorici di riferimento, in un modo che, comunque lo si intenda, non porta di certo a costituire una nuova ideologia. In effetti, è del tutto improprio dire che esiste un’ideologia ambientalista, giovanile, femminile, pacifista, animalista, no-global: in questo uso linguistico, «ideologia» diventa sinonimo di «modi di pensare», perdendo ogni sua specificità. All’interno di ognuno di questi nuovi «modi di pensare» albergano a volte aspirazioni, ideali, valori, simbologie collettive talmente eterogenee da far pensare che non esista una vera e propria identità collettiva e ad essi fanno riferimento, allo stesso modo, soggetti sociali spesso molto diversi tra loro. Si tratta di una nuova forma di incantamento: progressivamente, si va costruendo un insieme di idee che sembra galleggiare sopra la testa degli uomini, i quali attingono da tale insieme aspetti e aspirazioni che danno un senso senza richiedere necessariamente quella ragionevolezza che dovrebbe legare tra loro idee che guidano l’azione.
Non si tratta però di un insieme irriconoscibile, senza identità. I diversi valori che costituiscono, ad esempio, l’immaginario di sinistra sono pur sempre di sinistra per i motivi sopra esposti e, nonostante possano apparire a volte tra loro in contraddizione e incoerenti, i soggetti sociali che fanno riferimento ad essi li vedono come parte, pur se problematica, della loro identità. Un maggior senso di equità, il valore dell’eguaglianza, la centralità della fraternità, la difesa dell’ambiente, un nuovo modo di fare comunità, la lotta per i diritti civili, la critica al consumismo, il bisogno di meritocrazia in un mondo corrotto, la difesa della pace e la non violenza, un senso forte di legalità, la necessità di ampliare le aree del riconoscimento reciproco, una nuova spinta localistica sono tutti aspetti cui si aderisce volta a volta senza chiedersi se siano di fatto tra loro compatibili e come. E su di essi si fonda la speranza di una possibilità di emancipazione individuale, certo diversa dal passato. La coerenza interna, e la coerenza dei fini intermedi che dovrebbero avvicinare al fine ultimo, non sono requisiti essenziali delle nuove forme di immaginario collettivo. Ancora di più: il fine ultimo sembra svanire nella sua riconoscibilità in maniera così evidente da far venir meno ogni forma di escatologia. Non c’è più nessuna società comunista alla fine della storia. L’immaginario indica un altrove non identificabile, un non luogo che sembra assumere bene la forma dell’utopia, nel senso più classico e letterale del termine.
Esso, inoltre, non ha la naturalità degli immaginari mitici, perché è evidente il suo carattere artificiale, costruito, scelto. I valori che lo compongono, e le immagini di cui si nutre e con le quali si rappresenta, sono sotto gli occhi di tutti e sono passibili di una scelta concreta. Il suo carattere prodotto è evidente: tutti sappiamo, ad esempio, qual è la natura della rivoluzione alimentare proposta da slow food, quali sono i soggetti che l’hanno iniziata, quali l’hanno sviluppata e quali l’hanno fatta propria. Non c’è niente di mitico, in senso proprio, in questa nuova idea di ritorno alla semplicità contro l’individualismo consumista. Se è consentito l’ossimoro, si tratta di un «mito costruito»: «mito» perché porta in parte con sé una capacità attrattiva e simbolica che solo i miti hanno; «costruito», per i motivi che sopra si dicevano, e cioè la sua visibilità, il fatto che diviene oggetto di una scelta consapevole, che sta in alternativa ad altri miti, ecc.
Come abbiamo già visto, alcuni accostano il termine di immaginario a quello di senso comune. Si tratta però di due cose del tutto diverse. Nell’immaginario è presente una dimensione creativa assente in quella di senso comune. L’immaginario è il risultato di un desiderio che si concretizza riflessivamente in valori, immagini del mondo, aspirazioni: si tratta di un universo simbolico estremamente creativo e mobile, sottoposto ad un cambiamento del tutto diverso da quello, assai più lento, invisibile e irriflesso, che caratterizza il senso comune. In più, e forse è questa la differenza fondamentale, l’immaginario non è il cemento della quotidianità, il software di base invisibile e nascosto che tutti danno per scontato: al contrario, è perfettamente visibile e, proprio per questo, è usato al fine del cambiamento sociale. Alle spalle dell’immaginario, agisce la fantasia creativa mossa dal desiderio di correggere un mondo che non soddisfa a partire da esigenze concrete, da bisogni che emergono direttamente dai vissuti. Come dice bene Jedlowski, mentre il senso comune «è un meccanismo finalizzato a ridurre l’incertezza», l’immaginario «non riduce le nostre incertezze: ci arricchisce, ma l’incertezza, se mai, con ciò si moltiplica» (Jedlowski 2008, p. 236). L’immaginario, in effetti, contiene al tempo stesso una chiusura (in questo è riconoscibile) e una apertura (in questo è incoerente): con la prima, identifica uno spazio, anche se ampio (in fondo molto più ampio di quello delle ideologie), entro il quale collocare le proprie scelte; con la seconda, dà a questa chiusura un carattere sempre incerto e provvisorio.
In effetti, da un lato, come sopra già detto, l’immaginario è sufficientemente strutturato da essere riconoscibile, e un immaginario di sinistra anche oggi è diverso da uno liberista, o di destra, e così via. Le persone che ad esso fanno riferimento, anche se di diversa e a volte diversissima provenienza sociale, sanno bene che possono incontrarsi negli stessi luoghi, o condividere le stesse letture, o gli stessi comportamenti nonostante l’eterogeneità dei soggetti che si incontrano e delle azioni che si mettono in atto. Sanno, quasi sempre, ma in ogni caso in maniera significativa, riconoscere il loro immaginario: esso è in grado di costituire una identità, anche se più lasca e meno strutturata che nel passato. Ma l’intrinseca incoerenza dell’immaginario offre uno spazio di articolazione per l’azione collettiva molto più aperto e indeterminato rispetto all’ideologia. Proprio perché il sistema dei fini non è strutturato in una consequenzialità chiara ed evidente, rimane del tutto incerto il senso in cui perseguendo un determinato valore (ad esempio, una migliore gestione dell’ambiente) se ne persegue anche un altro (ad esempio, una maggiore eguaglianza). Sull’immaginario aleggia un’idea di impraticabilità, di utopia, di scarso realismo. Se si pensa, è proprio questa la principale critica mossa di sovente dal sistema politico alla società civile: tutto giusto e lodevole, ma poi i fatti seguono altre logiche e i movimenti servono a ben poco. Questa critica identifica correttamente la natura essenziale dell’immaginario, il suo essere in qualche modo sottratto alla responsabilità. Esso consente quel passo indietro rispetto alla prassi e alla quotidianità così da liberare uno spazio di pensiero libero e, perciò, in prima battuta, irresponsabile (in senso weberiano). In un certo senso, l’immaginario è una dimensione sottratta al tempo, e quindi alla scansione della relazione mezzi-fini che porta con sé il senso di responsabilità connesso ad un progetto. Esso è espressione del coraggio di pensare l’irragionevole. Può essere corretto dire che l’immaginario non è un progetto d’azione, e quindi non è un progetto politico, non identificando né mezzi per un fine, né fini ultimi di alcun tipo. Proprio in quest’ultimo senso, può riproporre l’utopia come libertà del pensiero dalla prassi, libertà di identificare un non-luogo collocato in nessun tempo. Laddove si chiede la possibilità di un mondo, ad esempio, liberato dall’ossessione della crescita economica in nome di una concezione più umana di felicità e di auto-realizzazione si pone una questione ideale che deve poi essere concretamente affrontata. Ma senza quell’ideale presente nell’immaginario, le questioni da affrontare concretamente sarebbero diverse e diversamente affrontabili.


Un immaginario di sinistra? Alcune possibili categorie interpretative

Nella rete confusa e articolata in cui si manifesta oggi la partecipazione collettiva – rete fatta di movimenti, associazioni, tribù, minoranze attive, ecc. –, e soprattutto in quella parte di essa sempre più libera dalle vecchie ideologie, mi sembra sia dia oggi la possibilità concreta di sviluppo e di affermazione di un immaginario di sinistra, capace di costituire senso di appartenenza, anche se in maniera più lasca rispetto al passato, ma soprattutto di continuare a sostenere l’idea utopica per cui «un mondo migliore è possibile», cioè l’idea, tipicamente di sinistra, che occorre costruire le condizioni per una progressiva emancipazione soggettiva. Mi sembra che qualche contenuto sia già più fortemente identificabile rispetto ad altri, così da caratterizzare in qualche modo questo immaginario. Su questi aspetti, ritengo sarebbe opportuno fare ricerca empirica, così da verificare cosa effettivamente si è messo in moto e cosa si è già forse consolidato. Per il momento, vorrei suggerire qualche spunto, che può anche essere visto come un elenco di possibili ipotesi da verificare empiricamente.
Per prima cosa, direi che si è diffusa una certa diffidenza nei confronti della tecnica in quanto tale, intesa come strumento di per sé capace di essere la soluzione ai problemi. In questo senso, emerge un forte cambiamento rispetto al passato: diversamente dalla acritica fiducia nel progresso che ha sovente caratterizzato la sinistra del passato, oggi c’è un maggiore scetticismo, che a volte corre anche il rischio di sviluppare nuove forme di luddismo tecnologico. In secondo luogo, mi sembra faccia sempre più breccia una cultura della non-violenza e della pace, in antitesi al ruolo centrale che nel passato avevano violenza e forza per innescare e spiegare i processi di trasformazione sociale. Un terzo elemento può essere rintracciato nella fine della centralità del lavoro, e delle soggettività che ruotano intorno ad esso. Se l’umanesimo marxiano, e forse più in generale dell’intera sinistra, metteva al centro della concezione umana la «libera attività lavorativa», oggi si tende ad avere una concezione più complessa ed articolata dell’uomo e della sua posizione nel mondo, pur continuando a dare al lavoro l’importanza che merita. Inoltre, quarto aspetto, sembra essere venuta completamente meno quell’idea di una «dilazione della felicità» che aveva nel passato giustificato le sofferenze patite in nome di un mondo migliore. Ciò che si può fare ora deve già portare a qualcosa di buono subito: non c’è un fine ultimo nella storia capace di sostenere il senso delle sofferenze attuali. E questo proprio perché, altro aspetto decisivo, come abbiamo visto il concetto di utopia non appare più come l’idea di un mondo perfetto e raggiungibile, quanto piuttosto come un non-luogo fuori dal tempo che serve da idea regolatrice, libera dalle costrizioni del contingente e libera dal senso di responsabilità: una utopia senza ideologia, liberata cioè dalla struttura interna dell’ideologia, che ne modellava la natura a propria immagine e somiglianza.
Questi elementi, brevemente tratteggiati, sono poi alla base di altri che si stanno lentamente forgiando, soprattutto attraverso l’azione concreta di soggetti sociali – alcuni tradizionali, altri nuovi; molti piccoli o addirittura piccolissimi, altri più numerosi; molti connotati solo localmente, altri dalla portata più universalista; ecc. – che riempiono in modo più o meno avvertibile la vita delle nostre società. Si pensi, solo per fare degli esempi, qualcuno sopra già richiamato, all’idea di un nuovo modello di sviluppo, o addirittura di non-sviluppo; alla riscoperta dei territori e delle loro caratteristiche; al nuovo rapporto tra eguaglianza e diversità; allo sviluppo dei diritti umani; al nuovo rispetto nei confronti dei beni comuni; allo sviluppo dei processi di democrazia deliberativa e partecipativa; alle tematiche ambientaliste; ecc. Se l’idea di immaginario qui proposta è plausibile, avremmo a disposizione un nuovo grande bacino di idee di sinistra, capace di orientare la prassi a partire da una dimensione ideale in sintonia con un nuovo modo di pensare l’utopia, anti-ideologico e non totalizzante, forse capace strutturalmente di evitare i rischi e le tragedie del passato.
Emerge però prepotentemente un problema, la cui portata diventa ancor più centrale rispetto al passato: che forma prende la rappresentanza politica? Detto diversamente: quali sono gli strumenti, le condizioni e le modalità perché si instauri un rapporto profittevole tra società civile, e i suoi immaginari, e politica, con le sue regole e condizioni? Che rapporto si può dare tra un immaginario prodotto dalla società e un programma prodotto da un partito, o da una coalizione di partiti? Ci sono nell’attuale arena politica leader e partiti di sinistra disponibili, nel momento in cui eventualmente scrivono i loro programmi d’azione, ad ascoltare le proposte e le idee che irresponsabilmente arrivano dagli immaginari della società civile? Sono questioni che mi sembrano oggi ineludibili e sulle quali deve esercitarsi la riflessione di tutti quanti credono in un’idea di democrazia capace di portare con sé la prospettiva di un mondo migliore.


Riferimenti bibliografici

Eagleton T. (1993), Che cosa è l'ideologia, il Saggiatore, Milano.
Gauchet M. (1994), Storia di una dicotomia. La destra e la sinistra, Anabasi, Milano.
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Mannheim K. (1957), Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna.
Santambrogio A. (1998), Destra e sinistra. Un'analisi sociologica, Laterza, Roma-Bari.
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Santambrogio A. (2013a), Utopia senza ideologia. Prospettive per la critica e l'emancipazione sociale, in Crespi F., Santambrogio A. (a cura di), Nuove prospettive di critica sociale. Per un progetto di emancipazione, Morlacchi, Perugia, pp. 47-83.
Santambrogio A. (2013b), Dall'ideologia politica all'immaginario sociale. Forme e processi di cambiamento del pensiero collettivo, in Bontempi M., Colloca C., Recchi E. (a cura di), Metamorfosi sociali. Attori e luoghi del mutamento nella società contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 169-188.
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