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La crisi economico-finanziaria e il silenzio della politica

Lorenzo Guadagnucci

Come al solito, la sua è stata una boutade, ma quando ha proposto di cambiare l’articolo 1 della Costituzione, nel passo in cui definisce l’Italia “una repubblica fondata sul lavoro”, il ministro Renato Brunetta ha colto – sia pure involontariamente, visti i suoi intenti – un elemento di verità solitamente trascurato: l’Italia è fra i paesi europei con i più bassi indici di occupazione (il 58,7%, contro una media del 65,45) ed è alle prese con il fenomeno, anche questo sottaciuto, degli “working poors”, cioè lavoratori così mal pagati da trovarsi ai limiti, o addirittura al di sotto, della soglia di povertà. Il Rapporto 2009 sulla povertà e l’esclusione sociale di Caritas e Fondazione Zancan[1] indica una cifra di otto milioni di persone che vivono in condizioni di povertà relativa (cioè una capacità di spesa inferiore alla metà della media nazionale) e un milione 126 mila in condizioni di povertà assoluta, cioè con una qualità della vita “al di sotto di un minimo accettabile”. Altre due milioni di persone hanno redditi poco al di sopra della fatidica soglia e rischiano quindi di scivolare in basso, specie in una fase di recessione economica come l’attuale e con un sistema di sicurezza sociale che prevede ammortizzatori sociali solo per una parte dei lavoratori[2]. Lo stesso governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nella sua ultima relazione annuale ha indicato i rischi incombenti su 1,6 milioni di lavoratori atipici (questi ultimi sono oltre tre milioni, uno su otto).
Le dimensioni della povertà e della precarietà sono indici potenti del malessere italiano, eppure sono i grandi assenti nel dibattito pubblico sull’economia italiana: il governo ha scelto una strategia attendista, con pochi interventi e molte professioni d’ottimismo, ma tutto il ceto politico, senza distinzioni, sembra avere poche idee e ancor meno progetti, se non uno stereotipato richiamo alla crescita da rilanciare; il mondo dell’informazione, a sua volta in crisi di credibilità e in debito d’ossigeno a causa della recessione che ha falcidiato gli introiti pubblicitari, non offre contributi significativi alla discussione. Così sfuggono ad ogni considerazione sia le cifre che illustrano la grave penalizzazione del lavoro dipendente, sia l’esistenza di ampie aree di economia criminale e anche di schiavismo.

1. Esclusi e diseguali

L’Italia è fra i paesi europei con le maggiori diseguaglianze nella distribuzione del reddito. L’indice di Gini – che misura appunto la disparità nella distribuzione della ricchezza all’interno di un paese – è da noi particolarmente alto, a quota 32, contro una media dell’Europa a 15 che non supera 29. Detto in altri termini, in Italia la fetta di Prodotto interno lordo spettante al lavoro dipendente è scesa più che in altri paesi europei: dal 70% circa degli anni settanta si è scesi a meno del 50% nel 2007; nell’Unione Europea siamo intorno al 62%[3]. Sono indicatori di un sistema produttivo che arretra, si fa via via più ingiusto e smette di proporsi obiettivi collettivi d’integrazione e di sicurezza sociale, perché in parallelo cresce la precarietà e si assottiglia il sistema di protezione di disoccupati e sottoccupati. Il welfare, quando va bene, è affidato alle famiglie. La stessa crescita della diseguaglianza non è affatto neutra: due studiosi inglesi – Richard Wilikinson e Kate Pickett – hanno mostrato come le società più diseguali siano meno solide e più esposte al crimine, alla diffusione dell’ignoranza e alla crescita di indicatori negativi come il numero di detenuti, di gravidanze minorili, di malattie psichiche[4]. È un ribaltamento del principio caro ai teorici del liberismo, oggi dominanti nel pensiero economico e nell’opinione pubblica, secondo il quale l’intraprendenza individuale e la spinta all’arricchimento sono il motore dello sviluppo economico e di conseguenza del benessere sociale.
L’altro grande omissis nel discorso corrente riguarda l’economia criminale, per quanto sia indagata e denunciata in una miriade di inchieste giudiziarie e giornalistiche. Basta citare i titoli di alcuni libri-inchiesta usciti negli ultimi tempi per evocare il morbo che sta erodendo il tessuto economico e civile del nostro paese: A Milano comanda la ‘ndrangheta; Mafia export. Come ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra hanno colonizzato il mondo; Mafia pulita[5].
Intanto cresce lo schiavismo, che riguarda soprattutto i lavoratori immigrati, impiegati sia nelle fabbriche sia nei campi, spesso senza contratto, sempre in condizioni di godimento solo parziale dei diritti di cittadinanza: nell’insieme, e con le dovute distinzioni, per l’economia italiana è una forma di delocalizzazione interna, a cominciare dalla decantata piccola e media economia dei distretti. La sorte dei raccoglitori di olive, arance, pomodori, ma anche le condizioni di lavoro nell’edilizia, sono gli aspetti più vistosi dello schiavismo made in Italy: anche qui alcuni libri-inchiesta hanno raccontato scomode verità, relegate tuttavia negli spazi della cronaca e delle “questioni sociali”, in modo da offuscare la vera natura del sistema di produzione nazionale, che esercita ormai forme di sfruttamento illegale su vasta scala. Qualche titolo, senza pretesa di esaustività: Uomini e caporali. Viaggio fra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud; Morte a 3 euro. Nuovi schiavi nell’Italia del lavoro; Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente, anche l’Italia[6].
Economia criminale e brutale sfruttamento del lavoro stanno segnando questo scorcio di inizio secolo in un paese che intanto allenta il suo impegno antimafia e affronta il fenomeno migratorio lanciando ingiustificati allarmi sulla sicurezza e promuovendo politiche di esclusione dei cittadini stranieri, autentico parafulmine del malessere italiano. Si governa con la paura e si rinuncia a governare l’economia.

2. Capitalismo incestuoso

Il capitalismo nazionale ha caratteri familiari, poggia su alcune dinastie che si perpetuano con alterne fortune: per anni la pubblicistica ha lodato, a volte esaltato questa peculiarità italiana, per quanto sia in contraddizione con lo spirito del capitalismo e della concorrenza. Si è arrivati a coprire o negare certi aspetti familistici più che familiari della nostra imprenditoria. La novità più vistosa degli ultimi anni, è la natura incestuosa del capitalismo nazionale, che si è adattato alla finanziarizzazione rimanendo sotto il controllo di un nucleo ristretto di personaggi, uniti attraverso una fitta rete di legami familiari, patti formali e informali nella guida di grandi aziende e grandi banche, a loro volta connesse da insane relazioni, al punto da rendere quasi grottesco il richiamo ricorrente alle virtù della libera concorrenza. La stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato, in un’indagine conoscitiva sulla “corporate governance” di banche, assicurazioni e finanziarie pubblicata all’inizio del 2009, non ha mancato di esprimere giudizi sferzanti: «Con riferimento ai legami personali», si legge in un passaggio, «l’analisi svolta indica come l’80% dei gruppi esaminati presentino all’interno dei propri organismi di governance soggetti con incarichi nella governance di gruppi concorrenti. Tali società comprendono i principali gruppi bancari ed assicurativi italiani, rappresentando il 96% circa dell’attivo totale del campione»[7]. L’intreccio di incarichi multipli, deleghe, patti di sindacato è un male endemico e fa sì che il capitalismo italiano sia guidato da un nucleo circoscritto di soci, con ruoli che si scambiano e alcuni cda strategici – come quelli di Mediobanca o delle Generali[8] – nei quali siedono padroni, manager, banchieri che in teoria dovrebbero esprimere le “pulsioni animali” della concorrenza e in realtà tengono in pugno le leve strategiche dell’economia nazionale.
Come se non bastasse, alle inclinazioni incestuose si sommano scandali e spregiudicate operazioni finanziarie, che continuano a caratterizzare la storia recente del nostro capitalismo. Nell’arco di pochi anni, abbiamo assistito ai crac Cirio e Parmalat, in una singolare mistura di imperizia imprenditoriale e pirateria finanziaria; alle scalate a Telecom, all’insegna delle scatole cinesi e del controllo di minoranza, lucrando sugli effetti dell’ideologia delle privatizzazioni; all’ascesa di improvvisati immobiliaristi desiderosi di entrare nei più importanti cda, come in altri tempi si puntava all’ingresso nei circoli dei canottieri; alla tragica scoperta dei conflitti d’interesse fra controllori e controllati: il caso Fiorani-Fazio docet.

3. La vera natura della crisi

Tutto questo avviene in una fase economica segnata, a livello globale, da un’acuta finanziarizzazione del sistema. Si stima che sui mercati finanziari del pianeta esista una massa di prodotti “derivati” pari a dodici volte il prodotto interno lordo mondiale. Non solo risparmiatori e investitori, ma gli stessi manager hanno via via allentato la connessione con l’economia reale. Qualche anno fa Luciano Gallino aveva indicato nella logica dell’azione di breve periodo, tesa ad aumentare i valori di Borsa, una degenerazione del sistema delle imprese[9]. La recessione ha messo a nudo questi meccanismi. Oggi Guido Rossi, in un saggio dedicato alle norme e alla prassi degli assetti societari, non esita a bollare i rinnovati richiami all’etica, anziché a regole codificate, come «un’implicita ammissione di impotenza di fronte alle perversioni del capitalismo finanziario»[10].
Rossi dà giudizi sferzanti sullo specifico caso italiano e in particolare sulla pratica di formare «minoranze precostituite per il controllo in modo non fisiologico» di grandi società, «attraverso l'uso e l'abuso di strumenti in sé leciti»[11]. I patti di sindacato e altri accordi “parasociali”, dice Rossi, hanno preso il sopravvento, relegando gli azionisti-investitori al ruolo di semplici comparse, in un mercato dominato dalla liquidità: «Di fatto, allo stato attuale, il mercato finanziario del nuovo capitalismo è interamente nelle mani degli speculatori, mentre chi produce è costretto a recitare un ruolo da comparsa»[12]. Le Borse somigliano sempre più a dei casinò, avverando un’antica profezia di John Mynard Keynes.
Del resto il tracollo del mutui sub prime ha trascinato in una crisi globale il capitalismo finanziario, ma non ha impedito sostanziosi arricchimenti per manager e istituti bancari, che sono riusciti ancora una volta a socializzare le perdite privatizzando i guadagni. L'Italia, rispetto ad altri paesi, è stata meno colpita dagli effetti del “credito tossico”; la recessione non ha cambiato gli equilibri di potere né mutato la natura e gli obiettivi del nostro capitalismo, controllato da una cerchia di "oligarchi", con l'esecutivo eletto democraticamente deciso ad astenersi da ogni intervento diretto e da ogni proposito di ricerca di un “bene pubblico” più ampio e più condiviso degli egoismi privati. Continua a fare scuola il motto neoliberista secondo il quale lo stato non è la soluzione dei problemi, bensì il problema: una visione ideologica così forte che nemmeno i clamorosi salvataggi pubblici del sistema bancario (700 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti di Barack Obama) sono riusciti a scalfirla. Sotto questo profilo, anche in Italia esiste un “partito unico” che unisce l'oligarchia economica e il ceto politico, ma la rinuncia di quest'ultimo a interventi e progetti che non siano di sostegno alle imprese e – genericamente – alla ripresa e alla crescita quantitativa delle produzioni, segna la subordinazione definitiva della politica all'imprenditoria e alla finanza.
È per questo che non esistono in Italia seri e duraturi piani di lotta alla povertà o di estensione delle tutele sociali, e meno che mai progetti di riforma del sistema produttivo. Il “partito unico” che governa economia, finanza e politica non vuole alcuna innovazione, non pensa alla redistribuzione del reddito, né a interventi strutturali per far fronte alla crisi ambientale che sta sconvolgendo il pianeta: è strutturalmente alieno da propositi del genere. La sua logica è quella, mutuata dalla finanza, del breve e brevissimo periodo. Perciò il “sistema paese” – come continuano a chiamarlo i media, con un linguaggio da corsi per manager – insiste nella sua politica di riduzione del costo del lavoro, fino ad accettare la discriminazione degli stranieri e lo schiavismo, in un'impossibile corsa al ribasso sui mercati internazionali, e prosegue nella sua politica di sussidi pubblici a poche grandi aziende.
In questa eclissi del concetto stesso di bene comune, “mamma Fiat” è destinata ad esempio a proseguire ad oltranza nella sua singolare esistenza d'impresa di stato (in quanto sussidiata dallo stato) che non esita a delocalizzare all’estero le proprie produzioni quando è conveniente, senza che si metta mano – finalmente – a un piano di riconversione che prenda atto del declino del trasporto privato, dovuto a evidenti ragioni ambientali e alla saturazione fisica degli spazi. Diventa anche inevitabile, per altri versi, che l’obiettivo pratico e ideologico della crescita venga supportato col ricorso a massicce “grandi opere” di dubbia utilità e a un consumo di territorio su vasta scala, con la complicità forzata degli enti locali, spinti dalla crisi della finanza pubblica e da normative ad hoc a compensare la riduzione delle entrate tributarie con la concessione ai privati di licenze d’edificazione, in modo da utilizzare gli oneri di urbanizzazione che ne derivano per la gestione corrente dei servizi[13]. Il risultato è un’inarrestabile cementificazione del territorio e la formazione di una pericolosa bolla immobiliare.

4. Le vie d’uscita

In sintesi, possiamo dire che la recessione globale e la crisi di sistema in corso sono affrontate dai poteri pubblici e dall’oligarchia economica con intenti esorcizzanti: da un lato si allarga leggermente la borsa dei sussidi per mantenere una relativa pace sociale, dall’altro si attende che arrivi “la ripresa” e tutto torni come prima. Il mantra recitato in pubblico è quello della crisi finanziaria accidentale causata dai “titoli tossici”: si tratterebbe quindi di una breve pausa nel percorso della crescita economica. In questa logica, evidentemente, non vi è spazio né per ascoltare gli allarmi sul disastro ambientale e climatico da iperproduzione lanciati ad esempio dal Rapporto Stern[14], né per esaminare letture diverse della crisi globale. Si arriva così a ipotizzare, con puri intenti demagogici e di rassicurazione sociale, nuovi tagli della pressione fiscale, al fine di “rilanciare gli investimenti” della fascia più ricca della popolazione, incuranti dell’enorme deficit pubblico e della ormai utopica correlazione diretta fra taglio delle tasse, maggiori investimenti, aumento dell’occupazione. Nel frattempo, molto prosaicamente, si sceglie di rimpinguare le casse dello stato varando l’ennesimo scudo fiscale: un altro colpo alla credibilità dello stato come esattore e al senso di responsabilità dei cittadini, in un paese che è corroso –al limite della bancarotta – da un’evasione contributiva endemica: le stime oscillano fra i 100 e i 150 miliardi di introiti fiscali sottratti allo stato ogni anno[15].
Francesco Gesualdi, uno dei “non economisti” che discutono d’economia restando fuori dal coro del pensiero accademico ufficiale, ha eccepito che stiamo attraversando una crisi di sovraproduzione, e non una “semplice” crisi finanziaria: «Col manifestarsi della crisi finanziaria, anche il marcio è venuto a galla: intere economie si sono inceppate per l’incapacità dei consumi di assorbire la produzione»[16]. La locomotiva dell’economia della crescita, dice Gesualdi, è finita nella scarpata e si sta cercando di rimetterla in carreggiata, iniettando denaro nel sistema bancario e finanziando le imprese. Ma ci sono forti dubbi che quest’operazione sia possibile: «Le risorse si stanno esaurendo, il clima sta impazzendo, le tensioni sociali si stanno aggravando, per evitare il tracollo dovremo passare dall’economia della crescita, all’economia del limite, dall’economia del cowboy all’economia dell’astronauta, ma anche dall’economia della precarietà all’economia della sicurezza, dall’economia dell’avidità all’economia dei diritti»[17]. Un cambiamento del genere comporta una profonda revisione del sistema produttivo e degli stili di vita, in sostanza un’uscita dal consumismo, quindi una profonda riorganizzazione sociale, da realizzare per gradi ma affrontando nel frattempo gli effetti sociali della recessione: disoccupazione, tensioni sindacali, pulsioni autoritarie. Alex Langer, a suo tempo, parlava di “conversione ecologica”. La cronaca però ci consegna fallimenti storici, come il vertice di Copenhagen sul cambiamento climatico, e una debole disposizione a ragionare in termini di sistema e con una proiezione verso le generazioni future. Cresce invece la stretta autoritaria sulle società “occidentali” e cresce la retorica sullo “scontro di civiltà”, una retorica che rischia d’essere la premessa a conflitti globali per l’accesso alle risorse. L'ipotesi che siamo di fronte a una strutturale crisi di sovraproduzione, preludio alla consunzione della logica consumista, è così spiazzante che si preferisce semplicemente ignorarla, senza nemmeno discuterla. Ma nel frattempo le funeste previsioni che si addensano sul futuro del pianeta cominciano a convincere anche gli scettici e le ricadute nel vissuto quotidiano delle persone si fanno ogni giorno più evidenti.
Riprendendo uno slogan caro al “movimento di Porto Alegre”, potremmo dire che un altro mondo, più che possibile, è necessario, ma è impossibile ignorare che anche solo l’ipotesi di un cambiamento del genere ha bisogno di un contesto ideologico, culturale, informativo aperto e volto alla ricerca: niente del genere – al momento – si avvista all’orizzonte.



[1] Cfr. CARITAS ITALIANA, FONDAZIONE ZANCAN, Famiglie in salita. Rapporto 2009 sulla povertà in Italia, Il Mulino, Bologna 2009.
[2] L'indennità di disoccupazione è toccata nel 2007 solo al 26% dei disoccupati, cfr. Rapporto sui diritti globali 2009, Ediesse, Roma 2009, p. 229. Stimano un 20% complessivo T. BOERI, P. GARIBALDI, Un nuovo contratto per tutti, Chiarelettere, Milano 2008.
[3] Cfr. P. CARNITI, L'Italia, la crisi, il lavoro, in “Lo Straniero”, n. 112, ottobre 2009, pp. 38-68.
[4] Cfr. R. H. WILKINSON, K. PICKETT, La misura dell'anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici, Feltrinelli, Milano 2009.
[5] C. CARUSO, D. CARLUCCI, A Milano comanda la 'ndrangheta, Ponte alle Grazie, Milano 2009; F. FORGIONE, Mafia export. Come 'ndrangheta, cosa nostra e camorra hanno colonizzato il mondo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009; E. VELTRI, A. LAUDATI, Mafia pulita, Longanesi, Milano 2009.
[6] A. LEOGRANDE, Uomini e caporali. Viaggio fra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano 2008; P. BERIZZI, Morte a 3 euro. Nuovi schiavi nell'Italia del lavoro, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008; A. MANGANO, Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente, anche l'Italia, Terrelibere.org 2009.
[7] AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, La corporate governance di banche e assicurazioni, www.agcm.it, 2009, p. 147.
[8] Cfr. R. CUDA, La ragnatela del leone, in “Atreconomia”, n. 111, dicembre 2009, pp. 15-18.
[9] Cfr. L. GALLINO, L'impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005.
[10] G. ROSSI, Il mercato d'azzardo, Adelphi, Milano 2008, p. 31.
[11] Ivi, p. 58.
[12] Ivi, p. 70.
[13] Cfr. P. RAITANO, Il fallimento pilotato dei Comuni italiani, in “Altreconomia”, n. 111, dicembre 2009, pp. 19-22.
[14] Cfr. N. STERN, Un piano per salvare il pianeta, Feltrinelli, Milano 2009.
[15] CARITAS ITALIANA, FONDAZIONE ZANCAN, Famiglie in salita. Rapporto 2009 sulla povertà in Italia, cit., p. 245.
[16] F. GESUALDI, Una crisi tutt'altro che passeggera, in www.cnms.it, 2009.
[17] Ibidem.
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