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Governo del capo e crisi delle istituzioni

Fortunato Musella

Un cambio di rotta si è registrato negli ultimi anni nella cultura politica italiana, che ha fatto propri in poco tempo gli imperativi del maggioritario e del decisionismo dopo aver conosciuto come tratto caratterizzante l’ideale consociativo del compromesso. Nella patria del “parlamentarismo integrale”, si è puntato sulle capacità e la legittimazione del leader di governo per innescare un processo di rinnovamento delle istituzioni. Di fatto il sistema politico italiano è sembrato sempre più muovere verso logiche tipiche dei regimi presidenziali[1], senza necessità di una riforma sistematica dell’impianto dei poteri. La bipolarizzazione del formato e della dinamica del sistema dei partito, l’indicazione del leader di coalizione nella scheda elettorale in posizione di capolista, il ruolo assunto dalle posizioni di apice all’interno dei partiti, la personalizzazione stimolata da nuovi e vecchi media, sono tutti elementi che hanno assicurato al capo dell’esecutivo una legittimazione (quasi) diretta.
Non mancano esempi di felice valorizzazione del leader di governo in Italia. Nella sfera locale, l’introduzione formale dell’elezione diretta dei vertici dell’esecutivo ha dato vita ad una nuova fase nei comuni italiani, subito battezzata “primavera dei sindaci” o “rinascimento metropolitano”. Anche nelle regioni italiane le riforme di fine anni novanta hanno influenzato i principali indicatori del rendimento istituzionale[2], così che il costituirsi di un rapporto non mediato fra leader e cittadinanza è sembrato aprire uno spiraglio di rinnovamento. Tuttavia la valutazione dei primi sviluppi della democrazia di mandato apre a considerazioni più critiche per quanto avviene al centro del Paese, per la concentrazione di risorse politiche, economiche e mediatiche a disposizione dell’attuale leader di governo. A tale livello, si apre un vero e proprio paradosso. La presenza di Silvio Berlusconi ha dato un contributo importante per l’affermazione della politica bipolare in Italia. Tuttavia il permanere del “fattore B” si presenta come elemento anomalo che non «trova pari in nessuna democrazia consolidata e contraddice i principi e le forme della teoria democratica liberale»[3].
Mentre il presidenzialismo come la lezione statunitense mostra in modo chiaro si basa su un’accorta distribuzione di poteri e competenze fra organi costituzionali, il nuovo impianto che si sviluppa al centro del sistema politico italiano porta con sé una serie di contraddizioni e tensioni. Primo, nell’ambito del rapporto fra governo e parlamento, per la sottrazione all’assemblea di importanti spazi di azione nel processo deliberativo, e l’ancora scarsa attribuzione di strumenti di controllo sull’operato dell’esecutivo. Secondo, fra politica e magistratura, per il reiterato tentativo di delegittimare il giudiziario per la sua presunta politicizzazione: fa scuola lo scontro sul “lodo Alfano”, e l’ultimo affondo di Berlusconi contro la Corte costituzionale. Infine, nel rapporto fra primo ministro e Presidente della Repubblica, due cariche monocratiche che entrano in rotta di collisione in quanto portatrici di due diversi modelli di cultura politica e comunicazione: come vedremo, la logica populista che esalta il principio di investitura diretta entra sempre più spesso in collisione con l’idea liberale della divisione dei poteri. Si tratta di linee di frizione che aprono a scenari poco rassicuranti, e che spingono molti osservatori ad interrogarsi sulla natura e il destino della democrazia italiana.

La lezione americana

L’America: il paese dei presidenti. È questa l’immagine che subito si fa presente nella mente dei cittadini, seguendo un’associazione immediata fra potenza americana e leader che hanno guadagnato nel corso del tempo la centralità mediatica mondiale. Secondo una linea di continuità che dalla “presidenza imperiale” di Roosevelt passa attraverso gli anni sessanta dei Kennedy, fino ad arrivare ai più recenti sviluppi legati al nome di Barak Obama, primo carismatico presidente di colore a presentarsi sul soglio della Casa Bianca. Gli Stati Uniti si sono raccontati negli ultimi decenni principalmente attraverso la figura e l’azione dei suoi presidenti.
Ciò che è meno noto è che il regime presidenziale non sempre ha avuto buona fortuna nel Nuovo Continente. Al 1885 risale l’opera Congressional Government di Woodrow Wilson, che con chiarezza pone l’attenzione sulla centralità del ramo congressuale nell’architettura dei poteri nord-americana. Il rafforzamento presidenziale ha costituito di fatto un’evoluzione istituzionale relativamente recente, legata a particolari sviluppi socio-economici e al costituirsi di un determinato circuito mediatico fra capo del governo e cittadinanza. A cominciare dai primi decenni del ventesimo secolo, le instabilità economiche, emerse in tutta evidenza con la crisi del ’29, nel periodo della cosiddetta «grande depressione», e il clima di emergenza nel quale viveva il Paese, posero la necessità di un riequilibrio istituzionale. Risultato che venne poi raggiunto non solo dotando la presidenza di nuovi strumenti di governo ma anche instaurando, attraverso le nuove potenzialità offerte dai mass-media, un rapporto di tipo diretto fra presidente ed elettorato. La costruzione del nuovo regime si basava sul passaggio della figura del presidente da funzionario pubblico, che aveva principalmente un potere relegato nella sfera esecutiva, a leader popolare, che rappresentava la nazione e ne interpretava la volontà. Gli aggettivi che alcuni acuti osservatori accostarono al nuovo tipo di presidenza aiutano ad identificare il nuovo corso: si parla di «presidenza retorica» o di «presidenza personale», per sottolineare la crescente autonomia presidenziale dal parlamento e anche dai partiti[4].
Tuttavia mano a mano che crescevano i poteri – e il consenso – del presidente, si rafforzavano anche quegli organi di garanzia e contrappeso al potere monocratico. Se è vero che il legislativo non ha poteri per sfiduciare il presidente, è altrettanto vero che esso ha sufficienti poteri per condizionarlo. Ad esempio, esso ha sviluppato strumenti per supervisionare le scelte dell’esecutivo e dei suoi apparati amministrativi. Non a caso il legislativo statunitense è considerato fra le assemblee più efficaci al mondo. Basterebbe pensare alle difficoltà incontrate da Obama nell’avvio dei piani di riforma della sanità, per rendersene conto. Allo stesso modo la Corte Suprema statunitense, l’istituzione che meglio di tutte incarna e simboleggia il principio della divisione dei poteri, ha mostrato un attivismo crescente, tanto da far parlare di «magistratura imperialista»[5].
Al pari dell’Italia dei nostri giorni, gli stessi Stati Uniti hanno dunque subito un processo di presidenzializzazione. Ma con tempi molto più lenti, e strategie istituzionali molto più accorte. Da una parte ad un presidente forte corrisponde un congresso autorevole e difficile da domare, dall’altra il controllo di costituzionalità delle leggi è assicurato da autorevoli organi di garanzia. Niente di più lontano da quanto sta avvenendo nel sottosistema governo-parlamento in Italia, dove l’organo legislativo non può che arrancare davanti all’inesorabile processo di espansione dell’esecutivo nel processo di formazione dell’agenda e di produzione delle decisioni.

Presidente contro Parlamento

“Chi è eletto dal popolo ha diritto a governare”. Una posizione, di per sé accettabile, che va diffondendosi sempre di più nei dibattiti politici di questi giorni, e che reclama la preminenza istituzionale nel nostro ordinamento del leader indicato dall’elettorato. E che dimentica però troppo frettolosamente che anche nei sistemi ad investitura diretta del premier si realizza un duplice canale di legittimazione elettorale: il cittadino anche laddove può scegliere il governo, tanto più elegge il parlamento. Ed anzi, come visto, negli Stati Uniti il congresso rappresenta il più potente parlamento del mondo, realizzando la formula «istituzioni separate, congresso poderoso»[6].
Nel nuovo sistema maggioritario italiano, di contro, il pericolo è che il Parlamento venga assoggettato alla volontà della maggioranza, e quest’ultima al volere del primo ministro, che in virtù del voto popolare possa rifiutare ogni contrappeso liberale. Non mancano dati e prove empiriche che mostrino come vi sia una chiara tendenza verso l’espansione degli spazi normativi dell’esecutivo, sia attraverso l’uso di strumenti di decretazione autonoma sia attraverso l’influenza sui lavori parlamentari. Il primo ambito che segnala il rafforzamento dell’esecutivo è quello della decretazione d’urgenza, secondo una linea di sviluppo che affonda le proprie radici già negli anni ottanta, ma che trova nel quarto governo Berlusconi la sua espressione più evidente[7]. Si può, infatti, constatare che nel primo anno della sedicesima legislatura il 53% dei provvedimenti presentati dal governo al Parlamento, se si escludono i disegni legge di ratifica dei trattati internazionali, è costituito da atti di conversione di decreti legge. Il ricorso a tale strumento normativo cresce rispetto al secondo governo Berlusconi, che aveva conservato fino ad oggi il primato con il 42,4 di decreti legge sulla produzione legislativa complessiva, e distanzia di molto il più vicino governo Prodi, che si era invece fermato ad una percentuale del 27,5[8]. Il trend indicato esprime la volontà politica di oltrepassare le consuete procedure dell’iter legislativo ordinario, alla ricerca di strade più rapide e meno concertate di produzione normativa. Per ben quindici volte, inoltre, la maggioranza ha deciso di blindare l’approvazione dei decreti leggi attraverso lo stratagemma della richiesta della questione di fiducia. Completano il campo anche l’uso di altri strumenti normativi del governo: nel primo anno del governo Berlusconi si sono registrati 25 decreti legislativi e ben 87 decreti presidenziali. Non si tratta solo di dati numerici: anche le analisi qualitative confermano che all’aumento degli atti del governo con forza di legge corrisponde anche il rilievo politico di tale produzione normativa.
Il ruolo del governo in Parlamento sembra, inoltre, doversi ancora più approfondire in futuro. Sempre più frequenti e sostenuti sono, infatti, i progetti di riforma dei regolamenti parlamentari che dovrebbero assicurare velocità decisionale agli interventi dell’esecutivo presso le due camere. Si noti, infatti, che nell’annoso dibattito sulla riforma dei regolamenti parlamentari, nel corso della XVI legislatura si è sviluppato un certo orientamento politico e dottrinario che presenta l’esigenza di rafforzare la posizione dell’esecutivo sul versante della programmazione dei lavori e delle dinamiche del procedimento legislativo. Si è ad esempio giunti a concepire l’introduzione di una corsia di preferenza per i provvedimenti del governo ritenuti particolarmente rilevanti per l’attuazione del programma, così che la dichiarazione di priorità di un disegno legislativo da parte governativa comporti una drastica riduzione dei tempi per la sua discussione e approvazione. È difficile dedurre dalle tendenze descritte la tesi del declino del parlamento italiano, per la multidimensionalità del ruolo e delle funzioni delle assemblee che non si limitano alle attività di produzione normativa. Tuttavia la tensione governo-parlamento per il controllo sul processo deliberativo rimane di tutta evidenza, e sembra vedere senza dubbio il legislativo cedere il passo.

La magistratura come “corpo politico”

«L’anomalia italiana non è Silvio Berlusconi, l’anomalia italiana sono i pm comunisti e i giudici comunisti di Milano»: così interveniva il capo del governo in collegamento telefonico alla trasmissione televisiva Ballarò, il 27 ottobre 2009. Concludendo che la magistratura politicizzata costituisce ormai la vera opposizione all’azione dell’esecutivo. E dimenticando allo stesso tempo che gli organi di garanzia, di cui si può dare anche per scontata una certa politicizzazione, devono proprio agire nelle democrazie liberali da argine all’arbitrarietà del potere politico. Come avevano ben chiaro i federalisti americani, per limitare il potere bisogna iniziare col dividerlo.
Il contrasto fra politica e magistratura ha radici profonde, e ha trovato negli anni novanta la sua manifestazione più piena. L’attivismo dei pubblici ministeri nel periodo di tangentopoli è stato reso possibile anche da fattori di ordine strutturale, per la progressiva estensione degli spazi di autonomia e di capacità di autoregolamentazione dei pm in Italia. In quegli anni, con il sostegno dell’opinione pubblica e la piena attenzione dei mass media[9], l’azione giudiziaria si trovava spesso a varcare i confini fra politica e magistratura, facendo anche ricorso a mezzi straordinari, come ad esempio la carcerazione preventiva. La tensione fra organi dello stato è divenuta però aperto contrasto con l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi, una figura che con il suo impero mediatico e finanziario non era stato al di fuori dalle dinamiche di potere primo-repubblicane, e che stimolava una vera e propria “guerra giudiziaria”: «dopo aver perseguito i politici della prima repubblica, i magistrati si trovavano di fronte come Presidente del Consiglio una persona che combinava le due posizioni di politico e di imprenditore dando quindi adito a duplici sospetti»[10]. Una guerra che si presenta nella sua evidenza con l’affermazione di una pseudo democrazia di mandato. È allora che sempre più spesso al principio per il quale chi gode della legittimazione popolare non può essere subordinato ad alcun altro potere si fanno seguire concreti punti di azione politica: l’immunità alle più alte cariche dello Stato e una chiara posizione sulla necessità di riforma del sistema della giustizia.
Le recenti vicende sul “lodo Alfano” insieme esemplificano e rilanciano tali tendenze, presentando il più aperto attacco alla Corte costituzionale da parte di un capo di governo nel corso della storia repubblicana. Come è noto, la Consulta ha ritenuto illegittimo il provvedimento che sottraeva i vertici della politica al giudizio della magistratura: una decisione che ha come effetto immediato la riapertura di due processi a carico del premier Silvio Berlusconi, per corruzione in atti giudiziari dell'avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset. Altrettanto immediato è stato l’attacco del premier alla Corte costituzionale e al Presidente della Repubblica, accusati di essere parziali e di sinistra. La Corte costituzionale non è, dunque, secondo il Presidente del Consiglio un organo di garanzia ma un organo politico. Molti esponenti del centrodestra hanno poi espresso la loro solidarietà al premier, talvolta con attacchi alla Consulta che non hanno precedenti. Ad esempio, secondo Maurizio Gasparri, presidente del gruppo Pdl in Senato: «La Corte, un tempo costituzionale, non è più un organo di garanzia, perché smentendo la sua giurisprudenza ha emesso una decisione politica, che non priverà il Paese della guida che gli elettori hanno scelto e costantemente rafforzato di elezione in elezione».
Ritorna così un tema classico del costituzionalismo moderno, quello della divisione dei poteri, per mezzo del combinato disposto della dichiarazione di superiorità del potere esecutivo rispetto agli altri e della pretesa della sua intangibilità, se non della sua impunibilità. Non si può negare che il rafforzamento dell’esecutivo nel corso degli anni novanta e dello schema bipolare di competizione politica hanno fatto in modo che l’azione del giudice costituzionale assuma i tratti di sfida all’esecutivo[11]. Una dinamica che ha condotto ad un abbassamento del numero di pronunce di incostituzionalità, così che nel quindicennio di transizione italiana si riscontra la tendenza della Corte ad evitare la collisione con le forze di governo. Tuttavia l’attrito fra potere governante e organi di garanzia, per i suoi contenuti e i suoi toni, sempre più sembra attaccare il nucleo centrale delle democrazie liberali, per il quale il governo degli uomini debba essere sottoposto a quello delle leggi, la forza sottomessa al diritto.

Due Presidenti, in rotta di collisione

A dispetto delle prescrizioni più consolidate della modellistica costituzionale, l’aumento del potere del primo ministro non è stato accompagnato in Italia da un ridimensionamento del ruolo e dei compiti del Presidente della Repubblica. Gli eventi degli ultimi anni hanno mostrato come questi due diversi sviluppi siano tutt’altro che incompatibili.
Da una parte il leader di governo può usufruire del surplus di legittimazione (quasi) diretta che il nuovo impianto maggioritario gli garantisce. Sviluppa un rapporto diretto con i cittadini che non dipende più dalle vecchie intermediazioni partitiche. E tuttavia, nonostante queste rilevanti premesse, il capo di governo rimane imbrigliato nel circuito instabile della costruzione e riproduzione del consenso che lo sottopone quotidianamente al vaglio dell’elettorato. La forza e il carisma dei nuovi leader si trova spesso a confrontarsi con la fragilità dovuta all’esposizione mediatica[12].
D’altra parte il capo di stato può fare leva su una base di sostegno più duraturo. Il meccanismo dell'elezione parlamentare, con la clausola dei due terzi nei primi tre scrutini, lo pone come soggetto super partes e garante dell’equilibrio istituzionale, anche se poi capace di spostare, soprattutto nei momenti di crisi, l’ago della bilancia dei poteri. È per questo che la sua immagine non sembra legarsi a nessuna delle forze in campo. Basta dare uno sguardo ai sondaggi che misurano la percezione di questa istituzione da parte dei cittadini per ritrovare il Presidente della Repubblica al vertice delle classifiche della credibilità[13]. Il Capo dello Stato si è attestato nel corso del tempo come il depositario della fiducia collettiva.
I due presidenti si presentano dunque nel secolo appena iniziato come due figure che godono di ottima salute. Ma la loro crescita non può camminare a lungo su binari paralleli. Il caso Eluana Englaro è stato eloquente nel mostrare la possibilità di scontro fra i due vertici. Al rifiuto del Presidente della Repubblica di firmare il decreto che ordinava di proseguire l'alimentazione artificiale, per i profili di incostituzionalità che ne emergevano, Berlusconi ha replicato duramente, dicendosi pronto a cambiare il testo costituzionale per incrementare i suoi poteri di urgenza. L’apice di governo si contrappone poi nuovamente al Colle a proposito della legge in materia di sospensione del processo penale per le alte cariche dello Stato. Più di recente, dopo le dichiarazioni di Berlusconi al congresso del Ppe, con le quali questi ribadisce il concetto della politicizzazione della magistratura italiana, Giorgio Napolitano in una nota ufficiale diffusa dal Quirinale si rammarica per il «violento attacco contro le fondamentali istituzioni di garanzia in una importante sede politica internazionale».
Non si tratta solo di episodi. La tensione fra i due presidenti esprime una più generale tendenza, il cortocircuito fra due diversi circuiti del consenso e logiche di azione politica. Per la natura e la storia di Berlusconi, si può condividere, infatti, che «la tensione tra populismo e costituzionalismo che attraversa e scuote le democrazie occidentali è sviluppata nel nostro Paese su basi conflittuali molto più ampie»[14]. Il leader del governo sempre più attinge alla grammatica del populismo, facendosi interprete di una maggioranza immaginaria, misurata più con i dati di sondaggio che sul responso puntuale delle urne. Manifestando una volontà di potenza che sembra infastidirsi al segno dell’opposizione, nel Parlamento e nell’opinione pubblica. Il Presidente della Repubblica riporta invece l’attenzione sui limiti che la Costituzione pone all’esercizio del potere governante, nel rispetto del ruolo e dei limiti degli organi dello stato. La divergenza sul ruolo che il governo debba assumere in una democrazia è quanto mai radicale.

Conclusioni

Una delle tendenze più vistose e generalizzate delle democrazie contemporanee vede i vecchi attori di intermediazione di massa cedere il passo a una leadership che raccolga la propria legittimità a governare direttamente dalla base elettorale (e televisiva). Sempre più ha acquistato spazio il principio che sostiene che «la personalizzazione della politica sia ormai l’unica garanzia della sua democraticità: in considerazione della frammentazione delle classi, delle culture, delle identità. È alla persona candidata alla premiership di governo che si fa credito di capacità di integrazione, di gestione e si richiede un individuale rendiconto»[15]. In una fase di crisi delle istituzioni tradizionali, si guarda al capo come unico soggetto capace di indirizzo politico: «una nuova leadership personale e carismatica è chiamata così a riempire il vuoto della vecchia rappresentanza politica»[16].
Il caso italiano non fa eccezione, ed anzi, dopo il crollo del sistema dei poteri primo-repubblicano, presenta una delle più radicali inversioni di marcia a favore di formule di governo di tipo maggioritario. Ai vari livelli di governo, sono state introdotte riforme alle leggi elettorali e all’assetto istituzionale che hanno attribuito una nuova centralità alla figura del capo dell’esecutivo. È però al centro del paese che il quadro sembra più interlocutorio. Il combinato disposto di legittimazione plebiscitaria e concentrazione di risorse mediatiche e finanziarie nelle mani del Presidente del Consiglio può riproporre la concezione populista che fa del responso delle urne la consacrazione dell’unto dal popolo. Nello scontro fra primo ministro ed altri organi organi dello stato si registra così il contrasto fra due modelli di politica, l’uno incentrato sull’idea del contrappeso fra rami costituzionali, l’altro sul primato del potere governante. In questo contributo si sono presentate tre linee di frizione che rimandano proprio a questa più generale contrapposizione: la tensione fra governo e parlamento per il controllo sul processo legislativo, il cortocircuito fra esecutivo e magistratura in merito alla questione sull’immunità per le alte cariche istituzionali, la competizione fra i due presidenti del consiglio e della repubblica ai vertici dello stato. Che si consideri lo spazio normativo del governo o i limiti dell’esercizio del controllo giurisdizionale sull’operato dell’esecutivo, è in corso una battaglia a cui è legato strettamente il destino della democrazia italiana. E che sta già modificando profondamente i tratti delle nostre istituzioni, e della nostra cultura politica.

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[1] M. CALISE, Presidentialization, Italian Style, in T. POGUNTKE, P. D. WEBB, The Presidentialization of Politics: A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford University Press, Oxford 2005.
[2] F. MUSELLA, Governi monocratici. La svolta presidenziale nelle regioni italiane, Il Mulino, Bologna 2009.
[3] S. CECCANTI, S. VASSALLO (a cura di), Come chiudere la transizione. Il sistema politico italiano tra cambiamento, apprendimento e adattamento, il Mulino, Bologna 2004.
[4] J.K. TULIS, The Rethorical Presidency, Princeton University Press, Princeton, 1987; T.J. LOWI, The Personal President. Power Invested, Promise Unfulfilled, Cornell University Press, Ithaca-New York 1985.
[5] M.J. FRANCK, Against the Imperial Judiciary: The Supreme Court vs. the Sovereignty of the People, University Press of Kansas, Lawrence 1996.
[6] G. PASQUINO e R. PELIZZO, Parlamenti democratici, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 133-136.
[7] CIRCAP (2009), IV Rapporto sul Governo Italiano, Siena 2009; M. RUBECHI, Il procedimento legislativo nel primo anno della XVI Legislatura, in “Quaderni costituzionali”, n. 3, 2009, pp. 681-683.
[8] G. DI COSIMO, E le camere stanno a guardare, in “Osservatoriosullefonti.it”, n. 2, 2009.
[9] Cfr. F. AMORETTI, Mass media, azione giudiziaria e trasformazioni istituzionali. Alcune riflessioni a partire da “Tangentopoli”, in “Comunicazione Politica”, n. 1, 2000.
[10] M. COTTA e L.VERZICHELLI, Il sistema politico italiano, il Mulino, Bologna 2008, p. 261.
[11] P. PEDERZOLI, La Corte costituzionale, il Mulino, Bologna 2008.
[12] È questa l’altra faccia di Weber di cui parla Mauro Calise (Il partito personale, Laterza, Roma-Bari 2000).
[13] I dati raccolti periodicamente da Ilvo Diamanti, ne sono una chiara conferma. L’ultimo rapporto della ricerca “Gli italiani e lo Stato”, www.demos.it, ad esempio, registra per Giorgio Napolitano un orientamento di sostegno da parte del 70% del campione, con una parte importante, dunque, anche di strati significativi del centrodestra.
[14] F. AMORETTI, Comunicare è governare. Marketing e cultura politica del berlusconismo, in “Comunicazione Politica”, n. 1, 2004, p. 123. Più in generale, sullo scontro fra populismo e costituzionalismo nelle democrazie occidentali, si veda Y. MÉNY, Y. SUREL, Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2001.
[15] A. MANZELLA, Il parlamento federatore, in “Quaderni Costituzionali”, n. 1, 2002, p. 42.
[16] M. FOLLINI, Teoria, ideologia e prassi del berlusconismo, in “Il Mulino”, n. 2, 2006, p. 256.
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