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Eccezioni dello stato di diritto e imbarbarimento civile.
Centri di espulsione e respingimenti in Libia

Gabriele Del Grande

ROMA – Basaglia li chiamava «crimini di pace»[1]. E scriveva: «In questi ultimi anni va delineandosi sempre più chiara la compresenza di due tipi di guerra: la guerra imperialista e i movimenti antimperialisti presenti un po’ ovunque nel mondo; e la guerra quotidiana, perpetua, per la quale non sono previsti armistizi: la guerra di pace, con i suoi strumenti di tortura e i suoi crimini, che ci va abituando ad accettare il disordine, la violenza, la crudeltà della guerra come norma della vita di pace». Non trovo introduzione migliore per raccontare l’imbarbarimento civile e giuridico di questo paese. Un paese dove lo stato di diritto inizia a essere eroso a partire dalle frontiere geografiche e da quelle sociali. «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo» recita l’articolo 10 della Costituzione. Ma il nostro Paese i rifugiati li respinge in Libia, dove sono incarcerati e torturati per mesi e in alcuni casi per anni, prima di essere rimpatriati o di essere rivenduti dagli stessi poliziotti libici agli intermediari che organizzano la traversata del Mediterraneo. «La libertà personale è inviolabile» continua la Costituzione all’articolo 13. Ma la libertà di chi? Dei cittadini si risponderà. E che cosa fa sì che io sia più cittadino di un uomo che in Italia è emigrato 30 anni fa, o di un ragazzo che qui c’è nato, ma che in ogni momento rischia di essere tratto in arresto e espulso.
Vivono nel nostro paese da anni. Qui hanno moglie e figli. Ma l'Italia li rimpatria. Le vittime del giro di vite sulla clandestinità sono soprattutto “italiani”. Italiani tra virgolette, perché non hanno la cittadinanza, ma in Italia vivono da venti o trent’anni. Gente che ha avuto il permesso di soggiorno con le sanatorie, e che il permesso se l’è visto ritirare per scadenza termini, essendosi trovati senza datore di lavoro al momento del rinnovo. In vent’anni però in Italia uno si costruisce una vita, mette su famiglia. Famiglie che oggi rischiano di essere spezzate in due, in nome della sicurezza degli italiani senza virgolette. Veri drammi, che hanno portato alcuni a tentare il suicidio, bevendo flaconi di candeggina o tagliandosi i polsi. Oppure a imbottirsi di psicofarmaci per non impazzire durante l’attesa del rimpatrio, detenuti in uno dei 13 Centri di identificazione e espulsione (Cie) sparsi sul territorio italiano. Un’attesa che può durare fino a sei mesi.
Miguel è uno di loro. È ripartito senza bagagli, su un volo di linea per Lima lo scorso 30 settembre. Dopo 19 anni in Italia, impiegato come domestico presso le più facoltose famiglie romane, l’unico ricordo che avrà di questo paese è una pila. La porta nello stomaco. L’aveva ingoiata insieme a della candeggina due mesi fa, quando gli comunicarono che sarebbe rimasto al Cie di Roma per sei mesi anziché due, come previsto dal pacchetto sicurezza, entrato in vigore lo scorso 8 agosto 2009. Quando aveva lasciato il Perù nel 1990 sognava di mettere da parte abbastanza soldi, al massimo in un paio d’anni, e di tornare in America Latina per iscriversi alla facoltà di sociologia. Da allora però non lasciò più l’Italia. Per 20 anni ha lavorato come domestico e giardiniere presso facoltose famiglie della Roma bene. Prima sei anni nella villa di Anna Fendi, poi la famiglia Cavalli, due anni presso il generale dei carabinieri Paolo Bruno di Noia e infine il servizio all’ambasciata del Libano presso la Santa Sede. Il permesso di soggiorno? L’aveva ottenuto con la sanatoria Dini, quella del 1995, ma poi lo perse nel 2003. In quel periodo era impiegato in nero, e senza un contratto di lavoro non poté rinnovarlo. Una storia banalmente ordinaria. Una storia come quella di Jacob, che in Italia c’è dal 1980.
Quando gli azzurri di Bearzot vinsero i mondiali di calcio del 1982 in Spagna, Jacob viveva in Italia già da due anni. Era arrivato all'età di 19 anni, nel 1980, dal Camerun. Negli ultimi tempi a Roma lavorava al locale Jogodo, in via di Torre spaccata 127. Tutto in nero perché non aveva il permesso di soggiorno. Gli era scaduto durante la lunga convalescenza seguita a un grave incidente stradale di cui porta ancora le cicatrici sul cranio. A Roma aveva anche un magazzino di strumenti musicali. Li affittava per serate e concerti per guadagnarsi la vita. E aveva addirittura una associazione culturale, registrata a nome della moglie, l’associazione “Black and White”. La moglie già. Perché dopo 29 anni in Italia uno ha tutta la vita nel nostro paese. Jacob oltre alla moglie ha un figlio. Un bambino di 10 anni, a cui ancora la madre non ha spiegato dove sia finito il papà da quando lo ha fermato la polizia, lo scorso 31 agosto, per un banale controllo dei documenti. Da allora è rinchiuso al Cie di Roma, e ogni giorno che passa Jacob teme il rimpatrio. Soprattutto per la sorte della moglie e del bambino. Non sarebbe la prima famiglia né l’ultima a essere distrutta da un provvedimento di espulsione.
Mlek in arabo significa Angela. Si chiama così la bambina di otto mesi in braccio a J.I. Continua a sorridere mentre mi guarda. Suo zio Hosein mi versa un tè alla menta nel salotto di casa. Alla fine la vittima della storia sarà soprattutto lei. Mlek è nata a Torino, dove fino al 30 settembre viveva felice con la mamma e il papà. Poi però è successo che le hanno portato via il padre. È successo a un posto di blocco all'uscita dell'autostrada a Torino. Il papà non ha il permesso di soggiorno e allora l'hanno portato al Cie di Torino. Lui si chiama Raffa, viene da Khouribga, la capitale dell'emigrazione marocchina in Italia. Ha 35 anni, e in Italia vive da quando era un ragazzo. È arrivato a Torino nel 1997, dodici anni fa. Nel 2007 si è sposato con J.I., una ragazza di Casablanca. E poi è arrivata Angela, Mlek. Il primo permesso di soggiorno Raffa lo ottenne nel 2002, con la sanatoria Bossi-Fini. Due anni dopo però, il permesso gli venne ritirato per una condanna che ha pagato con due anni di carcere. Con la nascita della bambina Raffa avrebbe sistemato anche i propri documenti. Sua moglie infatti aveva trovato un datore di lavoro per la sanatoria delle badanti. Fece la domanda il 7 settembre. Suo marito avrebbe potuto richiedere il permesso di soggiorno per la coesione familiare e farsi fare un contratto dalla ditta dove stava lavorando in nero come imbianchino. Ma le cose sono andate diversamente. Il 23 settembre Raffa è stato rimpatriato. Mlek e sua madre sono rimaste da sole. Lui non potrà rimettere piede in Italia prima di dieci anni, per il divieto di reingresso. A meno che non decida di attraversare di nuovo il Canale di Sicilia via mare. Il ricorso presentato dal suo avvocato è stato inutile. La piccola Mlek crescerà senza il padre, in attesa che lui ritorni clandestinamente. E niente esclude che tra vent’anni sia lei ad essere espulsa. Come è accaduto a Floriana, una ragazza albanese di 27 anni, che in Italia vive da quando era un’adolescente e che adesso rischia il rimpatrio in un paese che ormai non le appartiene più.
«Io là nun conosco nessuno – dice in un ottimo italiano e con una accentuata cadenza romanesca – Io è la che me sento straniera, capisci? Non qui. Qui c'ho tutti l'amici. Qui c'ho mi marito. Questa è casa mia». Classe 1982, Floriana abita in Italia dal 1995, da quando aveva 13 anni. Qui vive metà della sua famiglia. Un fratello maggiore e una sorella, anche lei più grande, sposata con un militare italiano, di stanza presso la base di Cesano. In Albania sono rimaste soltanto la madre, una sorella e un fratello. La storia di Floriana è segnata da un errore commesso da adolescente. Un errore che chi è immigrato non si può permettere di fare, pena l'impossibilità di vedersi rilasciare un permesso di soggiorno. All'età di 14 anni infatti Floriana fu arrestata per furto a Massa Carrara. All'epoca frequentava delle cattive compagnie, una banda di albanesi che la mandavano a rubare negli appartamenti. Venne arrestata e condannata a due anni e tre mesi. Nonostante fosse minorenne, non capendo una parola di italiano, e non avendo avuto un adeguato servizio di interpretariato, non disse mai di essere minorenne e venne reclusa in una casa circondariale per adulti. La rilasciarono dopo tre mesi e 25 giorni, con l'obbligo di firma per altri due anni. Di nuovo, non avendo la più pallida idea delle conseguenze cui sarebbe andata incontro, Floriana scappò dalla comunità che la ospitava e andò a Roma.
All'età di 18 anni si sposò con un ragazzo italiano, a Roma. Quando andò in Questura per fornire le sue generalità per ottenere il permesso di soggiorno, uscirono fuori i suoi precedenti penali e la condanna non ancora scontata. Ufficialmente risultava latitante. Pertanto, a distanza di quattro anni dai fatti, venne arrestata di nuovo e portata al carcere di Rebibbia, dove stavolta scontò per intero i due anni che le rimanevano. Il periodo di detenzione le fece perdere anche il permesso di soggiorno per il matrimonio, perché quando si recarono a casa sua per verificare se risiedeva con il marito, lei si trovava in carcere. In definitiva, da quando vive in Italia non ha mai avuto un permesso di soggiorno regolare. E non potrà averlo neanche con una sanatoria, avendo un precedente penale. Eppure ha passato più anni in Italia che in Albania. Un particolare di cui però non tiene conto la legge. Né chi la applica. Così, quando la fermarono a un banale posto di blocco a San Giovanni, a Roma, due mesi fa, la polizia la portò direttamente al centro di identificazione e espulsione di Ponte Galeria, a Roma, da dove ora rischia di essere presto rimpatriata. Sta provando di tutto per restare in Italia, che ormai è il suo paese. Ha chiesto un permesso umanitario, ma gli è stato negato. E allora ha fatto la sanatoria. Come badante. E adesso aspetta la risposta. La sanatoria è scaduta il 30 settembre e sono pochi quelli che dai Cie sono riusciti a partecipare.
«La sanatoria è stata fatta per i clandestini e noi siamo clandestini. Ma come facciamo a trovare un datore di lavoro se siamo chiusi qua dentro?» Hasan parla a nome di tutti, in un ottimo italiano. Al Cie di Crotone sono in molti a porsi la stessa domanda. Mohamed è uno di loro. Ha 47 anni, compiuti lo scorso 2 settembre dietro le sbarre del Cie. Nel nostro paese ha passato 20 anni, metà della vita. Il permesso di soggiorno gli è scaduto quattro anni fa, nel 2005. Motivo? Non aveva trovato un datore di lavoro disposto a metterlo in regola per rinnovare il permesso di soggiorno. Aspettava la sanatoria da allora. Ma la fortuna gli ha voltato le spalle. Un controllo di documenti nel momento sbagliato e è finito dietro le sbarre. «Dopo tanti anni di sacrifici, a una persona, così è come se l’ammazzi».
Come se l’ammazzi. La stessa cosa mi diceva una rifugiata eritrea a Malta lo scorso 18 giugno 2009. Ero stato invitato dal Jesuit Refugee Service a parlare delle condizioni dei rifugiati in Libia, in un confronto pubblico con un dirigente del ministero dell’interno maltese. «Signor dirigente – disse la donna – voi dite che riportando gli emigranti in Libia si salveranno molte vite da possibili naufragi in mare. Ma che differenza c’è tra morire in mare e morire in una prigione libica? Così una persona è come se l’ammazzi». E di quante morti poi si può morire. Una donna stuprata da un poliziotto libico non muore un po’? E un ventenne che passa due o tre anni rinchiuso in una cella di quattro metri per sei con altre trenta o quaranta persone, non muore alla sua giovinezza? Tutta questa barbarie nel nome di chi? Nel nome di quale sicurezza? Di quale legalità? Se è la legalità stessa a morire lungo il confine, giacché l’Italia riconosce il diritto d’asilo nella sua Costituzione, quotidianamente stracciata con i respingimenti in mare verso la Libia. Da maggio 2009 sono la prassi. Almeno 1.300 persone sono state rispedite oltre mare nel paese del colonnello Gheddafi. La metà circa erano potenziali rifugiati. Somali e eritrei in fuga dalla guerra – i primi – e dalla dittatura – i secondi. Alcuni di loro, 24 persone, hanno denunciato l’Italia alla Corte europea dei diritti umani, attraverso l’avvocato Anton Giulio Lana. Ma anche con un ricorso pendente, a cinque mesi dal loro respingimento, si trovano ancora in carcere. Detenuti in condizioni inumane. Condizioni che avevo avuto modo di verificare di persona durante un mio viaggio in Libia nel novembre 2008.
La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno sull’altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall’Italia e dall’Unione europea.
I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono visite da mesi. Alcuni alzano la voce: «Aiutateci!». Un ragazzo allunga la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di cartone. C’è scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso è quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga. Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che è ancora vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica è impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l’Italia siglò con Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione, e spedì oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti in centri fatiscenti, in attesa del rimpatrio. Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a visitare quei campi.
«La gente soffre! Il cibo è pessimo, l’acqua è sporca. Ci sono donne malate e altre incinte». Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa ancora il vestito che aveva quando l’arrestarono tre mesi fa, ormai ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il marito. Non avevano documenti e furono portati a Zlitan. Da allora non vede il marito, che nel frattempo è stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due figli a Tripoli. Di loro non ha più notizie. Viveva in Libia da tre anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli arrestati, all’Europa non aveva nemmeno pensato.
All’Europa invece aveva pensato Y.. C’aveva pensato e come. Disertore dell’esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato per Lampedusa due mesi fa. Ma venne fermato in mare. Dai libici. Da quel giorno è rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello stato d’arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un poliziotto gli sussurra qualcosa all’orecchio. Lui fa cenno di sì col capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde «Everything is good». Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni risposta sbagliata gli può costare un pestaggio. Siamo sotto un regime e la polizia è stata addestrata per anni alla tortura. Il direttore del campo, Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non sarà deportato. Nel giro di qualche settimana sarà trasferito al centro di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli.
A Misratah i detenuti sono tutti rifugiati eritrei. Al momento della nostra visita c’erano più di 600 persone, comprese 58 donne e alcuni neonati. Dormono in camere senza finestre di 4 metri per 5, fino a 20 persone, per terra. Di giorno possono uscire alla luce del sole, in un cortile. Le condizioni sono decisamente migliori di Zlitan. Ma il livello morale dei prigionieri è a pezzi. «Siamo torturati, mentalmente e fisicamente – dice S.. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro». J. ha 34 anni. È in Libia dal 2005. È stato arrestato 13 volte. E da tre anni è bloccato nel campo di Misratah: «Non abbiamo commesso reati, stiamo solo chiedendo asilo politico. E non ci viene concesso. Diteci almeno perché? Diteci che cosa sarà di noi!».
Complice una forte mobilitazione internazionale, da un paio d’anni la Libia ha bloccato i rimpatri degli eritrei e ha iniziato a concentrarli nel campo di Misratah. Poco più di un centinaio di persone sono state liberate e accolte in vari paesi europei, tra cui l’Italia, grazie alla mediazione dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Per tutti gli altri non c’è nessuna prospettiva, se non la fuga. Eppure due anni fa andava molto peggio. Allora il campo di concentramento degli eritrei e degli etiopi si trovava 2.000 km a sud di Tripoli. In pieno deserto, al confine con il Sudan. Li arrestavano sulla costa e li trasportavano stipati come bestiame dentro container arrugginiti, che sotto il sole diventavano forni, alla volta di un luogo il cui nome fa ancora venire i brividi a chi ci è passato: Kufrah. La versione ufficiale delle autorità libiche è che il centro di Kufrah sia chiuso. Ma nei sobborghi di Tripoli non ci crede nessuno. Anche tra gli ultimi eritrei arrivati la storia è sempre la stessa: fermati dalle pattuglie libiche nel deserto, portati al carcere di Kufrah e poi venduti dalla polizia agli intermediari che organizzano i viaggi verso la costa del Mediterraneo. Oppure abbandonati in pieno deserto, lungo la frontiera, di nuovo dentro i container.
Esistono tre tipi di container. Servono a trasportare i migranti arrestati sulle rotte per l’Europa nei vari campi di detenzione libici. Il più piccolo è di fatto un pick-up furgonato. Quello medio è l’equivalente di un camioncino. E quello più grande è un vero e proprio container, blu, con tre feritoie per lato, trainato da un auto rimorchio. A Sebha ce n’è uno per ogni tipo. Il colonnello Zarruq, direttore del centro di detenzione della città alle porte del Sahara, mi invita a salire sulla motrice Iveco Trakker 420. Mi indica il tachimetro: 41.377 km. Nuovo di pacca. È rientrato la sera precedente da Qatrun, a quattro ore di deserto da qui. A bordo c’erano 100 prigionieri, arrestati alla frontiera con il Niger. Saliamo nella scatola di ferro, dalle scale posteriori. L’ambiente è claustrofobico anche senza nessuno. Difficile immaginarsi cosa possa diventare con 100 o 200 persone ammassate una sull’altra. I raggi del sole filtrati dalla polvere illuminano le taniche di plastica vuote, a terra. Su una c’è scritto Gambia. L’acqua è il bagaglio essenziale per i migranti che attraversano il deserto.
Sul carico di illegali c’era anche una famiglia di Sikasso, in Mali. Padre, madre e bambino. Il piccolino ha otto anni. I loro nomi compaiono sulle liste dei prossimi aerei pronti a partire. Nei primi dieci mesi dell’anno, soltanto da Sebha, hanno deportato più di 9.000 persone. Gli ultimi tre aerei sono atterrati in Mali la settimana prima del nostro arrivo, con grande gioia dei funzionari che da Roma e Bruxelles fanno pressioni su Tripoli perché la Libia diventi il nuovo gendarme delle frontiere europee. Costi quel che costi. Anche un pezzo di Costituzione.

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[1] F. BASAGLIA, Crimini di Pace, Einaudi, Torino 1975, p. 83.
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