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La crisi della cultura sportiva

Giuseppe Sorgi

Introduzione

Lo sport italiano sta vivendo una drammatica crisi istituzionale, finanziaria e di valori. Emergono contraddizioni profonde: da un lato, lo sport è popolarissimo, ha una forza economica, sociale e comunicativa unica; dall’altro, esso appare sempre più esagerato, sovradimensionato, esasperato, senza regole. Il rischio è la perdita di credibilità dell'intero sistema sportivo.
Ripercorrendo a grandi linee le tappe di tale crisi è opportuno soffermarsi su alcune spie rivelatrici del fenomeno in atto. Offrirò, così, alcune chiavi di lettura: il processo di delegittimazione delle autorità sportive; la problematica del doping; il fenomeno della “quotidianizzazione”; la professionalizzazione esasperata dello sportivo praticante.

Il processo di delegittimazione delle autorità sportive

Il primo piano d’analisi prende le mosse dal tema generale del “rispetto delle regole”. Poco seguito. Semmai invocato solo dopo che palesi infrazioni regolamentari sono state commesse. Tale richiamo sta radicandosi in un processo, quasi sotterraneo e subdolo, di “de-legittimazione” delle autorità sportive. A più livelli. Vorrei iniziare la mia analisi dal gradino più prossimo allo sportivo comune sia esso praticante che spettatore.
L’attività sportiva è una competizione inquadrata in un sistema rigido di regole ove centrale risulta il concetto d’autorità. Vale a dire dove emerge l’esigenza dell’esistenza di quel soggetto giudicante riconosciuto da tutti i partecipanti alla gara, che attraverso il suo agire fa rispettare le regole, e soprattutto offre legittimità al risultato finale della competizione[1].
Quante volte quotidianamente, in particolare il lunedì, sentiamo o mettiamo noi stessi in discussione l’operato dell’arbitro che ha diretto la partita della nostra squadra del cuore? In questi semplici atteggiamenti tenuti quasi automaticamente, è possibile ritrovare un tratto caratteristico della società contemporanea tanto è radicata nella nostra cultura una certa avversione nella figura rappresentante l’autorità.
È possibile giocare una partita di calcio senza l’arbitro? Oppure è pensabile portare avanti una gara di pattinaggio artistico senza il giudice? A me pare difficile. L’arbitro sbaglia, può cadere in errore, ma affinché sussista una competizione regolare è essenziale che lui ci sia. Perciò, quando ci troviamo a “contestare” l’arbitro di turno non “rifiutiamo” la sua “presenza”, ma casomai mettiamo in dubbio la sua bravura, la sua buona o cattiva capacità di “leggere” e “dirigere” la partita. Non c’è un arbitro infallibile, c’è forse un arbitro che sbaglia meno degli altri. Non di più.
Dobbiamo convenire, dunque, che nello sport è necessario un “Leviatano”, un’autorità che ordina la relazione tra gli sportivi altrimenti conflittuale (“homo homini lupus”) in quanto frutto di una idea problematica dell’uomo e quindi dell’atleta: un uomo, e pertanto un atleta, che senza l’autorità, senza l’arbitro, non è in grado di confrontarsi regolarmente; e che nella competizione vede prevalere non il più bravo, ma il più furbo. Come spesso accade. Purtroppo.
Si ritorna, pertanto, al generale “rispetto delle regole” e al particolare “rispetto delle decisioni di chi le regole le fa applicare”. Rispettare l’arbitro e le sue decisioni è già un impegno importante. Siamo certi che tutti lo fanno? Ho i miei dubbi. Dunque il problema è più complesso. Per cercare una via d’uscita è necessario riflettere intorno alla legittimità dell’autorità impersonata nella figura dell’arbitro o del giudice. E tale apertura passa dal riconoscimento che ognuno degli sportivi praticanti e non (si pensi agli stessi tecnici, dirigenti, tifosi) offre alla figura dell’arbitro fornendogli la legittimità del suo operato.
Secondo la mia opinione, è nella scelta consapevole e libera dei concorrenti di gareggiare, attraverso regole stabilite a priori, con un arbitro riconosciuto come “custode” del regolamento, che risiede l’autorevolezza dell’arbitro e soprattutto la legittimità del risultato finale della competizione sportiva.
Solo se a priori, in uno schema prettamente contrattualistico, cediamo nella pratica sportiva all’autorità/arbitro il nostro “diritto a tutto”, meglio conosciuto come “il farsi giustizia da sé”, allora potremo avere un risultato legittimo. E in questa maniera avremo sicuramente un arbitro dotato di maggiore sicurezza nel suo operato perché legittimato dal consenso offertogli. E dunque non autoritario, ma autorevole nelle decisioni.
Questo schema può essere allargato agli spettatori. Se io liberamente e consapevolmente scelgo di andare a guardare una partita allo stadio o di seguirla in tv, in maniera preventiva, accetto le regole del gioco e fornisco il riconoscimento “pubblico” come autorità alla figura dell’arbitro per il quale si ammette anticipatamente la possibilità di poter sbagliare in “buona fede”.
La contestazione del risultato o dell’operato dell’arbitro dopo la competizione perdono senso in quanto attraverso la critica, la polemica sterile, fine a se stessa, si negherebbe – da parte dello spettatore – la decisione di accettazione del patto iniziale per mezzo del quale si “crea” l’autorità dell’arbitro formalizzata attraverso l’acquisto del biglietto, dell’abbonamento allo stadio, oppure alle varie forme di pay-Tv.
Il riconoscimento della legittimità su cui si fonda l’operato delle istituzioni sportive, tuttavia, non deve derivare esclusivamente da un’approvazione unilaterale, cioè dal basso verso l’alto. Anche da parte delle istituzioni sportive, impersonate nella figura dell’arbitro, è doveroso restituire alla base (sportivi-appassionati), in un’auspicabile relazionalità circolare, alcuni elementi (capacità d’arbitrare, competenza, bravura, disponibilità al dialogo) che provino il tentativo di agire per il meglio nell’interesse di tutti i partecipanti e del gioco stesso e soprattutto che evitino la rappresentazione dell’intera classe arbitrale quale “casta” chiusa e autoreferenziale. Altrimenti il rischio è alto.
Il concetto richiamato di “buona fede” dell’arbitro, infatti, apre un ulteriore ambito di riflessione. È chiaro, in teoria, che chi è preposto ad applicare le regole di uno sport durante il suo svolgimento (arbitri, giudici, ...) o, dopo l’evento sportivo, a fini sanzionatori (giustizia sportiva), deve seguire una giustizia generale – come applicazione corretta delle regole e del diritto sportivo o, almeno, di criteri comunemente accettati (per le prestazioni atletiche) – ma anche una giustizia particolare di tipo “distributivo”, attraverso un atteggiamento di imparzialità. Tuttavia, nella pratica, è facile riscontrare diversi episodi in cui tale capacità non traspare chiaramente. Anzi. In alcuni casi, coloro i quali rappresentano l’autorità riconosciuta (arbitri, giudici, ...) dimostrano di non essere ‘equi’, vale a dire non risultano capaci nel momento di applicare norme e regole al caso concreto, soprattutto per rilevare – laddove la quantificazione del risultato necessiti una valutazione di merito della prestazione (es. nella ginnastica artistica, nei tuffi, …) – la differenza tra le performance, al fine di decretare una vittoria o di stabilire un’intera classifica.
Questa mancata imparzialità può riguardare anche la produzione del diritto sportivo e il governo o l’autogoverno dello sport. Qui risulta centrale il principio di eguaglianza di partenza e di pari opportunità per tutti coloro che desiderano intraprendere un’attività sportiva o entrare nel mondo dell’agonismo. Eventualità non sempre tenuta in considerazione.
Un mancato agire secondo criteri di giustizia, da parte delle istituzioni sportive, unito alla non consapevolezza del riconoscimento fondativo dell’autorità arbitrale, da parte sia dello sportivo praticante che dello spettatore, creano un’alchimia con cui fornire una chiave di lettura provocatoria per alcune quotidiane polemiche sportive nostrane: l’abuso dello strumento della moviola risulta “dannoso” come “dannose” devono essere considerate le trasmissioni televisive che vi prosperano e che tendono ad un’eccessiva ricerca della certezza dell’applicazione della regolamentazione attraverso l’introduzione di innovazioni tecnologiche.
L’opera incessante di delegittimazione della classe arbitrale, operato sia dall’esterno che dall’interno, conduce ad un pericoloso scollamento tra la base, costituita dai numerosi tifosi-appassionati, e il vertice – le istituzioni sportive – screditando l’intero sistema sport.

La problematica del doping

L’impianto “prettamente” formalistico dell’organizzazione sportiva basato sullo schema regola-sanzione non riesce a risolvere ulteriori problematiche. Pensiamo all’uso sempre più frequente da parte di numerosi atleti di sostanze dopanti. Anche se un giorno riuscissimo a formalizzare un perfetto sistema giuridico che regolamenti e sanzioni tale pratica, saremmo sicuri che non ci sarà più nessuno disposto a doparsi? Credo sia difficile. Un comportamento sportivo, relegato al mero rispetto delle regole, seppur formalmente corretto, non è sufficiente a superare le cogenti tematiche di carattere etico con cui l’agire sportivo si confronta nella pratica quotidiana. E in particolare il tema del doping svela un campo di indagine dove paradossalmente si sta radicando la possibilità di concepire l’attività medico-farmacologica in ambito sportivo quale tecnologia applicata al corpo umano. Considerare, infatti, l’atleta come uomo slegato dal suo corpo, come se fosse una vera e propria macchina[2], prevedendo su di esso interventi correttivi estranei al semplice allenamento, produce dal punto di vista teorico la liceità dello sviluppo di pratiche farmacologiche finalizzate al miglioramento della prestazione. E la realtà sportiva che ci circonda non è poi così lontana da questo orizzonte. Anzi.
Se si riflette su come la scienza medica abbia già concretizzato le proprie conoscenze tese al potenziamento della prestazione attraverso farmaci del tutto innocui nei confronti della salute dell’atleta che ne fa uso, tutto si traduce in una giustificazione più ampia dello stesso approccio medico-sanitario all’uso di doping. Si cade su un presupposto discutibile: l’uomo è una macchina; e con ciò si offre una giustificazione ideologica per la pratica dopante. Gli ultimi “casi” di doping sono lampanti. Basti pensare a sport quali il ciclismo o l’atletica.
Questo scenario va esaminato più dettagliatamente focalizzando l’attenzione sul soggetto agente. L’atleta prima di scegliere i mezzi utili (es. sedute d’allenamento, programma di amichevoli, utilizzo dell’attrezzatura adatta, ...) per il raggiungimento di un determinato obbiettivo sportivo, deve aver già individuato il proprio traguardo (es. gareggiare alle Olimpiadi). Altrimenti, qualunque scelta operata riguardo ai mezzi risulterebbe vana e inutile. Prima di conoscere i mezzi efficaci e idonei (determinato programma d’allenamenti) per raggiungere un determinato obiettivo (gareggiare alle Olimpiadi) l’atleta deve aver chiaro non solo logicamente, ma anche consapevolmente, quale sia il fine (miglioramento della forma e delle prestazioni atletiche) che ha intenzione di raggiungere.
Allargando il discorso è possibile chiedersi: per l’uomo concepito come una macchina quale è il fine dello sport? È possibile rispondere in maniera affermativa limitatamente ad un fine che può essere individuato nel raggiungere il massimo grado di efficienza per il funzionamento meccanico. Ma quali sono i mezzi “giusti” per il suo raggiungimento? Un essere umano concepito attraverso i presupposti del meccanicismo mostra un limite fondamentale: essere incapace di riconoscere ciò che è intrinsecamente buono o retto e ciò che non lo è, se non nell’unica possibilità di procurarsi ciò che favorisce il buon automatismo dei suoi ingranaggi. In questo caso, i mezzi ritenuti utilizzabili per il raggiungimento del fine saranno riconducibili a tutto ciò che aumenta l’efficienza e l’efficacia della prestazione. Quindi anche il doping[3].
Concependo l’atleta come macchina la strada battuta nell’ultimo periodo è quella della deriva relativistica dell’etica stessa: ciascun individuo ha la possibilità di stabilire un criterio/parametro per l’individuazione dei mezzi e dei fini del proprio agire sportivo. Ognuno, così, ha una propria etica di riferimento e agisce di conseguenza anche a danno dell’altro. Sia esso l’avversario, il compagno di squadra, l’arbitro, il tifoso. Il ricorso al doping diviene uno dei tanti strumenti che ognuno ritiene opportuno utilizzare per procurarsi la vittoria che in questo modo diviene l’unico scopo da raggiungere a tutti i costi. La strada seguita è quindi l’esasperazione del raggiungimento dell’obiettivo. Il “fare risultato” è l’unica strada riconosciuta per “fare successo”. Una concezione dello sport che offre spazio solo “alla vittoria a tutti i costi”, mutila la dimensione sportiva nella sua interezza, coprendone o, nella gran parte delle volte, occultando volontariamente ciò che è funzionale alla sua stessa esistenza: la sconfitta[4].
Lo sport di vertice, sovraccaricato di valenze, perde la sua prerogativa di terreno in cui la sconfitta è accettabile, in cui l’insicurezza, la paura di perdere[5], insita in ogni essere umano, sono affrontate. La sconfitta non è più né accettata, né accettabile: va eliminata, rimossa nelle sue cause e nelle sue conseguenze, sublimata dalla spettacolarizzazione scavalcata con la truffa e con il doping.
Del resto il messaggio della vittoria ad ogni costo è vivo ad ogni livello, perché presente nella società. Gli adolescenti lo recepiscono sin da bambini, bombardati da personaggi presentati loro dai media come sempre vincenti. Una volta creato il mito, l’idolo, la corsa all’egocentrismo, all’affermazione incontrollata di sé, è aperta, sin dall’infanzia. Se poi questo mito è sportivo, l’interesse rischia di riassumersi tutto esclusivamente in un interesse per la vittoria, anziché primariamente per la pratica sportiva, creando o un pericoloso disadattamento o un abbandono precoce.

Il fenomeno della “quotidianizzazione”

Queste appena descritte rappresentano alcune forme che denotano come sia in atto un imbarbarimento della “vita sportiva”. Ve ne sono altre più sottili, ma che, per efficacia, hanno un peso altrettanto se non superiore a quelle appena rilevate.
Osserviamo ciò che sta accadendo attorno a due figure fondamentali dello scenario dello sport più popolare al mondo: il giocatore di calcio e lo spettatore.
Giocare una partita di pallone tra amici oppure essere il titolare in una squadra di calcio in un incontro della Serie A del Campionato italiano rappresentano gli estremi attualizzabili oppure solo fantasticabili di qualsiasi persona che gioca a calcio. Eppure, nel corso della sua formazione fino ai tempi moderni, il movimento calcistico non si è alimentato esclusivamente delle seppur numerose schiere di praticanti, ma ha calamitato intorno a sé un numero sempre crescente di appassionati, tifosi, di persone attratte dal fascino che il vedere una partita di calcio poteva o può ancora produrre.
Questo straordinario processo di diffusione non ha certo contribuito a far sì che il mondo-calcio rimanesse in un alveo protetto e definito della società moderna. Al contrario, lo sport del calcio è stato, ed è tutt’ora, immesso a pieno titolo in un sistema socio-economico ben definito da cui esso stesso trae e a volte subisce influenze. Con l’era della globalizzazione e del primato indiscusso della comunicazione, il football non ha potuto evitare di essere inglobato in un complesso meccanismo comunicativo, di cui è divenuto uno degli attori principali. In tal modo, si è venuto sempre di più a dilatare quello spazio dove i sogni di giocatore, professionista o no, si intrecciano con i sogni di chi il calcio non lo pratica, ma lo vive attraverso la visione del gioco in tv, mescolando in tal modo praticanti e appassionati in un unicum indissolubile. Tale omogeneizzazione produce delle conseguenze.
Nell’ultimo periodo – richiamando il passaggio indicato provocatoriamente nell’analizzare il processo di delegittimazione delle autorità sportive – deve essere evidenziata un’attiva intromissione dei mezzi di comunicazione nel mondo sportivo. Tale dato, unitamente al modo in cui i media trattano e utilizzano il fenomeno sport, concorre al mutamento della sua essenza ludica, che visti i straordinari risultati di popolarità, può essere reputata come l’unico elemento coagulante degli interessi delle due figure sopra citate.
Se un tifoso di calcio volesse cimentarsi, infatti, a tracciare un elenco di appuntamenti a cui un appassionato e un giocatore, fino alla fine degli anni ’80, non sarebbe mai mancato, per differenti motivi ovviamente, non incontrerebbe particolari difficoltà, in quanto questi erano rilegati a due precise giornate. Il giorno sacro, non solo per questioni religiose, rimaneva la domenica. Poi c’era un altro e unico appuntamento a cui non si poteva mancare: il mercoledì di Coppa. In queste due occasioni il calcio rappresentava la risorsa per evadere dalla routine settimanale in due precise giornate. Gli altri momenti della settimana erano dedicati ad altro.
Oggi, se ci si ferma a riflettere, si capisce bene come sia difficile, se non impossibile, ridurre a due sole giornate il programma dello sportivo e dello spettatore. È facile distinguere o scegliere quali siano gli appuntamenti sportivi fissi a cui non si può rinunciare? Si riesce a capire quale sia un programma veramente sportivo?
Rispondere a tali quesiti significa mettere in evidenza quel processo di cui lo sport in generale e il calcio in particolare è oggetto passivo. Durante il corso della settimana, ogni giorno, assistiamo ad una partita di calcio. Per non parlare dei programmi di approfondimento e quelli numerosissimi di contorno o, addirittura, quelli non sportivi, ma in cui il fenomeno sportivo entra di diritto perché capace di attrarre audience. In quest’ultimi c’è una vera e propria competizione tra politici, cantanti, scrittori e quando capita, di rado, qualche esperto sportivo per commentare l’avvenimento di turno. E nell’occasione in cui vi sia un atleta si fa in modo che non si parli di sport, ma di altro: della sua vita privata, delle sue passioni, il tutto condito con il sale del gossip e dello scoop.
Questo stato di cose pone lo sport e il calcio in maggior misura, perché attività sportiva più popolare, in un processo di quotidianizzazione che lo rende banale. Se esso, come sta accadendo, viene vissuto, sia da chi lo guarda ma anche da chi lo gioca, come routine, come quotidiana banalità, non come occasione particolare che capita, come avveniva in passato, per sole due volte alla settimana, perde la sua eccentricità. Scompaiono la sua dimensione festiva, extraquotidiana e proprio per questo il carattere eccitante e la capacità di far sognare perdono gran parte, se non tutta, della loro magia.
Senza dubbio, il calcio ha dimostrato nell’ultimo periodo di soffrire parecchi problemi. Tuttavia, se riflettiamo bene, tali problematiche possono essere rintracciate in una degenerazione di un fenomeno moderno come lo Sport che subisce e rispecchia tematiche sociali diffuse. Si pensi alla violenza, al già citato doping.
Il tema della quotidianizzazione, invece, proprio perché rappresenta un effetto dell’agire di un fattore del tutto esterno (mondo della comunicazione-economia), come aveva avuto modo di definirlo Fabrizio Ravaglioli già agli inizi degli anni ’90[6], tratteggia nel migliore dei modi il tipo di influenze con cui il mondo sportivo deve confrontarsi nei nostri giorni.
Il pericolo risiede proprio nell’assorbire le influenze esterne, razionalizzandole in regole organizzative e tecniche, che mutano definitivamente l’essenza ludica dello sport, facendo differenziare in maniera netta gli interessi dei praticanti da quelli degli spettatori, e creando in tal maniera un qualcosa di apatico, privo di qualsiasi motivo di interesse.

La professionalizzazione esasperata dello sportivo

L’eccessiva sovraesposizione mediatica del fenomeno sportivo si lega ad un’ulteriore degenerazione. Quella legata alla professionalizzazione esasperata dell’atleta.
La paura di perdere e quindi non stipulare un nuovo contratto, il concepire l’avversario quale “nemico” perché “concorrente economico” più che sportivo, la ricerca del risultato – e quindi dell’ingaggio – a tutti i costi, sono solo alcune delle manifestazioni di un crescente “professionismo esasperato”.
L’atleta, in passato, era considerato un modello soltanto tecnico, di cui si imitava il gesto atletico, il dribbling, il lancio, al massimo, con l’avvento della tv, il modo di esultare. Con la disponibilità dei denari degli sponsor, rispetto ai quali forse non ha molte colpe nel non saper resistere, lo sportivo/atleta è diventato un modello per altri comportamenti: l’uso di un deodorante, la merenda con quel cioccolato, la guida di un’automobile. Niente più.
In maniera marcata si va diffondendo l’opinione di praticare sport esclusivamente per ricevere un compenso economico elevato. Questa deriva può essere descritta attraverso un’espressione oramai comune: Gioco finché posso guadagnare e dunque lavoro finché mi realizzo come “prodotto economico”. In questa affermazione è l’attività lavorativa al centro di tutto. La priorità è data al lavoro e al suo mercato. La prestazione sportiva diventa l’unico fine dello sport. L’atleta e il gioco passano in secondo piano. L’attività può durare o terminare purché vi sia un riscontro economico. Non è necessario che al suo fondamento vi sia la “voglia” o la “gioia” di praticare uno sport. Centrale resta l’economicizzazione della stessa prestazione[7]. Parlare di “sfruttamento” non è azzardato. A livello teorico viene “mercificato” un bisogno legato alla sussistenza umana. Si pensi alla crescita delle spese per gli atleti migliori che conduce ad un indebitamento delle società sportive, a forme di cattiva gestione, fino all’alterazione illecita dello stesso funzionamento di uno sport.
Riguardo ai giovani, si mediti circa le sempre più crescenti attenzioni verso quelli “talentuosi” che da piccoli vengono “allontanati” dal proprio ambiente familiare, condizionato in molti casi, da situazioni di degrado sociale ed economico, per intraprendere in altri contesti ambientali una carriera sportiva che in pochi casi vedrà la concretizzazione.
Il tema della professionalizzazione esasperata si lega, dunque, al più generale rapporto tra sport ed economia.
In un sistema oramai pienamente commercializzato, lo sport produce ricchezza per chi lo gestisce e per chi lo vive come una professione. Questo è il vero punto critico dello sport contemporaneo. Fino a che punto la gestione economica è ancora un ambito dipendente per il fine dello sport e quando invece esso piega a sé lo sport e lo rende suo mezzo? Se si riflette bene, lo sport, nella sua dimensione economica, ha instaurato un regime di oligopolio in cui il fine è quello di primeggiare economicamente, conquistando così le quote maggiori dei diritti televisivi sulla trasmissione degli eventi sportivi o aumentando il valore delle proprie azioni quotate in borsa. La ricerca del profitto passa, in un “mercato globale dello sport”, per l’acquisto di giocatori eccellenti che catalizzano moltissime risorse economiche e, per questo, alla fine solo pochissime squadre possono acquistarli, venendo così meno uno dei principi fondamentali della giustizia nello sport: le pari opportunità di vincere[8].
Risultato di tutto ciò è il disincanto verso la pratica sportiva.

Prospettive

È necessario, quindi, creare un nuovo senso di responsabilità che solo un ritorno all’etica può assicurare. A mio avviso la complessità del rapporto sport, fenomeno sportivo, istituzioni e impresa pone in una posizione centrale il problema etico. Tenendo presente questo snodo, la mia considerazione vuole riscoprire a monte il nucleo attorno al quale ruotano tutti questi elementi, e cioè l’uomo. Qualunque iniziativa sottende il problema di scelte etiche, riguardo alla concezione e alla considerazione dell'uomo che ne usufruirà o che ne sarà protagonista. Il problema dell'agire e delle scelte storiche dell'uomo non sono questioni puramente tecniche o di strategia di marketing, ma implicano soprattutto l'uomo che è, fuor di metafora, “in gioco”.
Per questo sono convinto che ciò che accade a valle, nell’arena nazionale e internazionale, a livello sociale, economico, politico e sportivo dipende da ciò che sta a monte, nella visione e nella prospettiva che si offre all'uomo e alla sua intersoggettività di poter agire in un senso, piuttosto che in un altro. Penso che possa (e debba) diventare etica qualunque scelta che rispetti e realizzi la ricchezza-complessità dell'uomo. Per questo, anche quando si trattano questioni giuridiche, economiche e sociali attinenti lo sport, non bisogna perdere di vista ciò che può diventare momento positivo di stimolo, di ricchezza, e ciò che può, invece, deformare non solo l’esperienza individuale dello sport, ma anche il valore dell’evento sportivo stesso.
Centrale in quest’opera risulta il tentativo di stabilire quale sia il giusto posto dello sport nell’ordine dei sottosistemi di cui la comunità generale prende forma, quale sia il giusto fine dello sport all’interno dell’ordine globale dei fini stessi della società.
L’assunto che il fine dello sport e l’atto che lo realizza non possono e non debbono mai farsi mezzi per altri fini, come quelli economici, commerciali, politici, comunicativi, tecnici, garantisce una propria caratterizzazione del sottosistema sportivo nell’intero globale della società con conseguenze concettuali importanti.
Concependo il mondo sportivo come un mondo in piccolo creato attorno al suo fine tipico, si precisa all’esterno il confine di ciò che non può essere considerato sport. Non si negano pertanto possibili contatti e influenze da altre realtà sociali (politica-economica-medica-comunicativa-tecnica...), perché tali eventualità sono sempre probabili. Ma contemporaneamente, e in maniera decisiva, si sancisce all’interno della stessa pratica sportiva la necessaria concettualizzazione di una impossibilità che gli atti di altre realtà sociali, necessari, ma non sufficienti alla definizione dello sport, divengano essi stessi fini per lo sport e l’atto sportivo-primo divenga mezzo per il raggiungimento di altri scopi.
Questa mia breve riflessione vuole invitare serenamente, ma consapevolmente, a tentare di gestire le tante risorse che lo sport dà, a tutti i livelli, in modo che il vero e più profondo valore del gioco, cioè quello di essere e di istituire un contesto di azioni interumane regolate da norme condivise e accomunanti, non venga contraddetto o negato.
Pertanto, il mio auspicio è che l’aspetto etico possa cooperare in modo più stretto e coerente con tutti gli altri ambiti del mondo sportivo per una sorta di vigilanza culturale a che lo spirito di temerarietà, di sfida, di amore per lo sport non lascino spazi, per quanto possibile, a forme di degenerazione e di asservimento della libertà dell'uomo e, dunque, della sua dignità di persona e di sportivo. Ponendo così un termine a quo da cui partire per ulteriori riflessioni.

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[1] M. BERTMAN, Filosofia dello sport: norme e azione competitiva, a cura di G. Sorgi, Guaraldi, Rimini 2008, p. 40.
[2] Sul punto si tenga conto di G. VINNAI, Il calcio come ideologia, Guaraldi, Rimini 2009, pp. 32-37 (Fussballsports als Ideologie, Frankfurt am Main 1970, edito in Italia dall’Editore Guaraldi già nel 1971 e nel 2004).
[3] Anche a discapito dell’altro: sia questo l’atleta concorrente sia l’atleta compagno di squadra. Il che farebbe saltare il sistema di relazioni intra e inter personali su cui si fonda una pratica ludico-sportiva. Sul punto si tenga conto di A. DI GIANDOMENICO, Bioetica e doping, in G. SORGI (a cura di), Per un’Etica dello sport, Università degli studi di Teramo, Corso di Laurea Scienze giuridiche, economiche e manageriali dello sport, Atri, Dispensa A.A. 2008-2009.
[4] P. CREPAZ, Una cultura della sconfitta, per una nuova cultura della vittoria, in «Nuova Umanità» XXV, (2003/6) 150, pp. 717-728.
[5] Thomas Hobbes, profondo conoscitore della psiche umana, analizzando le passioni aveva affrontato tale tematica: cfr. De corpore, XXV, 13, p. 394; De homine, XII, 3, p. 603; Elementi di legge naturale e politica, I, 12, 1-2. Sul punto mi permetto di rinviare al mio Hobbes e la metafora della corsa, in M. G. CHIODI E R. GATTI (a cura di), La filosofia politica di Hobbes, Franco Angeli, Milano 2009, p. 178.
[6] Lo stesso Ravaglioli, riferendosi al calcio, definisce il fenomeno della quotidianizzazione come «un disturbo da aggressione parassitaria che genera indebolimento, estenuazione, irritazione distruttiva» (Cfr. F. RAVAGLIOLI, Filosofia dello sport, Armando, Roma 1990, p. 14).
[7] D. MIETH, Problemi etici posti dalla commercializzazione dello sport, PONTIFICIUM CONSILIUM PRO LAICIS, Il mondo dello sport oggi. Campo d’impegno cristiano, Libreria Editrice vaticana, Città del Vaticano 2006, p. 39.
[8] Cfr. G. FRANCHI, Appunti di etica sociale dello sport, Aracne, Roma 2007.
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