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L’impresa oltre la legalità: verso la responsabilità sociale

Luca Angelini

«Un’azienda che non sa fare altro che soldi è un’azienda povera».
Così si esprimeva circa 100 anni fa Henry Ford, anticipando di fatto un vasto fenomeno industriale che sarebbe maturato alla fine del XX secolo e che oggi si sta diffondendo nel mondo produttivo, noto con il termine responsabilità sociale dell’impresa (RSI).
Il monito dell’industriale americano conteneva già in forma embrionale l’idea di non concepire la fabbrica come una macchina isolata costruita per fare soldi, che subordina tutto e tutti all’obiettivo del profitto, ma, piuttosto, come una organizzazione finalizzata a generare valore, integrata con le realtà con le quali entra in contatto.
La differenza tra profitto e valore risiede nel fatto che il primo è un parametro economico, quantitativamente determinabile, che indica l’ammontare di ricchezza prodotta, indipendentemente dal modo in cui la si è generata. Il secondo afferisce alla dimensione morale dell’impresa, e riguarda la sua capacità di essere fonte di azioni positive nei confronti dei dipendenti, dei fornitori, della comunità, dell’ambiente circostante.
Tradizionalmente si è ritenuto – con poche eccezioni, tra cui quella sopra ricordata – che tra il profitto ed il valore vi fosse una sorta di incompatibilità. L’uno spiazzava l’altro. E su questo convincimento si è costruito il paradigma manageriale dominante nelle economie avanzate. La novità di questi ultimi anni consiste nel fatto che da più parti si sostiene, invece, che non solo i due termini non sono in contrasto tra di loro, ma che addirittura si richiamano a vicenda. Il valore perseguito attraverso azioni positive nei riguardi dei cosiddetti portatori di interesse è funzionale alla competitività, e quindi al profitto. Il profitto, in quanto capacità finanziaria da destinare anche ad iniziative ad alta intensità sociale, agevola la tutela del valore. Il profitto diventa il metro per misurare il valore.
Adottare un comportamento socialmente responsabile significa aumentare la reputazione ed il grado di fiducia dell’impresa da parte dei suoi interlocutori principali (dipendenti, clienti, fornitori, comunità) e alimentare così una maggiore capacità concorrenziale. Significa generare profitto tenendo conto di quanti stanno ora intorno all’impresa e di quanti verranno in futuro. Vuol dire integrare la politica di sviluppo dell’impresa con i bisogni della società.
La validità di questo modello sposta l’attenzione dell’impresa dalla legalità, quale osservanza delle norme cogenti che ne disciplinano le attività – fiscali, del lavoro, della sicurezza etc. – alla responsabilità, quale «integrazione volontaria di preoccupazioni sociali e ambientali nelle decisioni aziendali e nelle relazioni con i propri interlocutori» (art.2, comma 1, del D.Lgs. 81/2008).
È opportuno sottolineare il concetto di volontarietà perché è quello che contraddistingue la RSI. Per un’azienda assumere comportamenti socialmente responsabili implica andare al di là degli obblighi e degli adempimenti legislativi cui è tenuta a conformarsi e investire volontariamente nella correttezza delle relazioni con gli interlocutori interni ed esterni, nel capitale umano, nel progresso sociale e nel rispetto per l’ambiente.
La decisione di un’impresa di adottare comportamenti virtuosi è frutto di una libera scelta. Volontarietà significa puntare sull’impegno delle imprese verso iniziative che creano valore sociale, in una logica, fatta propria dalla Commissione europea nel 2006, di modello sociale europeo, basato su alta qualità della vita, eguali opportunità, inclusione e tutela ambientale.
Il passaggio dal profitto al valore corrisponde quindi a quello dalla legalità alla responsabilità. La RSI si fonda su alcuni principi: la coerenza, l’equità, la correttezza, la centralità della persona, la protezione dei clienti, la cittadinanza sociale, lo sviluppo sostenibile. L’impegno principale per l’azienda che ispira le sue prassi alla logica della responsabilità sociale consiste nel valutare le conseguenze prevedibili delle azioni imprenditoriali sui portatori di interessi legittimi, assumendo la piena responsabilità ed assicurando allo stesso tempo la coerenza di comportamenti.
Ne deriva la necessità di essere equi per assicurare una effettiva parità di trattamento, soprattutto nei confronti delle risorse umane, che devono disporre di buone condizioni di lavoro, di opportunità di crescita professionale e di informazioni trasparenti. Occorre poi tutelare gli interessi dei clienti comunicando in modo chiaro le politiche e le attività che possono influenzare le loro scelte.
Essere socialmente responsabili vuol dire quindi contribuire al benessere della comunità in cui si opera, alla soluzione condivisa dei problemi esistenti sul territorio ed alla crescita di relazioni basate sulla reciproca fiducia (capitale sociale). Ma vuol dire anche tutelare gli interessi delle generazioni future, riconoscendo la stretta interdipendenza tra decisioni aziendali e impatti ambientali, andando oltre il puro e semplice rispetto formale delle norme cogenti, impegnandosi per lo sviluppo e l’adozione di tecnologie innovative ed eco efficienti.
Questi principi si declinano in attività pratiche che vanno dalla solidarietà sociale ai servizi per il miglioramento delle condizioni lavorative del personale, fino all’impegno in opere di valore culturale e civile, tra cui, per esempio, il recupero ambientale.
È evidente che non è certo da oggi che si dibatte sul punto se l’impresa debba avere obblighi di natura morale, oltre che legale, nei confronti della società in cui opera. Ma vi sono dei fatti relativamente nuovi che conferiscono un carattere di maggiore attualità e rilevanza al tema. Tra questi figurano la crescente influenza che le imprese esercitano all’interno della vita quotidiana, l’ampliamento della fitta rete di relazioni che queste stringono con la società e la internazionalizzazione dei processi aziendali.
Vi è poi la maggiore capacità di informazione da parte dei consumatori, che rende più difficile tenere in ombra pratiche deplorevoli, e soprattutto il diverso e più incisivo ruolo che la territorialità esercita sulla competitività.
A quest’ultimo riguardo è bene evidenziare che il soggetto competitivo tende a spostarsi dal singolo operatore all’intero territorio in cui agisce, tanto da far ritenere che la gestione delle relazioni con l’ambiente circostante conti tanto quanto quella dei processi interni. L’allargamento dei confini aziendali al territorio di appartenenza rende ovviamente molto più attenta l’impresa alle esigenze che questo esprime, alle necessità che manifesta, alle attese che nutre. La territorialità spiega perciò la crescente attenzione verso la responsabilità, e tende a costituirsi come risposta alla globalizzazione, e quindi ad assumere in prospettiva un peso crescente.
I benefici economici della migliore gestione delle relazioni con i portatori di interesse non sono di facile misurazione e riguardano, in maniera più o meno intensa a seconda del soggetto a cui ci si rapporta, l’incremento della produttività del lavoro e della qualità del prodotto, la riduzione dei costi operativi e di quelli legati al ricambio del personale, l’aumento delle fedeltà dei clienti, il miglior rapporto con la pubblica amministrazione, il rafforzamento dell’immagine ed il miglioramento della gestione dei rischi finanziari.
È infatti elevato il consenso della pubblica opinione riguardo alla partecipazione delle imprese alla soluzione dei problemi sociali ed ambientali, tanto che a fare pressione in favore della RSI non sono solo i singoli cittadini ma le istituzioni, le multinazionali e le banche. Alcuni istituti di credito hanno iniziato ad inserire aspetti ambientali e sociali nelle tecniche di valutazione del rischio di credito alle imprese e a sviluppare strumenti finanziari che favoriscono il loro impegno ecologico.
Dall’epoca in cui operava Ford ad oggi le cose sono mutate grandemente, e ciò che prima poteva apparire come sensibilità riservata a pochi soggetti è diventata ormai un sentire comune e un dovere tipico di un’impresa che funziona (o dovrebbe funzionare) come istituzione sociale (A. Touraine). Ne è prova il fatto che l’impegno sociale e civile dell’impresa è percepito sempre più come una leva indispensabile per lo sviluppo e per la competitività. Gli investimenti in iniziative di responsabilità da parte delle imprese crescono in modo sostenuto. Da una recente indagine nazionale condotta sulle strutture con più di 100 addetti emerge che nel 2007 quasi il 70% delle aziende italiane ha destinato risorse alle iniziative di responsabilità sociale, dato quasi doppio di quello rilevato sei anni prima. E l’andamento continua ad essere in crescita. Le previsioni per i prossimi anni stimano un incremento di fondi da parte di chi si è già impegnato in passato e l’ingresso di nuovi soggetti che prevedono di destinare risorse per la responsabilità. L’importo medio aziendale degli investimenti arriverà a superare i 200 mila euro nel 2009, a fronte dei 100 mila del 2001.
Vi è ovviamente una correlazione tra fatturato aziendale e capitale investito nei progetti sociali. La maggior parte degli interventi si rivolge alla comunità di riferimento, a testimonianza della territorialità e del fatto che sta maturando una nuova visione di impresa meno autocentrata e più proiettata sull’ambiente esterno. Non meraviglia quindi che tra i requisiti fondamentali di un buon progetto sociale le aziende indichino come prioritaria la ricaduta territoriale dell’intervento. Meno importante è invece il clamore mediatico innescabile dall’iniziativa.
Una attenzione particolare e sempre più consistente è riservata alle iniziative rivolte al personale dell’azienda, il cui coinvolgimento e la cui valorizzazione figurano tra gli obiettivi prioritari dei progetti. La conciliazione tra la vita lavorativa e la vita familiare è un obiettivo che sembra caratterizzare le imprese e si cerca di dare effettività all’applicazione del principio delle pari opportunità, anche con il ricorso a strumenti quali la flessibilità degli orari di lavoro e l’assistenza all’infanzia, già adottati in altri paesi, come la Germania, la Francia, la Svezia.
Quasi un quarto delle imprese ha incorporato la responsabilità sociale nel proprio disegno di sviluppo, facendone una caratteristica della cultura aziendale. Il fenomeno è diffuso sia tra le grandi imprese che tra quelle di minori dimensioni. Queste ultime incontrano specifiche difficoltà legate alle poche risorse destinabili ai progetti di responsabilità ed all’assenza di funzioni dedicate. Ma, allo stesso tempo, lo stretto legame con il territorio le predispone naturalmente a sviluppare la dimensione della responsabilità sociale.
Una ulteriore misura del grado di presenza di pratiche responsabili nel panorama produttivo è data dal numero di aziende con certificazione etica SA 8000. Lo standard SA 8000, redatto nel 1997 da un organismo internazionale, il SAI, Social Accountability International, detta i requisiti comportamentali che una impresa deve soddisfare per essere considerata “etica”. Si tratta di aspetti che riguardano, tra l’altro, il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori, le garanzie del posto di lavoro dal punto di vista della tutela della salute.
L’impresa interessata ad ottenere la certificazione di conformità della propria organizzazione ai requisiti dello Standard deve innanzitutto implementare correttamente i punti della norma tecnica e quindi essere valutata da un organismo terzo, indipendente, ed accreditato dal SAI (al momento sono 18 gli enti accreditati nel mondo) che, verificata la conformità delle situazione aziendale ai dettami del disciplinare, rilascia il certificato SA 8000. Una caratteristica di SA 8000 è data dal fatto che l'ente che intende certificarsi deve garantire che anche la propria catena dei fornitori e sub-fornitori rispetta tali requisiti sociali.
Nel mondo sono certificate 1700 imprese. 800 sono italiane. Oltre 200 sono toscane. Il caso eclatante della regione Toscana è dovuto alla politica di sostegno e di incentivi adottata dall’ente locale per sollecitare le imprese ad implementare la norma tecnica.
Il peso dell’Italia è anche l’esito di una intensa azione di sensibilizzazione svolta dal Ministero e dalle organizzazioni di categoria. In ambito di Confindustria, per esempio, operano Sodalitas ed Anima, due associazioni finalizzate a promuovere la cultura della responsabilità sociale all’interno del tessuto produttivo nazionale. Ma anche utilizzando altri indicatori della responsabilità, che non si riferiscono ai suoi aspetti connessi al lavoro, ma all’ambiente ed alla sicurezza, come per esempio i modelli EMAS ed OHSAS, si riscontra un analogo impegno nazionale in materia.
Il rischio che si cela dietro la responsabilità sociale è il suo possibile uso strumentale, cioè farne un mezzo di marketing, di pubblicità, di immagine, utile a conquistare quote di mercato attraverso una percezione migliore da parte dei consumatori. Adoperarla per compiacere cittadini e portatori di interesse. Relegarla alla sfera del volontariato d’azienda o della filantropia. È una eventualità non remota, e dalla quale bisogna rifuggire. Vi è il rischio, detto in altri termini, di una estetizzazione dell’etica aziendale, della sua riduzione a pura apparenza.
La responsabilità sociale è invece una filosofa aziendale, è un modo di concepire il ruolo dell’impresa, la sua funzione all’interno della comunità ed il rapporto che deve stringere con chi le sta vicino. Non è assimilabile ad una mera operazione commerciale. Si fonda su una concezione centrata sulla dignità della persona, a cui l’azienda deve rendere conto del suo operato. Questo vale sia che si tratti di una persona impiegata all’interno dell’impresa, di un semplice cittadino che vive nella comunità in cui ha sede l’attività, oppure di un cliente residente dall’altra parte del mondo.
L’idea di fondo che giustifica la RSI è che l’impresa è fatta per la persona, e non la persona per l’impresa. Il grande messaggio che sta dietro la responsabilità sociale è che l’impresa accresce la sua legittimazione se opera nel rispetto delle persone, ovunque esse si trovino, e qualunque sia il rapporto che con essa intrattengono.
La grande minaccia dietro a questo processo di civiltà è proprio la banalizzazione della responsabilità a pratica di marketing sociale. Ne abbiamo, peraltro, numerose testimonianze allorché notiamo come alcuni grandi marchi internazionali cerchino di abbinare la loro immagine a temi di grande attualità, quali il risparmio energetico, la salute pubblica o la lotta alla marginalità. Non che questo sia un male, ma non è certo l’aspetto vero della responsabilità. Occorre sottolineare che adottare pratiche di responsabilità, assumerla come criterio guida nella politica aziendale, vuol dire fondare le decisioni su radici più ampie rispetto alla razionalità calcolante. La logica funzionalistica non può essere adottata in ambiti dove deve prevalere la coesione, la solidarietà, la sussidiarietà.
Non si tratta di giungere ad una deriva opposta ai principi liberali che guidano le imprese, ma di riconoscere che l’azienda è una dimensione dell’agire umano in cui la individuazione della decisione migliore non può non derivare che dall’incontro, dalla condivisione, dal confronto.
La relazionalità quale criterio di razionalità è perciò un requisito indispensabile per parlare di responsabilità sociale e per conciliare le ragioni della libertà con quelle della solidarietà, le esigenze del profitto con quelle del valore, le aspirazione dell’affermazione con quelle della cura.
In questo senso la responsabilità è un aspetto decisivo dello scenario economico e sociale attuale e di quello futuro. È un modo moderno di intendere la natura dell’impresa, il suo ruolo, i suoi limiti.
Più che un codice di comportamento, essa è pertanto una cultura, una visione, una idea, che ci porta a dire che non vi è contraddizione tra ruolo economico e ruolo sociale dell’impresa. Posta in questi termini, la responsabilità può essere una risposta adeguata alla deriva del mercato lasciato a se stesso, ormai in crisi, e la strada da seguire per dare nuovo senso al produrre, al consumare, e nuovo significato al lavoro dell’uomo.

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