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I provvedimenti normativi in materia di giustizia
nel primo anno della XVIª Legislatura: problemi e prospettive

Renato Balduzzi, Giorgio Grasso

1. Per chi vuole compiere, come gli autori delle presenti note, una valutazione d’insieme sui recenti provvedimenti normativi in materia di giustizia, è agevole cogliere, quasi come una condizione preliminare a qualsiasi discorso e un tratto unificante, la volontà, da parte del Governo ed in particolare del Ministro della Giustizia pro-tempore, di aver posto tale tema al centro dell’azione politica di questo scorcio iniziale della XVIª Legislatura, con un’insistenza ed un vigore che oltrepassano l’altrettanto facile constatazione di trovarsi di fronte ad un Esecutivo che sta dettando integralmente, anche in questo ambito, la sua agenda al Parlamento.
Tale attivismo, che ha già portato all’approvazione di alcune prime misure legislative e all’adozione di altri disegni di legge, in corso di discussione in Parlamento, e che dovrebbe avere in cantiere anche ulteriori propositi riformatori, pure a livello costituzionale, spiega l’interesse per una prima riflessione in questo campo, che da una visuale squisitamente costituzionalistica fornisca elementi di comprensione circa le finalità complessive del disegno riformatore e aiuti a verificare se, all’effervescenza normativa di questi mesi, corrisponda poi la reale intenzione di incidere sul sistema giustizia del nostro Paese.
In altre parole, e sinteticamente, il ragionamento che si vuole tentare in questa sede porterà a rispondere a tre quesiti principali: a) che cosa è stato fatto e/o si sta facendo, esaminando i testi di legge approvati o in itinere, e che cosa ancora si vuole progettare (cioè il quid del percorso riformatore o presunto tale); b) se esiste un metodo di tali riforme (il come); c) quali attese ed aspettative esse vogliono [vorrebbero] determinare (il perché).

2. Quanto alla prima domanda, utile a delimitare il perimetro di queste osservazioni, il punto di partenza sembra dover essere la l. 23 luglio 2008, n. 124, “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato”, che, pur applicandosi solo alle quattro più alte cariche dello Stato (per le quali, con una disciplina derogatoria, si prevede la sospensione degli eventuali processi penali dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione, anche per tutti i processi penali per fatti antecedenti tale assunzione e per tutti i processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della legge), tocca da vicino il profilo fondamentale dei rapporti tra giustizia, ambito di intervento della legge e margini ed opportunità di un’eventuale revisione della Costituzione, cioè la questione del metodo di tali riforme, cui si è fatto appena cenno.
È curioso, peraltro, che questa legge, sulla cui legittimità costituzionale, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, i dubbi sono davvero molto forti[1], non venga generalmente ricordata dal ministro pro-tempore, nelle ricorrenti occasioni in cui in questi mesi ha ripercorso le traiettorie del tema delle riforme della giustizia[2].
Diventa allora spontaneo chiedersi se la l. n. 124/2008 sia eccentrica rispetto alle nostre considerazioni o invece ne costituisca una sorta di naturale presupposto, nella misura in cui la sua ratio di difesa dal processo (penale)[3] rappresenta, insieme all’aumento delle ipotesi e della frequenza di decisioni discrezionali dei capi degli uffici, uno dei denominatori comuni di gran parte delle iniziative legislative in materia.
Ma lasciando tale quesito sullo sfondo, le disposizioni legislative che toccano il tema della giustizia possono essere ricondotte a quattro direttrici essenziali, tutte o quasi con l’etichetta di essere riforme e che riguardano rispettivamente: a¹) il processo civile, a²) il processo penale, a³) le intercettazioni telefoniche, a4) l’ordinamento giudiziario.
Più deboli, invece, anche se non del tutto trascurabili, sono i riferimenti all’argomento presenti nella disciplina in tema di sicurezza pubblica, già approvata o in corso di imminente approvazione[4], mentre al momento marginali appaiono altre possibili piste di sviluppo sul tema, che pure si vorrebbero portare avanti, come la riforma delle professioni del comparto giuridico-economico, la riforma del processo del lavoro, la soluzione dell’annoso e sempre più grave problema dell’affollamento delle carceri.

3. a¹) La riforma del processo civile, a parte alcuni interventi episodici già contenuti nel d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella l. 6 agosto 2008, n. 133[5], è racchiusa all’interno del disegno di legge, intitolato “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, approvato dalla Camera dei deputati nell’ottobre del 2008, modificato dal Senato della Repubblica nel marzo 2009, nuovamente approvato con modificazioni dalla Camera dei deputati a fine aprile 2009 e che è ancora tornato all’esame del Senato nel mese di maggio 2009 (Atti Senato n. 1082-B)[6].
Le novità del testo, che incide in modo non sempre lineare su numerose disposizioni del codice di procedura civile, hanno il loro filo conduttore prevalente nella finalità, ripetuta più volte nella Relazione accompagnatoria, di “accelerare il processo” ovvero di ispirarsi ai principi di «concretezza, lealtà e speditezza».
Così si spiegano le disposizioni che attenuano sensibilmente il peso delle questioni di competenza, anche modificando la forma della pronuncia con cui sono rese (ordinanza in vece di sentenza); quelle che innovano la disciplina delle spese processuali; la disposizione che, al fine di «ridurre il contenuto espositivo e motivazionale delle sentenze» (così la Relazione di accompagnamento), prevede che queste ultime, anziché contenere «la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione», come prevede l’attuale art. 132, comma 2, n. 4, comprendano solo «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione»; tutte quelle norme che abbreviano e riducono termini vari, anche al fine di attuare, si legge ancora nella Relazione ministeriale, «il principio della ragionevole durata del processo»; e tra le più rilevanti, sotto il profilo sostanziale, la disciplina che introduce nel c.p.c. un procedimento sommario di cognizione, non cautelare, «finalizzato all’emanazione di un provvedimento immediatamente esecutivo, suscettibile di passare in cosa giudicata qualora non appellato», le norme sulla testimonianza scritta, con l’aggiunta dell’art. 257-bis, e la contestata previsione[7] che inserisce una nuova normativa di filtro all’ammissibilità dei ricorsi in Corte di cassazione che, se dovrebbe “valorizzare la funzione nomofilattica” di quest’ultima, sembra potenziare eccessivamente il vincolo dei precedenti della Corte medesima (così le osservazioni sul disegno di legge da parte dell’Associazione nazionale magistrati, osservazioni che, in parte, sembrano essere state recepite dalla Camera dei deputati in seconda lettura) e, comunque, almeno prima della seconda approvazione della Camera dei deputati, si basava su un procedimento abbastanza discutibile (vedi anche la posizione del Consiglio nazionale forense), reso in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile, da parte di un collegio di tre magistrati[8]. Quest’ultimo profilo, parzialmente corretto nell’ultimo testo votato, dove si prevede la creazione di un’apposita sezione, a cui «sono chiamati, di regola, magistrati appartenenti a tute le sezioni», costituisce potenziale fonte di perplessità, in quanto potrebbe aprire la strada, senza che concorrano ragioni giustificatrici, alla formazione discrezionale dell’organo giudicante, in contrasto con la consolidata interpretazione del principio costituzionale di naturalità e precostituzione del giudice.
Non si comprende bene, poi, il significato del venir meno, già nella prima approvazione della Camera dei deputati, di alcune norme, come quella che intervenendo sull’art. 88 del c.p.c. stabiliva che «le parti costituite devono chiarire le circostanze di fatto in modo leale e veritiero», al fine di valorizzare il comportamento processuale delle parti (che pure era stata considerata nella Relazione al disegno di legge «tra le più significative innovazioni proposte»), o quella che modificava il sistema di impugnazione degli artt. 42 ss. c.p.c., sostituendo al regolamento di competenza necessario o facoltativo ed all’appello un reclamo deciso in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile.
Nel primo passaggio parlamentare in Senato, poi, è stata soppressa la modifica dell’art. 183 del c.p.c., che, riguardo alla concessione di ulteriori termini per il deposito delle memorie, per le indicazioni di prova contraria e per replicare alle nuove domande o eccezioni, ne subordinava l’accoglimento al potere di valutazione del giudice, innovando il meccanismo automatico, attualmente esistente.
Sempre nella logica, in via generale condivisibile e costituzionalmente imposta (dall’art. 97 Cost., con riferimento al principio del buon andamento, che non può non applicarsi anche all’amministrazione della giustizia, oltre che dal novellato art. 111 Cost.), di dare tempi certi al processo ed evitare comportamenti opportunistici dei soggetti in esso a vario titolo coinvolti, vanno menzionate le disposizioni sull’accompagnamento coatto del testimone all’udienza.
Qualche perplessità suscita anche lo scarso coordinamento tra le disposizioni che innovano il processo civile e la previsione di una delega in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale, che tocca indirettamente il tema e che è stata inserita dopo la prima approvazione alla Camera (nel testo originario vi era, infatti, una normazione “diretta”, senza delega): le evidenti connessioni tra le due normative consiglierebbero, volendo scegliere per la seconda lo strumento della delega, una maggiore attenzione ai legami con la prima in sede di determinazione dei principi e criteri direttivi[9].

4. a²) Decisamente più tormentato appare il percorso di riforma del processo penale, visto che è stato presentato soltanto nel mese di marzo 2009 un disegno di legge (Atti Senato n. 1440), molto complesso, e in corso di esame in Commissione, dentro al quale, tra l’altro, accanto a disposizioni in materia di processo penale, confluiscono anche norme sull’ordinamento giudiziario e sull’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e ben cinque deleghe al Governo, rispettivamente per il riordino della disciplina delle comunicazioni e notificazioni nel processo penale; per l’attribuzione della competenza in materia di misure cautelari al tribunale in composizione collegiale; per la sospensione del processo in assenza dell’imputato; per la digitalizzazione dell’amministrazione della giustizia e, in ultimo, per la elezione dei viceprocuratori onorari presso il giudice di pace.
Dalla Relazione al disegno di legge emergono quelle che ne vogliono essere le due finalità principali, e cioè, per un verso, «ampliare le garanzie del cittadino e […] dare compiuta attuazione ai diritti di difesa» e, per altro verso, «eliminare lacune e farraginosità del procedimento penale, rendendolo più razionale e spedito». Come s’intuisce, questo secondo profilo, che già dava l’ossatura a tutto il disegno di legge sul processo civile, ritorna prepotentemente anche in riferimento alla materia del processo penale.
Le disposizioni più significative del testo paiono poi essere le seguenti:
- quella che introduce una nuova ipotesi di astensione/ricusazione del giudice, che colmerebbe (secondo la Relazione) una lacuna del sistema vigente, e che implica che il giudice ha l’obbligo di «astenersi se esistono altre ragioni di convenienza anche rappresentate da giudizi espressi fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, nei confronti delle parti del procedimento e tali da provocare fondato motivo di pregiudizio all’imparzialità del giudice» (così art. 36, comma 1, lett. h, c.p.p., come riformulato dal disegno di legge)[10];
- l’insieme di disposizioni che ridisegnano l’assetto dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, sia in relazione a quanto dispone l’art. 109 della Costituzione, con una distinzione, assai problematica invero, tra sezioni di polizia giudiziaria, composte con personale dei servizi di polizia giudiziaria, alla dipendenza e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, e servizi di polizia giudiziaria, previsti dalla legge, ed ufficiali e agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad altri organi cui la legge fa obbligo di compiere indagini a seguito di una notizia di reato, sotto la direzione, ma non alla dipendenza, dell’autorità giudiziaria stessa, sia soprattutto con una distinzione tra compiti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, che secondo la Relazione dovrebbe «creare i presupposti di una maggiore “concorrenza” e controllo reciproco»[11], e che toglie, però, al pubblico ministero il potere di ricercare autonomamente le notizie di reato[12], conservando solo il potere di ricevere le medesime dalla polizia giudiziaria, che prende di propria iniziativa e riceve notizia di reato, o da altri soggetti nelle diverse forme previste dalla legge, come la denuncia di pubblici ufficiali o privati o la querela. Tutta questa parte tende ad ampliare i poteri della polizia giudiziaria, ridimensionando invece quelli del p.m.: così che, ad esempio, il p.m. assume le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, tenuto conto anche dei risultati delle indagini della polizia giudiziaria, e gran parte dei suoi atti di indagine possono essere delegati alla polizia giudiziaria (come compiere l’interrogatorio della persona sottoposta a restrizione della libertà personale); inoltre, il p.m. non potrà utilizzare i poteri afferenti alle indagini preliminari, in relazione a notizie che non sono state classificate come notizie di reato[13];
- le disposizioni finalizzate a favorire una tendenziale parificazione tra accusa e difesa (così Relazione al disegno di legge), che in realtà pare configurarsi però come un rafforzamento a senso unico della seconda, come laddove si prevede che, «quando una persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa non compare senza che sia stato addotto legittimo impedimento, il giudice, su richiesta motivata del difensore, ne dispone l’accompagnamento coattivo dinanzi al difensore o al sostituto», o dove si stabilisce che le falsità commesse dal difensore nel documentare le dichiarazioni o informazioni raccolte in sede di investigazioni difensive sono punibili, solo se di esse venga fatto uso nel procedimento penale;
- le disposizioni in materia di impugnazione e di revisione della sentenza, da quella che impone alle parti, che intendono proporre impugnazione, di formulare, entro tre giorni dalla lettura del dispositivo, una specifica dichiarazione in tal senso, in mancanza della quale la motivazione della sentenza è limitata all’indicazione sommaria delle fonti di prova, dei fatti cui esse si riferiscono e dei motivi di diritto, alle modifiche della disciplina del ricorso in Cassazione, con l’inserimento di ipotesi di inammissibilità originaria e con l’obbligo di rimessione del ricorso alle sezioni unite della Cassazione, quando una sezione singola della stessa Corte non intenda conformarsi al più recente principio di diritto, con il quale le medesime sezioni unite avevano già risolto un contrasto tra sezioni singole.
La coerenza tra la dichiarata finalità principale (certezza di tempi del processo, anche in relazione alla garanzia del diritto di difesa) e le concrete scelte legislative di metodo e di merito è però anche in tal caso dubbia, se si pensa che (come si è osservato puntualmente e pertinentemente da parte dell’Associazione nazionale magistrati) sia le norme in materia di riordino della disciplina delle comunicazioni e delle notificazioni del procedimento penale, sia quelle in materia di sospensione del processo celebrato in assenza dell’imputato avrebbero potuto essere inserite direttamente nel disegno di legge, senza ricorrere ad una delega che differirà nel tempo la soluzione di «due priorità assolute, che avrebbero potuto immediatamente accelerare il processo»[14].

5. a³) La riforma delle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali costituisce il terzo momento di osservazione. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a un disegno di legge di iniziativa governativa, presentato nel giugno del 2008 e ancora all’esame in prima lettura della Camera dei deputati (Atti Camera n. 1415; da segnalare anche che, accanto al d.d.l. governativo, vi sono poi almeno 5 progetti di legge concorrenti).
Forse è il testo di cui si è parlato di più, anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori. Esso incide, evidentemente, sul processo penale, ma ha anche una sua autonomia concettuale, che ne consiglia un rapido esame separato.
Ancora una volta è prezioso riferirsi alla Relazione che accompagna il testo, dove si sottolinea subito che «l’intervento normativo contempera le necessità investigative con il diritto dei cittadini a vedere tutelata la loro riservatezza, soprattutto quando estranei al procedimento».
Richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si rileva che «requisiti essenziali per garantire un’adeguata protezione del diritto alla privacy sono la definizione delle categorie di persone assoggettabili a intercettazione, la natura dei reati che vi possono dar luogo, la fissazione di un termine massimo per la durata delle intercettazioni e la tutela degli interlocutori che siano casualmente attinti dalle intercettazioni, senza aver alcun collegamento con l’oggetto delle indagini in corso di svolgimento».
Hanno particolare rilevanza per il nostro tema:
- la disposizione che concerne sia l’obbligo di astensione del giudice, nei casi in cui abbia «pubblicamente rilasciato dichiarazioni concernenti il procedimento affidatogli», sia, nel contempo, la sostituzione del p.m. iscritto nel registro degli indagati per il reato di illecita rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale di cui è titolare (art. 379-bis c.p.), o che abbia semplicemente rilasciato dichiarazioni pubbliche in merito a un procedimento pendente presso il suo ufficio[15];
- quelle disposizioni che prevedono il divieto (assoluto) di pubblicazione di atti di indagine di varia natura;
- la previsione di disposizioni che disciplinano i limiti, i presupposti e l’utilizzabilità delle intercettazioni, e in particolare: quella che sottopone l’acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico o telematico agli stessi limiti previsti per le intercettazioni telefoniche; quelle che selezionano i reati per i quali si possono disporre le operazioni di intercettazione, individuati in generale in base alla durata della pena e poi, in modo derogatorio, in riferimento a particolari tipologie di reati, indipendentemente dai limiti della durata della pena, e che sono i delitti di mafia e terrorismo, i delitti definiti nella Relazione ministeriale di «gravissimo allarme sociale» (omicidio, rapina, violenza sessuale aggravata…), i reati di ingiuria, minaccia, usura, molestia o disturbo delle persone col mezzo del telefono, i delitti contro la pubblica amministrazione, ma solo nel caso in cui la pena della reclusione non sia inferiore nel massimo a cinque anni; quelle che circoscrivono le c.d. intercettazioni ambientali alla sola ipotesi in cui vi sia un fondato motivo di ritenere che nei luoghi ove l’intercettazione è disposta si stia svolgendo l’attività criminosa; quelle che subordinano il provvedimento di autorizzazione delle operazioni di intercettazione alla sussistenza di «gravi indizi di reato»[16] ed alla circostanza che l’intercettazione sia assolutamente indispensabile al fine di proseguire le indagini, oltre che all’esistenza di «specifiche e inderogabili esigenze, relative ai fatti per i quali si procede, fondate su elementi espressamente e analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo procedimento»; quelle che fissano termini massimi di durata delle intercettazioni e quelle relative all’esecuzione delle operazioni di intercettazione, da compiersi per mezzo di impianti installati nei centri di intercettazione istituiti presso ogni distretto di Corte d’appello; quelle sulla custodia e poi sulla distruzione delle intercettazioni, e quella per la quale i risultati delle intercettazioni non possono essere impiegati in procedimenti diversi da quelli nei quali le operazioni sono state autorizzate e disposte;
- le disposizioni che modificando, questa volta, il codice penale, vorrebbero «rafforzare il sistema sanzionatorio in relazione alle condotte di diffusione di notizie inerenti gli atti di indagine e, in particolare, alle intercettazioni» (così Relazione ministeriale), ad esempio intervenendo sul già citato art. 379-bis, con un’estensione del suo ambito di applicazione e un inasprimento della pena;
- le disposizioni che modificano la legge sulla stampa e la normativa in materia di privacy (d.lgs. n. 196/2003).
Anche qui, è difficile cogliere esattamente la filosofia che muove questo disegno di legge[17], al di là del coro di esecrazione bipartisan che periodicamente segue a macroscopiche violazioni del segreto istruttorio o a pubblicazioni giornalistiche di trascrizione di intercettazioni relative a personaggi del mondo della politica o dello spettacolo (o di entrambi, essendo talvolta difficile distinguere tra l’una e l’altro). In particolare, due sembrano i punti problematici: in primo luogo, la distinzione tra i reati a seconda del gravissimo allarme sociale che li connota, posto che tale qualità appare variabile da periodo a periodo (basti pensare alla diversa incidenza dei reati di corruzione a seconda dei diversi momenti della vita politica e sociale, oppure dei reati economici a seconda della congiuntura economico-finanziaria); in secondo luogo, la circostanza che, specialmente per i reati connessi all’esercizio di pubbliche funzioni e/o commessi da esercenti pubbliche funzioni, sovente l’unico mezzo per addivenire all’individuazione di gravi indizi di reato sia proprio l’intercettazione, anche e soprattutto ambientale.
Sapere o scoprire che il re (della politica, dello sport, dello spettacolo, dell’economia) è nudo sembra cioè appartenere all’essenza della vita democratica, nella quale (per richiamare pagine notissime, ma non sorpassate, di Montesquieu e di Tocqueville) la virtù dei cittadini, specie se investiti di funzioni pubbliche, assume un’importanza e un significato decisivi: certo, si tratta di una virtù civile, non essendo possibile confondere il piano della vita privata con quello della vita pubblica, ma non è forse vero che l’esperienza concreta del nostro tempo ci sbatte in faccia ogni giorno il collegamento tra questi due piani? E dunque, non è forse un diritto dell’opinione pubblica democratica farsi un’idea autonoma del modo con cui le persone investite di pubbliche funzioni interpretano concretamente tale collegamento, per non dipendere soltanto dalle forme e dai modi in cui la comunicazione unidirezionale tra tali persone e l’opinione pubblica lo presenta?
Sembra cioè importante distinguere tra assunzione e rilievo processuale delle intercettazioni, da un lato, e modalità di rilevazione, anche temporale, e forme di utilizzazione delle intercettazioni, dall’altro: distinzione che, se non risolverà tutti i nodi problematici, pur consente di avviare quel bilanciamento tra esigenze diverse, cui si è fatto in questa sede più volte cenno, e che appare poco tenuto presente nel complesso del d.d.l. governativo.

6. a4) In tema, infine, di interventi normativi sull’ordinamento giudiziario, alcune indicazioni vengono fuori dal già citato d.d.l. che si occupa anche del processo penale (Atti Senato n. 1440), mentre le linee portanti della riforma sono state soltanto abbozzate, trasparendo ad esempio da dichiarazioni pubbliche del Ministro Guardasigilli o del Presidente del Consiglio, ma attendono ancora una formalizzazione legislativa compiuta.
Nel citato disegno di legge n. 1440 rilevano alcune disposizioni che «mirano a razionalizzare e garantire l’efficienza dei servizi giudiziari, nel rispetto delle prerogative costituzionali del Ministro della giustizia e del Consiglio superiore della magistratura»[18]; tra queste spiccano l’istituzione di corsi di formazione per i magistrati che aspirano al conferimento di incarichi direttivi, alla fine dei quali il magistrato riceve, da parte del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, «una valutazione di idoneità al conferimento degli incarichi direttivi, con esclusivo riferimento alle capacità organizzative»; una modifica della legge. n. 195/1958, che stabilisce che il concerto del Ministro «sul conferimento degli incarichi direttivi sia specificamente motivato con esclusivo riguardo alle capacità organizzative dei servizi e che lo stesso sia esteso anche alle delibere concernenti la conferma delle funzioni di direzione degli uffici giudiziari, colmando un’attuale lacuna del sistema normativo»[19]; le disposizioni che introducono «una deroga espressa, in caso di trasferimento d’ufficio di magistrati non ultradecennali presso sedi disagiate non coperte, al divieto del passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa» e quelle che sembrano agevolare «l’individuazione dei magistrati da assoggettare a trasferimento d’ufficio anche per le regioni tradizionalmente a maggiore densità di sedi disagiate»[20].
Elemento unificante delle proposte sembra essere la volontà, da parte dell’esecutivo, di “riappropriarsi” della funzione organizzativa di cui all’art. 110 della Costituzione[21], sulla base dell’assunto secondo cui il Ministro della giustizia non possa «essere responsabile del servizio della giustizia senza che lo stesso abbia potestà organizzative effettive», in quanto «una responsabilità senza potere sarebbe sommamente ingiusta e, alla lunga, foriera di gravissimi squilibri costituzionali»[22].
Si tratta di un’impostazione che lascia fortemente perplessi, in quanto nel nostro sistema costituzionale l’interpretazione restrittiva della formula dell’art. 110 Cost. («Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia») sembra difficilmente contestabile, sia per il richiamo in apertura alla salvezza delle competenze del C.S.M., in quanto organo di auto-amministrazione della magistratura, sia per la puntualità dell’espressione «servizi relativi alla giustizia», ben diversa da quella, impiegata dal Guardasigilli, di servizio della giustizia: il Governo, e il Ministro, hanno la spettanza e la relativa responsabilità dei primi e non del secondo[23].
A parte quanto previsto nel disegno di legge appena ricordato, il nucleo della riforma in tema di ordinamento giudiziario è ancora in fase di progettazione, avendo per oggetto principale la modifica della Costituzione. Se sembra meno insistita la richiesta di intervenire sulla struttura del C.S.M., sdoppiandolo per magistratura giudicante e magistratura requirente (potendo bastare in tale logica il ricupero della vecchia questione della separazione tra carriere e funzioni di giudici e p.m.), maggior forza paiono avere le proposte di intervento: sull’art. 112, nel senso di individuare le priorità per regolamentare la discrezionalità dei magistrati all’interno di un perimetro specifico; sull’art. 109, relativamente ai rapporti tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria, anche per dare copertura costituzionale alle già menzionate iniziative a livello di legislazione ordinaria; in tema di costituzionalizzazione dell’avvocatura, nel senso del riconoscimento del rango costituzionale alla figura dell’avvocato.
Ora, lasciando da parte quest’ultima proposta, pure largamente opinabile (e perché allora non menzionare in Costituzione il medico, o il professore, o l’ingegnere, a tutela del diritto alla salute, all’istruzione, all’abitazione?), va osservato che le altre sembrano mosse dalla preoccupazione di limitare la (supposta eccessiva) autonomia della magistratura attraverso l’aumento del peso delle decisioni della maggioranza politico-parlamentare, da un lato, e del governo-amministrazione, dall’altro. Va tuttavia osservato che, a parte ogni considerazione sulla plausibilità o meno della premessa circa l’eccesso di discrezionalità di cui godrebbero i magistrati, il complesso delle modifiche costituzionali che verrebbero proposte pone il delicatissimo problema circa la loro compatibilità complessiva con il principio dell’autonomia della magistratura, annoverabile tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale e come tale sottratto allo stesso potere di revisione[24].

7. Se questo è il contenuto dei recenti provvedimenti normativi in tema di giustizia e se, dal loro esame, sono emerse anche alcune delle ragioni di fondo che sembrano ispirare l’intero percorso riformatore (sintetizzabili nel tentativo di cercare un differente modo di intendere i rapporti tra politica e giustizia, in una nuova ed assai problematica “divisione dei poteri”, la cui compatibilità costituzionale appare talvolta ardua), un ultimo profilo da affrontare brevemente riguarda l’individuazione del metodo delle riforme.
Senza voler invertire la differenza assiologica tra Costituzione e legge, è facile rilevare, infatti, che non tutto ciò che è compreso nel Titolo IV della Parte II della Costituzione, dedicato alla Magistratura, rientra tra i principi supremi immodificabili, di cui si è appena discorso, così che vi è uno spazio per una revisione del testo costituzionale, che però, appunto, deve seguire il percorso previsto dall’art. 138, senza che sia la legge ordinaria a “forzare” la mano, come in alcune ipotesi prima ricordate sembra, invece, accadere, con esiti anche opinabili.
A sua volta, poi, sarebbe auspicabile che le riforme dei “rami alti” del sistema giudiziario, per le quali è necessaria la revisione costituzionale, avvenissero in modo condiviso. Il timore forte, anche dalle dichiarazioni pubbliche dei vertici dell’esecutivo (Ministro della giustizia e Presidente del Consiglio) è invece che le larghe intese non si trovino (o forse non si vogliano trovare affatto), proprio al fine di pervenire a un’approvazione a maggioranza assoluta, utilizzando poi il referendum confermativo dell’art. 138 come voto di “fiducia” sulla politica del Governo (se non direttamente sul capo dell’esecutivo, sulla falsariga del precedente gollista).
Sotto questo profilo, il metodo delle “riforme della giustizia” sembra del tutto omogeneo ai ricorrenti inviti, se non minacce, volte a un cambiamento in senso premieristico della forma di governo, rafforzando i già consistenti poteri dell’esecutivo e del suo leader e marginalizzando i contrappesi costituzionali (a partire dal bicameralismo). Un metodo che potrebbe finire per investire quel particolare giudice che è il giudice delle leggi, pietra angolare del moderno costituzionalismo.

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[1] Vedi per tutti le chiare e difficilmente parabili obiezioni di A. PACE, “Cinque pezzi facili”: l’incostituzionalità della legge Alfano, in www.associazionedeicostituzionalisti.it (16 agosto 2008), il quale sviluppa temi e argomenti contenuti nella “traccia” della audizione informale tenuta da Leopoldo Elia presso le Commissioni riunite (Affari costituzionali e Giustizia) del Senato della Repubblica in data 16 luglio 2008 (si tratta di uno degli ultimi interventi del grande costituzionalista, poche settimane prima della morte); vedi anche, su questa scia, la dichiarazione “In difesa della Costituzione”, firmata da oltre 100 professori ordinari di diritto costituzionale o discipline equivalenti, del 4 luglio 2008, disponibile sul sito http://www.costituzionalismo.it, e il molto meno condivisibile “Appello alla ragione per un nuovo rapporto tra politica e giustizia”, di 36 docenti di diritto costituzionale e di altre materie, del 7 luglio 2008, reperibile sul sito http://www.magna-carta.it/node/2265.
[2] Vedi ad esempio, tra le posizioni pubbliche più recenti assunte dal Ministro Alfano, l’intervento del 5 marzo 2009 in apertura del Corso di perfezionamento per le forze di polizia, di cui può trovarsi il testo integrale in audio-video sul sito http://www.giustizia.it/newsonline/specialepag293.htm.
[3] Nel senso che dal principio contenuto nell’art. 112 Cost. si desuma che «nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice: ed in esso è insito, perciò, quello che in dottrina viene definito favor actionis», v. Corte cost., sent. n. 88 del 1991.
[4] Ci si riferisce, in particolare, ad alcune modifiche del codice di procedura penale previste dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in l. 23 aprile 2009, n. 38, e dal disegno di legge contenuto in Atti Senato n. 733-B, approvato dalla Camera dei deputati il 14 maggio 2009, e che, dopo un primo passaggio in Senato, è ora tornato a questa Camera per la sua approvazione definitiva. Ma vedi anche il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito nella l. 24 luglio 2008, n. 125.
[5] Sui quali vedi, ad esempio, C. PUNZI, Novità legislative e ulteriori proposte di riforma in materia di processo civile, in “Riv. trim. dir. e proc. civ.”, 2008, pp. 1190-1192.
[6] Il disegno di legge tocca anche numerosi ambiti del tutto estranei all’argomento delle presenti osservazioni; v. tuttavia, tra le altre, per l’inerenza con il nostro tema, la previsione di una delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo.
[7] Anche da parte di Guido Alpa, Presidente del Consiglio nazionale forense, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario forense del 25 marzo 2009.
[8] Si noti che nel primo passaggio al Senato è stata eliminata quella disposizione che dichiarava inammissibile il ricorso presentato avverso la sentenza di appello che ha confermato quella di primo grado: ciò fa sorgere peraltro qualche dubbio sull’effettiva volontà di risolvere alcune distorsioni pratiche del nostro processo civile. In relazione, invece, alla questione, accennata nel testo, dell’incidenza del vincolo del precedente, il testo del disegno di legge, dopo la prima approvazione in Senato, dichiarava ammissibile il ricorso, «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo difforme da precedenti decisioni della Corte», mentre l’ultimo testo approvato dalla Camera dei deputati, ragionando in termini di inammissibilità, si riferisce al provvedimento che «ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa».
[9] Se poco condivisibile appare, su questi punti, l’ironia di parte della dottrina giusprocessualistica sulla terminologia usata e in particolare sui continui riferimenti alle finalità “acceleratorie” delle innovazioni introdotte (v., ad esempio, C. PUNZI, Novità legislative, cit., p. 1189 ss., spec. 1201), proprio perché la giusta durata del processo non è soltanto un principio costituzionalmente garantito, ma anche un principio elementare di civiltà giuridica, epperò sbeffeggiato e calpestato in misura e forme intollerabili nel nostro Paese, va per contro rilevato che la medesima dottrina sottolinea lo scarso impatto dei rimedi proposti: si v. sul punto E.F. RICCI, Ancora novità (non tutte importanti, non tutte pregevoli) sul processo civile, in “Rivista di diritto processuale”, 2008, p. 1359, secondo il quale la stragrande maggioranza delle norme proposte «è destinata ad avere, rispetto alla situazione attuale, un impatto oscillante tra il minimo e il nullo».
[10] Sembra difficile, anche a proposito di questa previsione (che, nella sua assolutezza, sembra scarsamente compatibile con la protezione costituzionale della libera manifestazione del pensiero), non sorridere a fronte di quella che può considerarsi la preoccupazione principale del legislatore, di proteggere persone note dal processo penale…
[11] Superfluo soffermarsi sull’evidente incostituzionalità di tale “modello” di relazioni tra p.m. e polizia giudiziaria: si tratta, con buona probabilità, di un tentativo di preparare la strada ad una revisione costituzionale per rimediare alle conseguenze pressoché scontate ove la norma sia oggetto di sindacato da parte del giudice delle leggi.
[12] Cfr. rispettivamente l’attuale art. 330 c.c.p., per il quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse a norma dei successivi articoli, e il testo proposto dal Governo, per il quale la polizia giudiziaria prende di propria iniziativa e riceve notizia dei reati, e il pubblico ministero riceve le notizie di reato presentate o trasmesse a norma degli articoli seguenti; ma vedi anche la proposta di soppressione, nell’art. 335 c.c.p., del riferimento espresso al potere del p.m. di acquisire di propria iniziativa notizia del reato.
[13]Anche in tal caso, come già segnalato riguardo alla l. n. 124/2008, sulla sospensione del processo penale per le alte cariche dello Stato, la compatibilità con la Costituzione è assai dubbia: il senso della clausola costituzionale secondo cui l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria è infatti soprattutto proprio quello di non creare diaframmi tra l’esercizio (obbligatorio, si badi) dell’azione penale e la disponibilità della struttura amministrativa preposta all’acquisizione della notitia criminis e delle relative incombenze probatorie. Si veda però quanto osserviamo, più avanti, a proposito dell’intenzione di modificare gli artt. 109 e 112 Cost.
[14] Le perplessità accennate in ordine alla reale voluntas legislatoris si rafforzano se si pensa che vi è anche un capo intero del d.d.l. che si occupa (quasi un’estensione concordataria della logica della l. n. 124 del 2008...) dell’assunzione a domicilio della testimonianza dei cardinali di Santa Romana Chiesa e in particolare di quelli le cui funzioni assumono un rilievo istituzionale particolare (12 porporati su 199)!
[15] Quanto tali norme bilancino davvero la garanzia del diritto di difesa, l’esigenza di trasparenza e corretta informazione della pubblica opinione e quella di speditezza del processo penale, è assai arduo valutare: l’impressione, a prima vista, è che siano ispirate prevalentemente da una esigenza ulteriore, soltanto in parte sovrapponibile con quella racchiusa nel primo comma dell’art. 24 Cost. e cioè, appunto, quella di difesa dal processo penale (in particolare per quanti esercitino funzioni pubbliche o siano incaricati di pubblico servizio). Sia chiaro: l’esigenza di evitare le conseguenze pregiudizievoli di un eccesso di protagonismo mediatico da parte della magistratura, e in particolare del pubblico ministero, è tutt’altro che infondata, anche perché tale protagonismo poco si confà con l’esercizio sereno e imparziale della funzione giudicante e di quella requirente; ma si tratta appunto di esigenze da bilanciare, tenendo conto che in una società democratica, per definizione “aperta”, la linea di demarcazione tra diritto-dovere di cronaca, diritto di critica e dovere di riserbo è spesso esilissima e attiene più al costume e a regole di correttezza che a regole giuridiche vere e proprie (e, ove determinate violazioni attengano alla correttezza, più che riverberare sullo svolgimento del procedimento giurisdizionale, dovrebbero riverberare sullo status del pubblico funzionario o dell’incaricato di pubblico servizio).
[16] Nel caso in cui l’intercettazione sia necessaria per lo svolgimento di indagini relative a un delitto di criminalità organizzata, di terrorismo o di minaccia col mezzo del telefono, è sufficiente l’esistenza di sufficienti indizi.
[17] Per capire il “clima”, si segnala la lettura del testo dell’intervento dell’on. G. Consolo dell’11 marzo 2009, in sede di esame delle questioni pregiudiziali presentate sul disegno di legge n. 1415, così come l’intervento, di segno diametralmente opposto, dell’on. A. Di Pietro, di illustrazione delle questioni pregiudiziali presentate dall’Italia dei Valori, sempre dell’11 marzo 2009.
[18] Relazione al d.d.l., p. 15.
[19] Ibidem: si noti che questa specificazione potrebbe rimettere in discussione quel metodo procedimentale della leale collaborazione, elaborato dalla Corte costituzionale nella sua giurisprudenza sul conferimento degli uffici direttivi, già nella sent. n. 379 del 1992 e poi nella sent. n. 380 del 2003.
[20] Ivi, p. 16.
[21] Così lo stesso Ministro Alfano all’inaugurazione dell’Anno giudiziario 2009, presso la Corte di appello di Napoli, precisando che la “rivitalizzazione” di tale funzione dovrebbe avvenire «sia attraverso un più razionale utilizzo degli strumenti vigenti che mediante ulteriori interventi normativi che consentano di monitorare, con moderna rapidità, l’andamento del servizio reso ai cittadini, affinché possano adottarsi gli opportuni correttivi per il recupero dell’efficienza».
[22] Vedi sempre il Ministro Guardasigilli, questa volta all’inaugurazione dell’Anno giudiziario presso la Corte di cassazione.
[23] Ancora nell’inaugurazione dell’Anno giudiziario presso la Corte di cassazione, il Ministro invece sottolinea che «per fare funzionare la giustizia occorre illuminare con luce nuova l’art. 110 della Costituzione», al fine di «ripristinare il binomio potere/responsabilità in riferimento al rapporto tra Governo e magistrati»: una cosa è illuminare con luce nuova, in seguito all’evoluzione delle situazioni e dei contesti, altra cosa è riscrivere con legge ordinaria le disposizioni costituzionali…
[24] Si potrebbe aggiungere che, secondo la sentenza della Corte costituzionale cit. retro, nota n. 3, il principio di obbligatorietà dell’azione penale è «punto di convergenza di un complesso di principi basilari del nostro testo costituzionale».
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