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L'allargamento normativo della nozione di «sicurezza»,
la solidarietà istituzionalizzata e l'attacco neoliberista

Laura Pennacchi
Nell'evoluzione dallo Stato assoluto allo Stato democratico moderno si produce una riattualizzazione del programma che si affermò agli albori dell'assolutismo e che configurò anche l'originario diritto alla tutela dalla violenza fisica come pretesa dei cittadini a un intervento difensivo dello Stato: disarmare la nobiltà, che mediante gli eserciti privati aveva monopolizzato la sicurezza, e redistribuire la sicurezza dai nobili agli uomini e alle donne comuni. Con ciò lo Stato si rivela “strumento di libertà”, di rimedio all'anarchia e di contrasto dell'ingiustizia e dell’oppressione che ne deriva, di neutralizzazione dei monopoli e di limitazione del potere privato, il quale è minaccia per la sicurezza – come già aveva compreso Adam Smith – alla stessa stregua del potere pubblico.
E con ciò si spiega perché la traiettoria semantica della parola “sicurezza” si allarghi dai diritti civili classici (come l’habeas corpus,la tutela dall’arresto e dalla detenzione arbitraria ecc.) ai diritti sociali moderni – tra cui la gratuità del patrocinio legale per i poveri, la creazione di un'edilizia abitativa pubblica, l'istituzione di sussidi per il pagamento dell'affitto, l'istruzione elementare obbligatoria – e ad alcuni diritti economici ovolti in particolare a tutelare gli individui dai capricci educativi delle famiglie e dalle fluttuazioni del mercato.
L'osservazione della funzione istitutiva della stessa libertà svolta dallo Stato e dalla sfera pubblica consente di vedere quanto sia spesso fuori luogo la denunzia del paternalismo dello Stato fatta in nome dell'autonomia dei cittadini, in particolare contro le istituzioni e le politiche del welfarestate. A tal proposito si può ricordare che[1]: a) gli stessi liberali classici hanno sempre accettato un certo grado di paternalismo, se esso promuove «l'autonomia delle persone», rafforza la libertà individuale ed è «espressione dell'auotogoverno collettivo»; b) l'autonomia non esiste in quanto tale ma in quanto «organizzata», vale a dire nelle società democratiche moderne l'autonomia «presuppone sempre dipendenza e cooperazione sociale, tecniche indirette e strategie istituzionali».
Poiché nel vuoto giuridico e politico non si dà autonomia, occorre riconoscere le precondizioni e le risorse da cui l'autonomia dipende, le quali per molti aspetti sono fornite dallo Stato. Succede per i beni sociali quello che era già accaduto con la “pace” per la fuoriuscita dallo hobbesiano stato di natura: l'obiettivo, desiderato da tutti ma non perseguito da nessuno in assenza di un impegno collettivo a cooperare per raggiungerlo, richiede un intervento del governo, giustificato, secondo Holmes, «non solo dal fatto che esso protegge le vittime involontarie, ma anche, e soprattutto dal fatto che esso consente ai cittadini di fare insieme ciò che tutti desideriamo fare ma non siamo in grado di fare singolarmente. In altre parole [...] l'intervento dello Stato nello stesso tempo promuove la libertà dei cittadini e la limit[2].
L'applicazione delle norme di equità rafforza l'autodirezione individuale, anche per la motivazione universalistica e i modi con cui la triade libertà-eguaglianza-fraternità è perseguita nell'ambito di sistemi pubblici di cittadinanza e di protezione sociale e di dilatazione della sfera pubblica. Se in luogo di una motivazione universalistica prevalesse una motivazione di appartenenza comunitaria, si potrebbe arrivare a considerare trascurabili le conseguenze “disumane o incivili” dell'istinto di gruppo o dell'attaccamento alla propria fazione, senza vedere che, «a dispetto della sua natura disinteressata e del suo carattere comunitario», esso può minare «ogni possibilità di cooperazione reciproca estesa all'intera comunità di appartenenza». Invece, il riferimento alla sfera pubblica e al welfare state ci consente di mettere a fuoco una forma “più rara” di disinteresse ma più pregiata, che è quella che caratterizza i sistemi nazionali pubblici di protezione sociale. Questi, infatti, rappresentano modi di strutturare una solidarietà istituzionalizzata, in cui il credito dell'individuo nei confronti della società (il diritto a qualcosa) è strettamente saldato al debito (al dovere così contratto). Nel modello sociale europeo i contributi obbligatori – imposte e contributi sociali – sono l'analogo strutturale del dovere di solidarietà, ma, mentre la solidarietà tradizionale si manifesta nel quadro di legami personali, la solidarietà moderna si esercita grazie alla mediazione di organismi anonimi, lo Stato erogatore di servizi, le agenzie di pubblico interesse, le istituzioni della previdenza sociale e così via.
Questo tipo di solidarietà permette di estrinsecare un rapporto di obbligazione collettiva non strutturato su un legame familiare o comunitario. Le istituzioni basate su tale accezione del principio di solidarietà hanno la caratteristica di esercitare una titolarità congiunta su un credito contributivo e su un debito di prestazione corrispondente. Tale doppia titolarità[3] si manifesta in un fondo comune in cui si compensano versamenti e prelievi, dotato di un'elevata capacità di mobilitazione di risorse e di neutralizzazione dei rischi. Il legame personale tra creditore e debitore sparisce e la solidarietà si estende a un paese intero attraverso servizi e prestazioni pubbliche che erogano – in condizioni di parità di accesso – salute, energia, trasporti, abitazioni, istruzione, formazione, previdenza.
È di grande rilievo che la Carta europea di Nizza dei diritti fondamentali, con l'ispirazione di rafforzare il modello sociale europeo, abbia dato nuova estensione al principio di solidarietà, riferendola ai diritti sociali ma anche a nuovi diritti e nuovi principi, quali il diritto del lavoratore all'informazione, il diritto di negoziazione e di azione collettiva, il diritto di accesso ai servizi pubblici[4]. Si confermano due assi centrali del rapporto tra espansione della sfera pubblica e democratizzazione. Primo: eguaglianza e solidarietà non sono concepite soltanto come modi per tutelare dai rischi ma come strumenti concreti per esercitare libertà. Secondo: la solidarietà costituisce l'humus da cui può essere generato un freno all'incalzante mercificazione degli uomini e delle cose e alla relativa crescente tendenza all'elusione delle responsabilità.
Si ripropone qui – sul terreno dell'incrocio tra dinamiche di democratizzazione, sviluppo della sfera pubblica, evoluzione del welfare state – il difficile destino della nozione di responsabilità, nell'oscillazione tra responsabilità oggettiva e responsabilità soggettiva e tra responsabilità individuale e responsabilità collettiva. La nozione di responsabilità oggettiva (responsabilità per rischio e non per colpa), codificata con le prime leggi sugli infortuni sul lavoro della fine dell'Ottocento, è cruciale: essa è all'origine della nascita dei sistemi di protezione collettiva odierni, dove la responsabilità è assunta da un centro di imputazione collettiva. Ma come fare quando si diffondono reti prive di centro, almeno all'apparenza, o trame di connessione autoregolate da cui sembra sparire il soggetto e nessuno è più chiamato a rispondere di nulla? Dire che tutti noi che viviamo in società siamo tenuti ad assumere responsabilità per altri, e che nessuno può essere esonerato da questa aspettativa, non è esattamente lo stesso che dire che nonesistono diritti individuali senza responsabilità individuali. L'ultimo assunto in molte circostanze semplicemente non è vero: ad esempio, se ho mancato di curarmi dei miei figli non per questo verrò privato del diritto a un equo processo o della libertà di parola. Il primo assunto (siamo tenuti ad assumere responsabilità per altri) fa riferimento primariamente non a impegni legali ma ad aspettative morali[5]. Che nessuno sia discriminato in base al genere, l'etnia, le preferenze sessuali, la religione, la disabilità, o che per tutti siano soddisfatte le necessità elementari della vita, sono impegni che possono essere assunti solo da istituzioni espressione di entità collettive superiori e impersonali, in grado di mediare nella sfera pubblica democratica diverse istanze, problemi mutevoli, bisogni variegati e di far sì che a responsabilità da parte di tutti corrisponda il reciproco di responsabilità nei confronti di tutti. Infatti, la responsabilità individuale ha bisogno di un contesto siffatto per esercitarsi: in sua assenza si verifica la “resa silenziosa della responsabilità pubblica” e la stessa responsabilità individuale declina o si stravolge.
Qui, nell'abbandono della “responsabilità collettiva”, troviamo uno degli aspetti più inquietanti delle spoglie con cui il neoliberismo oggi si riproduce sotto forma di neopopulismo con forti venature decisioniste, autoritarie, protezioniste[6]. Il decisionismo odierno, infatti, ha una curvatura hobbesianamente orientata all'affermazione della potenza, dell'interesse, della proprietà del più forte: l'opposto della riproposizione di un intervento pubblico finalizzato al potenziamento della sfera pubblica, al rafforzamento della democrazia, all'esercizio della “responsabilità collettiva” in ordine alla realizzazione del “bene comune”. Decisionismo significa privatismo, individualismo proprietario, negazione del fondamento della “responsabilità collettiva”, Stato coercitivo premoderno e non Stato di diritto (che ha a cuore la giustizia sociale e la redistribuzione della ricchezza). Decisionismo significa affermazione di interessi privati che si preselezionano senza ricorso ad alcuna mediazione istituzionale, repulsa del dibattito pubblico che si esprime nelle sedi istituzionali e nelle aule parlamentari, spoliazione della dimensione pubblica della politica e privatizzazione delle stesse funzioni di governo, esaltazione dell'immediatezza della società civile che si autorappresenta, inneggiamento alla libertà «contro» le solidarietà trasversali e lo stato sociale («non contro lo Stato gendarme») come «sola forte libertà che le destre liberiste-comunitariste esaltano e vogliono proteggere»[7].
Non a caso una posizione come quella di Giulio Tremonti[8] non può essere affatto scambiata con una posizione in favore di un nuovo intervento pubblico mirante a esercitare “responsabilità collettiva”. Nella sua combinazione neocolbertiana di neoliberismo, decisionismo, protezionismo c'è molto interventismo ma poco intervento pubblico finalizzato al “bene comune”, e in ciò – nel privilegiare l'interesse privato e nell'oscurare la dimensione pubblica – si rintraccia la continuità, tra il presente del centro-destra italiano e il suo recente passato (segnato dall'abolizione dell'imposta di successione e donazione sui grandi patrimoni, la soppressione del reato di falso in bilancio, lo scudo fiscale per i capitali portati illegalmente all'estero, la miriade di condoni, la mancata risoluzione del conflitto di interessi ecc.).
In tale combinazione convivono i seguenti aspetti controversi:
– l'enfasi sul «terzo settore» si propone come pendant del decisionismo e si articola all'interno della riproposizione del mito dell'immediatezza, dell'autosufficienza, dell'autenticità della società civile.
– Il decisionismo è intriso di autoritarismo e di immagini di gerarchizzazione della società (di cui è esemplificazione il giudizio, tanto negativo quanto sommario, sul Sessantotto), di conservatorismo valoriale e di tradizionalismo religioso.
– La distinzione destra/sinistra viene deliberatamente attutita nella sua rilevanza attraverso un compiaciuto ricorso all'ambivalenza e all'ambiguità[9].
– Viene proposta una naturalizzazione della globalizzazione di cui si chiede un rallentamento e perfino un arresto, non un rovesciamento di qualità e di segno. I processi sono naturalizzati e questo inibisce la domanda su “quale globalizzazione”. Allo stesso modo non è pensabile per l'Europa una funzione di promozione di una globalizzazione “equa”. Ciò che si può e si deve configurare è solo una “fortezza Europa”, armata di un forte protezionismo, chiusa entro un Occidente guerrescamente visto come un monolite, ben diverso dall'“Occidente diviso” di cui parla Habermas, che individua nel modello sociale europeo uno dei tratti distintivi della specificità civilizzatrice dell'Europa.
Dunque, sono molti i motivi che spingono a riflettere su che cosa è stato e che cosa è il neoliberismo, nonché sull'impasto anche categoriale che lo costituisce.


* Il testo è tratto, per gentile concessione dell'editore, dal volume di L. Pennacchi, La moralità del welfare. Contro il neoliberismo populista, Donzelli, Roma 2008 (272 pagine), pp. 34-39.
[1] S. HOLMES, Passioni e vincoli. I fondamenti della democrazia liberale (1995), Edizioni di Comunità, Torino 1998, pp. 379 ss.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, pp. 240 ss.
[4] Si veda E. PACIOTTI, La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, in «Annali della Fondazione Giuseppe Di Vittorio», Ediesse, Roma 2005, ma 2006.
[5]A. ETZIONI, introduzione a N. GILBERT, Transformation of the Welfare State. The Silent Surrender of Public Responsability, Oxford University Press, Oxford 2002.
[6] Il populismo del Berlusconi che vince le elezioni politiche italiane del 2008 viene da E. Scalfari così descritto: «un triangolo retto che è sempre eguale a se stesso su qualunque lato venga poggiato perché il bello del populismo consiste nella ubiquità di Berlusconi, leghista, statalista, liberista per naturale e plurima vocazione»; in “la Repubblica”, 4 maggio 2008.
[7] N. URBINATI, Se lo Stato sociale diventa un nemico,in ivi, 24 aprile 2008.
[8] Si veda G. TREMONTI, La paura e la speranza, Mondadori, Milano 2008. Il conservatorismo e il tradizionalismo valoriale fanno scuola nel centro-destra italiano. Nel Libro verde sul futuro del modello sociale(La vita buona nella società attiva), presentato il 25 luglio 2008 (25 pagine in tutto), contro il nichilismo della società moderna viene esaltata «la capacità di “fare comunità” a partire dalle sue proiezioni essenziali che sono la famiglia, il volontariato, l'associazionismo».
[9] Sui danni che provoca non solo al funzionamento mentale dei singoli individui ma all’intera organizzazione sociale il crescente ricorso a meccanismi di ambiguità (tra cui la malafede «basata sull’autoinganno piuttosto che sulla menzogna ma non per questo meno malefica»), si veda S. ARGENTIERI, L’ambiguità, Einaudi, Torino 2008.
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