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Editoriale

Governare la paura

La recente crisi economica e l’elezione di Barack Obama inducono, anche se per motivi diversi, a riflettere criticamente sul modo in cui il problema della sicurezza è stato affrontato, in questi ultimi anni, da larga parte delle classi dirigenti e dell’opinione pubblica dei paesi democratici, sulle paure che hanno occupato la scena mediatica e sulle risposte politiche approntate. Mentre manager e uomini di governo privi di senso del limite e di responsabilità, come illustra Alberto Castagnola nel suo articolo, distruggevano le condizioni di sicurezza economica di milioni di cittadini, quegli stessi cittadini non di rado si lasciavano assorbire dall’ossessione per i pericoli derivanti dalla microcriminalità, dall’invasione degli stranieri o dal terrorismo islamico: rischi per la sicurezza almeno in parte reali, ma che si sono spesso dimostrati ben meno gravi di quelli economici che maturavano nell’ombra, fuori dalle agende politiche e dai dibattiti televisivi. Non che non ci fosse chi denunciava quanto stava accadendo, ma la sua voce si perdeva all’interno di un’arena pubblica dominata da ben altre preoccupazioni.

Una tra le principali paure che hanno attraversato molte democrazie in questi anni è stata quella dello straniero, o meglio della “contaminazione” con il suo sangue e la sua cultura: la bandiera dell’Occidente è stata di frequente issata a baluardo della sicurezza identitaria contro ogni forma di meticciato, una sicurezza di cui innanzi tutto gli Stati Uniti sono stati chiamati a farsi garanti. Ma nella roccaforte dell’Occidente una larga maggioranza di elettori ha scelto come proprio Presidente un uomo che si è definito con le seguenti parole: «In quanto figlio di un nero e di una bianca, nato nel crogiuolo razziale delle Hawaii, con una sorella per metà indonesiana ma in genere scambiata per messicana o portoricana, e un cognato e una nipote di origini cinesi, con alcuni consanguinei che assomigliano a Margaret Thatcher e altri così neri da poter passare per Eddie Murphy, tanto che i raduni familiari assumono l’aspetto di una riunione dell’Assemblea generale dell’Onu, non mi è mai stato possibile limitare la mia lealtà su base razziale o misurare il mio valore su base tribale». La vittoria di Obama sembra essere una grande risposta politica e culturale a quanti hanno cercato, e cercheranno ancora in futuro, di costruire un mondo, o più semplicemente le proprie fortune politiche, sulla paura del meticcio; ma non solo. Forse la sua elezione esprime anche l’esistenza di un largo consenso ad un progetto politico che ha tra i suoi principali obiettivi quello di affrontare il tema sicurezza in maniera diversa da come è stato gestito negli ultimi anni; e questo non semplicemente puntando l’attenzione su forme di sicurezza (come quella sanitaria o ambientale) a lungo trascurate, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche mettendo in campo una cultura politica diversa rispetto a quella risultata egemone fino ad oggi.

Le politiche della sicurezza in democrazia possono essere volte a governare la paura o a strumentalizzarla. Nel primo caso si tratta di impedire che essa prenda il sopravvento, che finisca per dominare la scena pubblica e la vita privata dei cittadini, che diventi il principio di azione politica. Questo è possibile cercando di ridurre l’incidenza dei fattori che la generano, ma anche diventando capaci di convivere con essa circoscrivendola, dandole una forma, riuscendo a superarla pur non potendo eliminarla, cioè ad agire nonostante la paura e non solo perché mossi da essa. Una politica che punti a governare la paura implica, per prima cosa, che si eviti ogni semplificazione, ad esempio riducendo il problema alla mera difesa dalla microcriminalità, che si riconosca che vi sono diversi tipi di sicurezza (ambientale, sociale, identitaria, ecc.) e che, di conseguenza, è necessario predisporre politiche pubbliche articolate e di lungo termine. La difesa della sfera privata e il Welfare sono state anche due grandi strategie di governo della paura, come ci mostra nel suo articolo Michel Senellart. Solo una nuova forma di messianismo politico, però, potrebbe avanzare la pretesa di eliminare la paura: un mondo in grado di liberarsi della paura sarebbe un mondo senza morte, dolore, violenza e ingiustizia. Occorre dunque convivere con la paura: lo si può fare lasciando che essa, come nota Laura Lanzillo nel suo contributo, diventi sovrana o riuscendo, in qualche modo, a padroneggiarla. Nel primo caso si rimane come inchiodati alla paura, assorbiti da essa. In queste condizioni la paura non può che assumere una rilevanza sempre maggiore all’interno dell’agenda politica, diventando un’ossessione per placare la quale si è disposti a sacrificare significativi spazi di libertà: la forza (e spesso la sua mera ostentazione simbolica) finisce allora per sostituirsi sempre di più al governo. Nel secondo caso, invece, non ci si lascia paralizzare dalla paura, non si permette che cresca oltre misura e che monopolizzi il campo dell’agire politico. Questo è possibile, è importante ribadirlo, attraverso interventi diretti ad incidere sulle cause sociali delle diverse forme di paura, ma anche grazie alla promozione di un ethos pubblico e privato capace di dominarla. Lavoro lento e faticoso, che ovviamente non investe solo la politica, ma che appare necessario se si vuole neutralizzare quello che rappresenta uno dei pericoli maggiori per la democrazia. Infatti, oltre certi limiti, come ha osservato Eibl-Eibesfeldt, la paura “infantilizza” il cittadino rendendolo particolarmente influenzabile dalla propaganda dell’“uomo forte” che promette sicurezza: un meccanismo liberticida tristemente noto. Al contrario là dove si cerca di governare la paura, la sicurezza è concepita come condizione della libertà, come premessa per l’effettivo godimento dei diritti di cittadinanza.

Purtroppo, la strumentalizzazione della paura sembra aver preso il sopravvento su ogni tentativo di governarla. La paura può diventare un efficace strumento di lotta politica solo là dove la sicurezza, intesa innanzi tutto come difesa della vita e dell’ordine, costituisce il fine il cui perseguimento legittima il potere pubblico. Quest’ultimo fonda il proprio consenso sulla presunta capacità di rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini: da ciò la centralità assunta da tale tema nella politica interna e internazionale. È evidente che quanto più una classe dirigente si affida a tale logica per conquistare e consolidare il proprio potere, tanto più ha bisogno della paura. Ciò non significa che quest’ultima sia solo un prodotto mediatico creato ad arte da una sorta di élite al potere. È questa una visione semplicistica che ha sempre un largo seguito, in particolare in Italia, e che impedisce di cogliere le basi reali dei rapporti di forza politici. David Garland, nel suo studio su La cultura del controllo, ha giustamente rilevato che le sensibilità che caratterizzano la cultura popolare, in relazione al crimine e al suo controllo, «non sono il prodotto dei media o della retorica politica, benché entrambi vi giochino un ruolo. Nascono dall’esperienza collettiva della criminalità nella vita quotidiana e dagli adattamenti pratici che ne sono risultati».

Le politiche che strumentalizzano la paura non la inventano, ma intervengono su di essa in due modi: innanzi tutto scelgono di puntare su una paura in particolare (ad esempio, del terrorismo o della microcriminalità); quest’ultima viene poi assolutizzata, diventa cioè la paura a cui far fronte garantendo la sicurezza dei cittadini. Nasce così una vera e propria ideologia della sicurezza, dal momento che il tratto peculiare delle ideologie, come ha mostrato la Arendt, è proprio quello di costruire un quadro fittizio della realtà, assolutizzandone alcuni aspetti e occultando o svuotando gli altri. Altre forme di sicurezza (ad esempio ambientale, alimentare, lavorativa), altrettanto e spesso più rilevanti rispetto a quella oggetto di intervento politico, scompaiono allora dalla scena pubblica o sono messe ai margini: è il contrario di quell’approccio “olistico” richiamato nell’articolo di Thomas Casadei. A questa ideologizzazione del problema si accompagnano spesso misure di riduzione delle libertà, legittimate proprio sulla base della necessità di combattere le minacce alla sicurezza. Si comprende dunque per quale ragione l’insicurezza sia stata non di rado deliberatamente alimentata: una pratica purtroppo nota che ha dato origine, ad esempio, a varie forme di terrorismo di Stato e alla strumentalizzazione del pericolo comunista o di quello terrorista. È evidente che si tratta di strategie in buona parte occulte in quanto contrastanti con il fine dichiarato pubblicamente (la sicurezza) dei soggetti che le promuovono. Diventano allora importanti, per la tenuta democratica di un paese, il suo ethos civile, e più in generale i suoi costumi, oltre alla sua architettura istituzionale: è proprio su questo piano, infatti, che possono trovare un efficace limite le eventuali mire liberticide e autoritarie di una classe dirigente. In Italia il problema assume tratti particolarmente preoccupanti anche perché siamo storicamente deboli su questo versante, come dimostrano ad esempio i drammatici fatti di Genova, la cui gravità e il cui valore emblematico, non a caso, sono stati colti solo da una ristrettissima minoranza dell’opinione pubblica.

L’elezione di Obama è un motivo di speranza perché si presta forse ad essere letta anche come la vittoria, dopo tanti anni di strumentalizzazione della paura, di un grande progetto di governo della paura. In un’epoca in cui, su scala mondiale, una parte consistente delle classi dirigenti ha edificato il proprio potere su tale strumentalizzazione, un’operazione del genere appare estremamente delicata e, occorre riconoscerlo, non priva di pericoli per coloro che cercheranno di condurla a termine. Giovanna Botteri nel suo articolo ricorda le parole pronunciate da Roosevelt: «So, first of all, let me assert my firm belief that the only thing we have to fear is fear itself». Occorrerà una sapiente miscela di coraggio politico e di prudenza, oltre ad un forte sostegno popolare, per riuscire a sconfiggere i numerosi “ministri della Paura” che in questi anni hanno costruito pericolose reti transnazionali di potere.

Vincenzo Sorrentino


IN QUESTO NUMERO

Il sesto numero di Cosmopolis si apre con una sezione dedicata al problema della sicurezza, nel tentativo di fornire un'esaustiva visione d'insieme che affronti il tema da diversi punti di vista. L'intervento di Thomas Casadei tenta di mettere in atto un approccio “olistico” all'argomento, al fine di cogliere adeguatamente le diverse forme di sicurezza e insicurezza e le correlazioni e le tensioni con altri fattori storici e sociali. In linea con questo approccio “integrato”, Michel Senellart affronta in una prospettiva storica il rapporto tra Stato moderno e sicurezza, fornendo una cornice di senso in cui poter inserire il rapporto tra sicurezza e politica. Danilo Zolo, invece, ci offre una tematizzazione del concetto di “paura”, in stretta connessione dialettica con quello di “sicurezza” e con il mondo “politico”. In questo senso anche l'intervento di Maria Laura Lanzillo, seguendo un itinerario che partendo da Hobbes arriva ad autori più recenti, riflette sul fatto che l’attuale “ritorno della paura”, sia nell’opinione pubblica che nel dibattito scientifico, stia a testimoniare una crisi dell'attuale orizzonte politico e epistemologico. Un altro aspetto preso in considerazione nell’intervento di Zolo riguarda il welfare state, considerato l'apice del processo di regolamentazione della paura operato da parte del sistema politico occidentale. Di questo si occupa in parte anche Laura Pennacchi che, nel suo intervento, ci mostra come la traiettoria semantica della parola “sicurezza” possa essere estesa fino ad una riflessione sulla solidarietà sociale e sui limiti del neoliberismo. Alberto Castagnola unisce il tema della sicurezza a quello dell'attuale crisi economico-finanziaria e, attraverso un'attenta disamina delle cause di tale crisi e delle misure finora intraprese dai diversi governi, ne ipotizza le conseguenze future. Una parte importante di questa sezione è dedicata ad una lettura dei temi della paura e della sicurezza, calati nella realtà degli Stati Uniti d'America. David Garland ci parla di come, dopo l'11 settembre, si siano trasformate le pratiche legate al controllo del crimine, per quanto riguarda la prevenzione, le azioni giudiziarie e le pene. L'intervista a Bernard E. Harcourt si concentra invece sull'evoluzione che ha subito il sistema giudiziario negli Stati Uniti, attraverso una lucida critica dei metodi probabilistici che sono alla base del sistema attuale. L'intervento di Henry A. Giroux sottolinea, inoltre, alcune tendenze anti-democratiche presenti sia all'interno del sistema statunitense che a livello globale: il fondamentalismo del mercato e religioso, la diffusione di un’educazione di tipo a-critico, il riemergere del razzismo, dell’ipernazionalismo e del militarismo. Loïc Waquant pone invece l'attenzione sul nesso tra sicurezza/insicurezza e sulla situazione di indigenza vissuta nelle zone più marginali, povere e deindustrializzate delle città americane ed europee. La sezione di apertura ospita contributi volti ad affrontare il tema della sicurezza anche in riferimento alla situazione italiana. A tale proposito, Vito D’Ambrosio conduce un'analisi critica dei provvedimenti presi dall'attuale governo italiano in materia di sicurezza, approfondendo in particolare il punto di vista legislativo e le possibili conseguenze a breve e lungo termine. L’intervento di Valter Bielli si concentra, invece, sul legame tra sicurezza e terrorismo, proponendo uno studio scientifico che metta in luce le reali caratteristiche di questo fenomeno, ancora drammaticamente attuale – se pur in forme nuove – in Italia. Fabio Gavelli esamina il rapporto tra paure, sicurezza e media, sottolineandone l'influenza sulla vita politica italiana; la semplificazione è ciò che caratterizza oggi il linguaggio pubblico, in cui prevalgono temi e immagini “conservatori”. Il tema del rapporto tra informazione e sicurezza viene trattato in termini più generali da Gianni Cipriani, che si interroga su quanto e come l'informazione possa influire sulla paura, le incertezze e il senso di insicurezza delle persone, portando esempi concreti di strumentalizzazione mediatica. Infine, Mario Luberto declina il tema della sicurezza nell'ambito informatico, interessandosi in particolar modo della legge del 2008 di ratifica della Convenzione di Budapest sul cybercrime.
Con la seconda sezione Cosmopolis dedica per la prima volta uno spazio specifico al mondo del teatro. Vengono infatti ospitate due sceneggiature: la prima, inedita, è firmata da Jean-Pierre Thiercelin ed è stata realizzata appositamente per la rivista. La seconda, di Laura Fatini, è incentrata sul tema dell'attesa: diversi personaggi, avvolti da un’atmosfera rarefatta, s'incontrano mentre attendono quello che si dimostrerà uno “strano” colloquio.
La consueta sezione dedicata ai “transiti d'arte” si apre con l'intervista a Guido Harari, realizzata da Guido Alici, in cui viene ricordato il cantautore Fabrizio De Andrè, sottolineando la grandezza di questa figura di poeta e uomo di pensiero nel panorama musicale e culturale italiano. Paolo Benvenuti e Paola Baroni, intervistati da Andrea e Ilaria Fioravanti, ci raccontano la genesi e la realizzazione del loro ultimo film Puccini e la fanciulla, che ricostruisce alcuni tratti privati della vita di Giacomo Puccini. L'intervento di Sara Codini offre invece un'analisi de Il malinteso di Albert Camus, sottolineando la confluenza, in quest'opera, di diversi filoni contenutistici e interpretativi, calati nella cornice e nella narrazione drammaturgica della tragedia greca.
Nella sezione “Fra le righe” Giovanna Botteri offre un resoconto della situazione che ha preceduto le elezioni americane del 2008, descrivendo i profili, la storia e le campagne elettorali dei due candidati alla presidenza e il contesto politico, economico e sociale in cui si è inserita la competizione che ha portato Barack Obama alla vittoria. La giornalista televisiva kosovara Jeta Xharra, nell'intervista a cura di Roberto Vicaretti, riflette sul rapporto tra guerra, diritti umani e informazione, anche con riferimenti alla propria esperienza professionale e personale. Infine Elena Asciutti parla di quello che viene definito soft power cinese; come testimonianza concreta dei rapporti tra la Cina e gli altri paesi, con particolare riferimento all'Italia, viene portato l'esempio degli “Istituti Confucio”.

Romina Perni
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