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Soft Power cinese: Istituto Confucio e l’esperienza italiana

Elena Asciutti
A pochi mesi dalla conclusione delle Olimpiadi 2008, la Repubblica Popolare Cinese fa il punto sul raggiungimento di uno degli obiettivi più importanti dell’organizzazione dei Giochi Olimpici: l’incremento del proprio soft power. Attraverso le Olimpiadi, infatti, la Cina ha voluto accrescere il prestigio internazionale e l’attrazione che esercita sugli altri Paesi. In particolare, la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi 2008 non è stata solo una festa internazionale per dare il benvenuto a ospiti ed atleti provenienti da tutto il mondo. Più di qualsiasi discorso ufficiale pronunciato da politico o diplomatico cinese, la cerimonia olimpica dell’8 agosto 2008 ha messo in chiaro l’intenzione della Cina di affermarsi come potenza culturale, morale e politica a livello globale, oltre che economica. Per far ciò, la Repubblica Popolare Cinese ha puntato sulla propria civiltà antica, colta e ricca di valori, tra i quali hanno predominato quelli confuciani proiettati in tutto lo stadio: “armonia” e “felicità di ricevere amici giunti da lontano”. Seppure in termini soft, le Olimpiadi hanno anche parlato di relazioni internazionali e del relativo coinvolgimento cinese.
Dalla metà degli anni Novanta, la trasformazione della Repubblica Popolare Cinese in attore internazionale attivo è stata una delle conseguenze più rilevanti della riforma economica avviata da Deng Xiaoping[1] nel 1978. La Cina ha esteso e approfondito la sua rete di relazioni bilaterali, ha aderito a numerosi trattati economici, in materia di diritti umani e di sicurezza, ha svolto un ruolo crescente nelle organizzazioni multilaterali e nella risoluzione di problemi internazionali, ha contribuito alla stabilità politica ed economica dell’Asia Pacifico[2]. A questo proposito, nel precedente numero di “Cosmopolis”, Guido Samarani ha messo in risalto come la Cina sia stata capace di costruire una forte ma non aggressiva immagine internazionale di sé, collegando il proprio sviluppo economico alla pace e alla stabilità internazionali. Questa è la strategia dello «sviluppo pacifico», che il governo cinese considera di fondamentale importanza per la costituzione di un «mondo armonioso»[3], ovvero un mondo in cui prevalgono «parità e democrazia nella politica, mutuo vantaggio e cooperazione nell’economia, scambi e progressi comuni nella cultura attraverso la cooperazione amichevole fra Paesi, risoluzione dei problemi tradizionali e non tradizionali di sicurezza a livello globale, pace duratura e prosperità comune del mondo»[4].
La trasformazione dell’immagine e dell’influenza della Cina può essere ricollegata a una serie complessa di fattori. Innanzitutto, la Cina ha tratto beneficio da alcuni passi falsi compiuti dagli Stati Uniti d’America in ambito internazionale, quali la lenta reazione alla crisi finanziaria asiatica del 1997 e la miopia anti-terroristica con cui hanno agito in Asia dopo l’11 settembre 2001. In secondo luogo, la scelta del soft power come strumento per l’attuazione della strategia dello “sviluppo pacifico” ha determinato una maggiore interazione della Cina con gli altri Stati nonché un suo maggiore coinvolgimento negli affari esteri.
Nelle relazioni internazionali, per soft power si intende il potere di persuasione di uno Stato nei confronti degli altri Paesi, che si distingue dall’hard power fondato invece sul potere di coercizione della forza militare ed economica[5]. Il soft power esprime quindi la capacità di uno Stato di modellare le preferenze a livello internazionale attraverso la propria personalità politica e culturale, i propri valori politici, le proprie istituzioni e politiche, poiché gli altri Stati ne ammirano i valori, ne emulano l’esempio e aspirano allo stesso livello di prosperità e apertura[6].
Attraverso le relazioni instaurate con i Paesi dell’Asia Pacifico in un primo momento e con molti Stati africani in un secondo, tuttavia, la Cina ha enunciato una formula più ampia di soft power, includendo tutti i settori di attività al di fuori delle questioni di sicurezza. Il soft power alla maniera cinese si presenta perciò come una combinazione di iniziative a carattere culturale ed educativo e aiuti allo sviluppo a favore dei Paesi più poveri. In questo contesto, la diplomazia culturale cinese, ovvero lo scambio e la cooperazione internazionali nell’istruzione e nella cultura, si è distinta per originalità ed efficacia.
Esportare lo studio della lingua mandarina e la comprensione della cultura cinese è infatti diventato uno dei tasselli chiave che compongono il soft power cinese. Sull’esempio della Società Dante Alighieri o del Goethe Institut, la Cina ha avviato un ampio progetto formativo e culturale, chiamato “Istituto Confucio”. Il progetto è nato nel 2002, quando il Consiglio di Stato cinese decise di promuovere l’insegnamento del mandarino e di diffondere la cultura cinese all’estero in maniera più strutturata. Composto dai rappresentanti di ministeri e commissioni nazionali[7], l’Ufficio Nazionale per l’Insegnamento del Cinese come Lingua Straniera (Hanban, in mandarino), struttura cinese pubblica senza fini di lucro, si occupa di avviare gli Istituti Confucio all’estero, fornendo il necessario sostegno finanziario, il personale docente e il materiale didattico. Dal 2004 al 2007, l’Hanban ha investito 25 milioni di dollari per la creazione di 210 Istituti in 64 Paesi, rivelando così l’importanza del progetto “Istituto Confucio” per la Cina nonché l’ambizione di raggiungere 100 milioni di utenti stranieri entro il 2010. Di fronte a questo progetto a lungo termine, il governo cinese è consapevole di non poter fare tutto da solo e di aver bisogno del coinvolgimento dei Paesi terzi. Pertanto, a differenza degli altri istituti di lingua e di cultura, gli Istituti Confucio sparsi per il mondo si fondano su accordi di cooperazione tra università straniere e università cinesi, dove le università straniere si impegnano a fornire il personale amministrativo e le strutture necessarie allo svolgimento delle attività degli istituti. Attraverso la collaborazione scientifica, culturale e accademica tra istituzioni universitarie cinesi e straniere, le finalità dell’Istituto Confucio vanno ben oltre l’insegnamento del mandarino e il perseguimento dell’ideale dell’educazione permanente, ma si spingono fino alla creazione di una rete di fitte relazioni internazionali al cui centro gravita la Repubblica Popolare Cinese, permettendo così di raggiungere obiettivi impliciti, quali l’ampliamento delle relazioni amichevoli tra nazioni, la promozione del multiculturalismo e la costruzione di un mondo armonioso[8].
Non è casuale la scelta del nome di uno dei più illustri pensatori cinesi per l’istituto cinese di lingue e di cultura: Confucio, riabilitato dal Partito Comunista Cinese nonostante la propaganda anticonfuciana condotta durante la Rivoluzione Culturale.
Confucio (551-479 a.C.) fu il fondatore di una scuola morale, politica e giuridica nel V secolo a.C. Confucio si dedicò alla raccolta e alla codificazione delle regole morali e sociali tradizionali, delle pratiche e dei modelli letterari, rituali e musicali dell'aristocrazia Zhou (dinastia che governò la Cina dal 1122 al 222 a.C.), al fine di utilizzare la tradizione come fondamento giuridico e culturale comune a tutta la popolazione cinese[9]. Secondo il modello giuridico confuciano, il primo obbligo del governo era provvedere alla sussistenza del proprio popolo al fine di assicurare l’armonia sociale, in cambio il popolo doveva obbedire e rispettare i riti[10]. La minaccia della sanzione penale era utilizzata con moderazione, poiché il governo dell'uomo era considerato preferibile a quello della legge. Secondo gli insegnamenti di Confucio, quindi, l’individuo doveva legare il proprio miglioramento al mantenimento dell'armonia sociale, attraverso l'azione virtuosa e il rispetto dei riti. L'essenza dell’insegnamento confuciano può essere sintetizzata nella buona condotta di vita e il buon governo dello Stato, raggiungibili attraverso la pratica delle virtù principali (carità, giustizia, amor filiale, rispetto della gerarchia), il rispetto dei riti della tradizione e lo studio. Dalla Cina la dottrina confuciana si diffuse nel corso del primo millennio dell'era cristiana in Corea e Giappone. Nel secondo millennio, i valori confuciani si estesero alla maggior parte delle popolazioni dell'Asia pacifico, che avrebbero adattato la dottrina confuciana ai propri bisogni politici e sociali, attraverso un processo di interpolazione con le diverse religioni. Nel terzo millennio, il Partito Comunista Cinese ha adattato alcuni dei valori confuciani, in particolare l’istruzione (apprendimento del cinese all’estero) e l’armonia (“mondo armonioso”) all’esigenza di riabilitare e promuovere la Cina in ambito internazionale[11]. È stata una carta vincente: infatti, il fascino della cultura cinese presentata attraverso il progetto “Confucio” ha esercitato una forte attrazione sugli altri Paesi, garantendo la rapida diffusione degli istituti e la conclusione di numerosi accordi bilaterali di cooperazione.
Dopo un lungo e complesso processo di selezione da parte dell’Hanban, anche alcune università italiane sono entrate a far parte della rete degli Istituti Confucio. Al momento, sono attivi sei istituti che operano a Roma, Napoli, Pisa, Torino, Bologna e Padova. Il primo istituto è stato fondato nel 2006, attraverso un accordo tra la Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma “la Sapienza” e l’Università di Lingue Straniere di Pechino[12]. Nel 2007, sono stati costituiti altri due Istituti Confucio, a Napoli e a Pisa. L’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” ha creato il proprio Istituto in collaborazione con l’Università di Studi Internazionali di Shanghai[13]. Mentre l’Istituto Confucio di Pisa è nato da un accordo di cooperazione tra la Scuola Superiore Sant'Anna e l’Università di Chongqing, principale luogo di formazione e ricerca universitaria nella Cina centro-occidentale[14]. Nel 2008, Torino[15], Bologna e Padova hanno infoltito il gruppo di istituti confucio italiani, firmando un accordo di cooperazione con l’Hanban, attraverso i loro partner cinesi rispettivamente East China Normal University di Shanghai, Università del Popolo di Pechino e Università di Canton. Nei sei casi, la creazione di un Istituto Confucio rappresenta il coronamento di preesistenti e riusciti scambi accademici e scientifici tra le università italiane e i loro partner cinesi. Nonostante le diverse tradizioni accademiche delle università fondatrici, tutti e sei gli Istituti Confucio italiani operano per soddisfare le richieste di coloro che sono interessati a studiare la lingua mandarina attraverso l’organizzazione di corsi di lingua, e al tempo stesso per ampliare la conoscenza delle tradizioni e della cultura cinese attraverso manifestazioni culturali. Inoltre, gli Istituto Confucio italiani sono importanti luoghi di ricerca sulle trasformazioni della Cina contemporanea, in ambito politico, economico, sociale, culturale, nonché per lo scambio di tecnologie e saperi. Le attività e i risultati della ricerca vengono messi a disposizione di istituzioni e imprese locali che intendono collaborare con partner cinesi. Attraverso l’integrazione e collaborazione con il sistema accademico cinese, gli Istituti Confucio italiani sono perciò destinati a diventare luoghi di incontro e di dialogo accreditati dal governo cinese, ponti tra Italia e Cina.
Nel definire il soft power, Joseph Nye ha inoltre identificato i tipi di nazioni che possono eccellere in questo strumento nelle relazioni internazionali: le nazioni la cui cultura e i cui ideali sono più vicini ai valori condivisi dalla comunità internazionali; le nazioni che riescono ad accedere a diversi canali di comunicazione e sono pertanto capaci di influenzare le questioni internazionali; le nazioni la cui credibilità internazionale è accresciuta dalla politica domestica. Nonostante la Cina possa apparire ancora lontana dalle linee guida stabilite dallo studioso statunitense, poiché in termini di valori politici la Cina rimane un Paese autoritario, è riuscita a ricostruire l’immagine del Paese e a diffondere un proprio modello di sviluppo, conosciuto con il nome di “Beijing consensus”[16]. Il modello unisce un governo autoritario all’economia di mercato e si sta diffondendo in molte parti del mondo, in particolare in Asia Pacifico, sostituendosi al precedente modello di sviluppo, il “Washington consensus” che unisce l’economia di mercato al governo democratico. Questa trasformazione è certamente legata alla capacità della Repubblica Popolare Cinese di ricostituire i legami con la ricca tradizione di pensiero – in particolar modo con il Confucianesimo – nonché all’abbandono di un atteggiamento di completa chiusura a ogni rapporto culturale con il resto del mondo. Nel contesto globale, quindi, il progetto Istituto Confucio diventa espressione emblematica di una nuova politica estera della Repubblica Popolare Cinese.

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[1] Il sistema di trascrizione dei nomi cinesi qui utilizzato è quello ufficiale, ammesso dal governo della Repubblica Popolare Cinese, noto con in nome di pinyin. Si è fatta eccezione per alcune forme italianizzate ornai invalse nell’uso, come Confucio. Per i nomi propri cinesi di persona si è seguito l’uso cinese di preporre il cognome al nome. Inoltre, nella bibliografia si è scelto di usare cognome e nome in forma estesa.
[2] Da un punto di vista geo-culturale, l’Asia Pacifico corrisponde al mondo sinico, ovvero l’area che comprende tutti i Paesi che sono stati profondamente influenzati dalla civiltà cinese e dal pensiero confuciano. Si tratta di un poloconfuciano composto da Cina, Taiwan, Vietnam, Singapore, la penisola coreana e l’arcipelago giapponese. Cfr. F. MAZZEI, V. VOLPI, Asia al Centro, Egea, Milano 2006, p. 39. Se si prende in considerazione anche il punto di vista geo-economico, lo spazio di riferimento diventa più vasto, travalicando i confini della civiltà sinica e includendo la penisola indocinese, la penisola malese, l’Indonesia e le Filippine. L’allargamento del polo confuciano deve essere attribuito a due fattori principali. In primo luogo, il Giappone prima e la Cina poi (le potenze confuciane in senso stretto) hanno rappresentato le forze economiche trainanti, fornendo ai Paesi limitrofi il modello di riferimento economico per il loro sviluppo; la crescita economica senza precedenti costituisce elemento di omogeneità tra i Paesi dell’area. In secondo luogo, i 35 milioni di “cinesi d’oltremare” presenti nell’aerea hanno contribuito alla diffusione di alcuni elementi del pensiero confuciano. Dal punto di vista geopolitico, gli Stati dell’Asia Pacifico fanno parte dell’ASEAN+3 (Associazione delle Nazioni dell'Asia Sud-Orientale + 3, comprende Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania, Cambogia, Repubblica Popolare Cinese, Repubblica di Corea e Giappone), un meccanismo regionale finalizzato allo cooperazione in ambito economico, attraverso vertici intergovernativi periodici e conclusione di accordi internazionali.
[3] Concetto utilizzato per la prima volta dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Hu Jintao, durante il Discorso al Summit per il 60° Anniversario della Fondazione delle Nazioni Unite, New York, settembre 2005.
[4] Wen Jianbao (Premier della Repubblica Popolare Cinese), Relazione Annuale del Governo della Repubblica Popolare Cinese, Pechino, 2007, http://english.gov.cn.
[5] J. NYE, Soft Power, Einaudi, Torino 2005.
[6] Ibidem.
[7] Ufficio Generale del Consiglio di Stato, Ministero dell’Istruzione, Ministero delle Finanze, Ufficio Affari Esteri del Consiglio di Stato, Ministero degli Affari Esteri, Commissione per lo Sviluppo Nazionale e le Riforme, Ministero per il Commercio, Ministero della Cultura, Commissione di Stato per Radio, Cinema e Televisione, Commissione di Stato per la Stampa e le Pubblicazioni, Ufficio Informazione del Consiglio di Stato e Gruppo di Studio sulla Lingua Mandarina.
[9] 论语(Lunyu, Dialoghi) era una raccolta di dialoghi e discussioni tra Confucio e altri personaggi, per lo più discepoli e feudatari. Confucio non fu il loro autore in maniera sicura; nessuna fonte afferma ciò; la trasmissione dei suoi detti era orale ed ovviamente lo stile veniva modificato a seconda della lingua del tempo. La tradizione ne voleva autori i discepoli di Zengzi (505 a.C. ?), uno degli allievi del Maestro; saremmo così alla seconda generazione di interpreti confuciani. 孔子家語 (Kongzi Jiayu, Le parole della scuola di Confucio) è una raccolta di detti di Confucio, la cui redazione si può datare intorno al II secolo d.C. Si tratterebbe di materiali che non trovarono posto o furono scartati dalla prima raccolta, complementari a essa ma di minore importanza; in molti casi in tale testo possono essere rispecchiate fonti antiche, che possono darci una più completa immagine di quella che fu la predicazione di Confucio. Cfr. L. LANCIOTTI, Confucio: la vita e l’insegnamento, Ubaldini, Roma 1997.
[10] Il rito (li in cinese, ) può essere considerato come un istituto giuridico vicino alle materie civilistiche della tradizione giuridica romanistica, soprattutto quelle relative allo statuto personale, dal matrimonio alle successioni. Il li divenne perciò lo strumento migliore per disciplinare la società, mantenendo le differenze tra individui, derivate dall'appartenenza sociale.
[11] Per esempio, gli Istituti Confucio cercano di favorire l’attuazione della politica di “una sola Cina”, contro Taiwan.
[16] La Cina non ha ceduto all’occidentalizzazione, ma ha scelto una nuova versione del tiyong che propugnavano gli intellettuali cinesi ala fine del XIX secolo: mantenere l’essenza (ti) cinese pur adottando la funzione (yong) occidentale. Il capitalismo e la crescente partecipazione all’economia mondiale sono stati accompagnati dall’autoritarismo e dal ritorno alla tradizionale cultura cinese. La nuova legittimità del regime cinese poggia su un nazionalismo che si richiama ai tratti distintivi della cultura millenaria sinica. Cfr. S.P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996; tr. it. S. Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000.
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