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Barack Obama e il sogno americano

Giovanna Botteri

Il 5 dicembre 1985, all’hotel Plaza di New York, William F. Buckley, forse il più famoso degli intellettuali conservatori americani, festeggiava i trent’anni della sua “National Review”[1]. L’attore Charlton Heston presentava la serata di gala, di fronte ad un pubblico elegante e mondano, che andava da William J Casey[2] a Nancy Kissinger[3] e Tom Selleck. Tredici mesi prima Ronald Reagan era stato rieletto, conquistando tutti gli stati meno il Minnesota del suo avversario democratico, Walter Mondale. «Come individuo lei incarna gli ideali americani a tutti i livelli» disse Buckley al presidente, «come massima autorità del paese, in ogni momento di grave difficoltà, noi dipendiamo completamente dalle sue scelte». Buckley poi raccontò che aveva solo diciannove anni, quando gli americani sganciarono la bomba atomica su Hiroshima. Ne aveva sessanta il giorno della festa e aveva vissuto quegli ultimi quarantuno anni da uomo libero, in un paese libero grazie a quella bomba. E si augurava che i suoi figli e i suoi nipoti continuassero a vivere da uomini liberi senza dimenticare che dovevano la loro libertà al sangue dei padri.

Era l’epoca d’ora del reaganismo. Le luci scintillanti del Plaza e la guerra fredda che imponeva di non dimenticare mai le minacce in agguato dall’esterno. Il Partito democratico, distrutto dalla sconfitta di Mondale, cercava di riorganizzarsi. L’idea era di ricominciare dal North Carolina. Ma il comitato partito da Washington, di cui faceva parte anche Joe Biden[4], incontrava solo ex-elettori delusi, che dicevano che non erano stati loro, ma il partito, a smettere di credere. Alla fine il comitato decise di annullare tutti gli appuntamenti, e di mantenere solo un fundraising, una raccolta di fondi, in un albergo vicino all’aeroporto di Greensboro, da cui poi sarebbe ripartito. La giornata era fredda e piovosa, e la delegazione di democratici era sicura che non si sarebbe presentato nessuno.
Ma quando arrivarono, c’era una fila lunghissima che li aspettava sotto la pioggia.
Per Jon Meacham, politologo ed editorialista di “Newsweek”, in questi due momenti, la festa al Plaza e l’assemblea a Greenboro, si ritrovano le radici della politica americana. E probabilmente un pezzo di verità della lunga corsa elettorale per la Casa Bianca. La più lunga, la più combattuta e forse la più appassionante che la storia americana abbia mai conosciuto.
Gli otto anni di amministrazione Bush hanno prodotto due guerre sanguinose ed irrisolte, in Iraq e in Afghanistan. Un’economia in recessione. Un gigantesco intervento federale che la gente comune vive come un tentativo di salvare la finanza a spese delle famiglie. La strada per i democratici dovrebbe essere spianata, ma la realtà è più complessa e contraddittoria, come sempre. Gli Stati Uniti sono un paese fondamentalmente conservatore, con una solida maggioranza di centro-destra. E i presidenti democratici che sono riusciti a vincere le elezioni restano ancora un’eccezione. Franklin Delano Roosevelt vinse nel 1932, quando il paese era in piena recessione. Gli americani videro in quell’uomo che da sempre lottava e vinceva contro la poliomielite che lo costringeva su una sedia a rotelle, il presidente giusto per capire la sofferenza della grande depressione. FDR, come da allora lo chiamò tutto il paese, fece intervenire massicciamente lo stato con denaro e misure radicali di salvataggio. Con il New Deal gli Stati Uniti uscirono dalla recessione.
John Fitzgerald Kennedy vinse le elezioni nel 1960, in un periodo straordinario di fermento culturale e morale. A sud la minoranza afroamericana aveva iniziato una lunga marcia per i diritti civili destinata a coinvolgere bianchi e neri, uomini e donne, giovani studenti e vecchi predicatori. I sogni di integrazione di Martin Luther King Jr. si mischiavano al rock‘n’roll di Elvis Presley, ai primi Beatles, al ribelle romantico di Marlon Brando. E quando JFK disse che si poteva avere la luna, bastava semplicemente volerlo, gli americani gli credettero. Il suo assassinio, e quello di suo fratello e del reverendo King nel 1968, furono una lezione di realismo per chi aveva osato sognare. In quello stesso anno, gli americani scelsero ancora un repubblicano, Richard Nixon.
William Jefferson “Bill” Clinton, l’ultimo presidente democratico, ce la fece nel 1992 con una linea politica molto moderata e attenta a quello che interessava di più l’elettorato. “It’s the economy, stupid”, diventò la parola d’ordine della sua campagna elettorale. Piaceva così tanto Bill che fu rieletto anche quattro anni dopo, nonostante il tracollo del Partito democratico, che perse il controllo del Congresso.
La moglie di Clinton, l’avvocato Hillary Rodham, è una dei primi a candidarsi per le presidenziali del 2008. Intelligente, determinata, dura, il senatore di New York resta saldamente in testa ai sondaggi tutto il 2007. L’idea di una donna per la prima volta presidente degli Stati Uniti sembra il capitolo finale delle lunghe battaglie femministe iniziate negli anni cinquanta. Ma ai suoi comizi, ai suoi eventi, la gente va per vedere il marito, per sentire Bill. Che continua ad affascinare le platee, soprattutto quelle femminili, e che resta il simbolo degli anni novanta: anni di pace e prosperità per il paese. È la nostalgia di Bill che trascina Hillary Clinton. La sua arma straordinaria, quella che all’inizio è la sua forza, finisce per diventare il suo handicap, quando in campo scende Barack Obama. Che immediatamente, con i suoi pochi anni, la sua estraneità all’establishment, la sua storia personale così vicina al sogno americano, getta una luce cruda e impietosa sui sessant’anni dell’avversaria. Otto già passati alla Casa Bianca, ma a ricevere le signore, e comunque parte integrante dell’odiato mondo politico di Washington, quello che il paese accusa per la crisi e le difficoltà. Quando dalla campagna di Obama, dall’inventore della sua strategia elettorale, David Axelrod, esce la parola d’ordine CHANGE, cambiamento, il destino di Hillary è già segnato.
Quello di Barack, invece, deve appena cominciare. Mai nella loro storia gli Stati Uniti hanno avuto un candidato come lui. Giovane, appena quarantaseienne, nato lontano, alle Hawaii, da una diciottenne bianca del Kansas, Stanley (nome da uomo perché il padre avrebbe voluto un maschio) Ann Dunham, e da un giovane studente africano, Barack Obama Sr., arrivato da Kogelo, piccolo villaggio del Kenya, che li abbandonerà meno di due anni dopo. Nell’America dei primi anni sessanta non deve esser stato facile per una ragazza con pochi soldi crescere da sola il suo bambino afroamericano. Ma Ann è uno spirito libero, anticonformista. Dopo il fallimento del primo matrimonio si risposa con un altro studente, indonesiano, e va a vivere con lui e con il figlio a Jakarta. Obama frequenta la scuola in Indonesia, assieme a musulmani e cristiani. A dieci anni torna nelle Hawaii, e sarà la nonna a crescerlo. Al liceo entra nella squadra di basket, si fa chiamare Barry, fuma spinelli, e beve alle feste, dove è sempre l’unico afroamericano del gruppo. Dopo la maturità cambia vita. Decide di farsi chiamare con il suo vero nome, Barack, e riesce ad entrare nell’esclusiva Columbia University di New York, dove si laurea in scienze politiche con una specializzazione in relazioni internazionali. Trova un lavoro come organizzatore sociale e parte per Chicago nel 1987. Lavora nei ghetti della città, a contatto con quella miseria che già ha conosciuto in Indonesia. Ma continua a studiare, e viene ammesso alla facoltà di legge di Harvard. È già un leader. Diventa il primo afroamericano direttore della prestigiosa “Harvard Law Review”, e conosce la futura moglie, Michelle Robinson. Ann Durham farà in tempo ad assistere al loro matrimonio, ma non alla nascita della prima nipote. Un cancro se la porta via, a 52 anni. Durante la malattia della madre, il futuro presidente vive l’ingiustizia del sistema sanitario americano, che abbandona chi non ha i soldi per pagarsi l’assicurazione.
Nessuno come Obama è riuscito ad incarnare il sogno americano, per cui chiunque, anche un giovane afroamericano senza padre e senza radici può trovare la sua strada, la forza, l’affermazione. Il suo programma di cambiamento, il suo rifiuto dell’idea stessa di guerra preventiva, di paura, come diceva Franklin D. Roosevelt[5], la sua volontà di chiudere per sempre l’immagine di un’America chiusa nella propria superiorità militare e finanziaria, la sua personalità carismatica, le sue idee sociali, creano attorno a lui un movimento di giovani, di intellettuali, di afroamericani, capace di far riscoprire al paese l’amore per la politica e la passione per l’impegno. Si forma attraverso internet una rete alternativa e parallela, fatta di militanza e creatività. I volontari si organizzano in piccoli gruppi, presenti in ogni stato, ogni città, ogni quartiere. A sostenere un apparato che nasce con pochissimi mezzi, il denaro dei piccoli donatori. Migliaia, più di un milione di persone che con i loro 25, 50 dollari, consentono ad Obama di fare a meno delle lobbies e dei grandi gruppi di pressione per mettersi nelle mani dei piccoli contributori, rifiutando clamorosamente il denaro pubblico.
E se Barack Obama è il ragazzo che tutta la vita cercherà di convivere con l’abbandono del padre, l’avversario che si trova di fronte è un uomo cresciuto nel culto del padre. John Sidney McCain III ha sempre dovuto fare i conti con i primi due John Sidney McCains. Entrambi ammiragli a quattro stelle, la massima onorificenza nella Marina degli Stati uniti, piccoli di statura ma di grande presenza, grandi sostenitori del codice militare. Dovere, Onore, Patria. E quasi tutti i 72 anni della sua vita sono stati una battaglia fra il bisogno di rispettare i propri principi, quel codice di onore che gli è stato instillato fin da bambino, e le ambizioni della sua carriera politica. Per sostenere la sua credibilità di conservatore e vincere in Arizona, votò contro la giornata in onore di Martin Luther King Jr. Per conquistare voti nella Carolina del Sud, mostrò rispetto alla bandiera confederata, simbolo del segregazionismo sudista. Spietato giudice di se stesso, McCain si costrinse a tornare in Carolina, per scusarsi pubblicamente, con un candore raro per un politico. Ho sbagliato, disse, perché sono venuto meno al codice morale della mia famiglia, mettere avanti a tutto il paese. “The country first”, uno degli slogan della sua campagna elettorale. Nei molti momenti difficili della sua vita ripete lo stesso mantra con cui si è sempre sostenuto. Quando in Accademia Navale saliva sul ring per gli incontri di boxe, quando i Vietcong lo torturavano per farlo parlare nei cinque anni di prigionia in Vietnam, quando nella sua carriera di repubblicano “maverick”[6]si è ritrovato solo, contro tutti.
“Game, face on!”, ripeteva allora, e sempre durante la campagna elettorale tutta in salita. Coraggio, rialzati, non mollare, resisti. E c’è voluto tutto il coraggio di un veterano, e di un eroe di guerra come McCain, per affrontare le presidenziali 2008.
Dopo otto anni alla Casa Bianca, il repubblicano George W. Bush ha un livello di impopolarità da record. Nessun presidente prima di lui, nemmeno Richard M. Nixon dopo la scoperta del Watergate e l’impeachment nel 1974, arrivò ad essere così tanto detestato. A Bush gli americani rimproverano due guerre, dagli esiti incerti ma con un altissimo tributo di sangue, un terrorismo sempre minaccioso, con Osama Bin Laden ancora libero, e quel che più conta, una crisi economica che ha trascinato il paese in recessione.
McCain ha l’impossibile missione di convincere lo zoccolo duro del partito repubblicano che lui seguirà le orme del vecchio presidente, e il resto del paese che non lo farà. Che è un “maverick”, contrario alla tortura e al carcere speciale di Guantanamo, e contemporaneamente rassicurare gli ultraconservatori che hanno sempre diffidato di lui. Conquistare voti democratici ma non per questo perdere l’elettorato repubblicano. I sondaggi lo danno costantemente in svantaggio di un paio di punti. Ma la lezione di Buckley all’hotel Plaza è sempre valida. Gli Stati uniti sono un paese sostanzialmente conservatore, una nazione di centro-destra. Non sono i democratici a vincere, ma i repubblicani a perdere. E per il complicato meccanismo elettorale americano quello che conta non è il voto popolare complessivo, ma il numero dei cosiddetti grandi elettori che ogni stato elegge. Nel 2000 Al Gore ebbe più voti di George W. Bush. Ma i repubblicani vinsero in Florida e in Ohio, e la Casa Bianca fu loro.
Alla vigilia della convention repubblicana, la squadra di John McCain, con testa i suoi top aides, i suoi più stretti consiglieri, Steve Schmidt e Rick Davis, esce con un colpo di scena clamoroso. Sarah Palin, sconosciuta governatrice dell’Alaska, sarà la candidata repubblicana alla vicepresidenza. La scelta nasce durante una crociera in Alaska organizzata dalla “National Review” nell’estate del 2007, a cui partecipa l’élite conservatrice americana. La governatrice accoglie tutti nella sua casa di Wasilla, grande ma modesta, cucina lei, a tavola ci sono anche i figli piccoli. Gli intellettuali di Washington vengono conquistati dal suo stile. È genuina, profondamente conservatrice da ogni punto di vista, politico, religioso, sociale, è aggressiva, cacciatrice ed antianimalista, è stata una reginetta di bellezza ed è ancora una bella donna. Il giorno dopo la designazione, i giornali scoprono che la figlia adolescente è incinta, che l’ultimo nato ha la sindrome di down, che lei e il marito hanno cercato di far licenziare l’ex-cognato perché aveva chiesto il divorzio dalla sorella, e che non è mai uscita da Wasilla. Poco importa. In casa repubblicana è nata una stella. Sarah Palin scatena la curiosità e l’interesse di tutti i media americani e stranieri, conquista le prime pagine, i titoli di testa. Negli Stati Uniti ormai si parla solo di lei. L’effetto trascinante riempie i comizi di McCain, dove folle urlanti di fan accolgono la candidata vicepresidente come una cantante o un’attrice. La Palin lancia l’attacco frontale ad Obama in tutti i meeting elettorali. È un bugiardo, inesperto, amico di terroristi, antiamericano. Agli elettori degli stati chiave, gli swing states che tradizionalmente non sono né repubblicani né democratici e decidono chi sarà il presidente, arrivano telefonate in cui si spiega come Barack Hussein Obama sia un arabo, un musulmano, un uomo pericoloso per la sicurezza del paese. Durante una riunione della Palin in Florida, qualcuno comincia ad urlare “uccidiamolo, uccidiamolo!”. John McCain raggiunge l’avversario nei sondaggi.
È allora che il sistema finanziario americano crolla. I mutui immobiliari a basso tasso di interesse, lanciati dopo l’11 settembre 2001 dal presidente della banca centrale americana Alan Greenspan[7] per mantenere la fiducia nel paese, sono cresciuti talmente che la gente non può più pagare. Cominciano gli sfratti, e le banche e gli istituti legati ai mutui subprime si ritrovano in bancarotta. Bear Stearns, Lehman Brothers, Fannie Mae e Freddie Mac, Washington Mutual, AIG. Wall street precipita, ma la crisi finanziaria si estende presto al settore industriale, alla main street. In un anno due milioni di persone perdono il lavoro. Gli Stati Uniti sono in recessione. Il presidente Bush chiede un aiuto da 700 miliardi di dollari per le banche. McCain reagisce ancora una volta d’impulso, e annuncia di sospendere la campagna elettorale per occuparsi della crisi. Ma a Washington scopre che i repubblicani difendono l’ultraliberismo, rifiutano l’idea di un aiuto dello stato, convinti che il mercato ha le sue regole. Dopo due giorni ammette di essersi sbagliato, e riprende la campagna. Sarah Palin rivela in un paio di interviste la sua impreparazione, la sua totale inesperienza. In un momento così grave, la sua inadeguatezza finisce per spaventare gli americani. La gente comune, la main street, quella classe media lavoratrice che non ha mai creduto nel giovane senatore afroamericano, comincia ad ascoltarlo, finisce per apprezzare la sua freddezza, la lucidità, l’intelligenza brillante e visionaria, il coraggio di aver puntato sui giovani e le minoranze accompagnato dall’umiltà nella scelta di un vice esperto e rassicurante come Biden.
Quando mancano solo pochi giorni al voto, i due candidati concentrano le forze in uno degli stati chiave, la Pennsylvania. Stato operaio, bianco in maggioranza, dove il razzismo è ancora forte, radicato, e il risultato finale incerto. Una serie di temporali violenti si abbatte sulla regione. McCain deve rinunciare ai comizi. Barack Obama invece si presenta, e sotto una pioggia dura e fredda, incurante della tempesta, parla ad una folla che è rimasta ad aspettarlo, per ore, solo per ascoltarlo, per seguirlo. Siamo qui perché possiamo farcela, ripete Obama, “yes we can”, possiamo vincere insieme la crisi e la guerra, riprendere in mano il nostro futuro. Possiamo conquistare la luna. Realizzare i nostri sogni.
Nella notte fra il 4 e il 5 novembre 2008 Barack Obama diventa il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti.



[1]National Review” (NR) è una rivista bisettimanale e un sito web, fondati da William F. Buckley Jr., nel 1955, a New York. È considerata il riferimento intellettuale del movimento conservatore americano nel ventesimo secolo, ed è la più importante fonte di giudizi e valutazioni dei repubblicani.
[2] William Joseph Casey (1913-1987) è stato il direttore del Central Intelligence, la CIA, dal 1981 al 1987.
[3] Nancy Maginnes, donna ricchissima e celebre per la sua attività filantropica, è stata la seconda moglie di Henry A. Kissinger, ex segretario di stato, stratega e politico americano.
[4] Joseph Robinette “Joe” Biden Jr. (Scranton, 1924) è il vicepresidente eletto degli Stati Uniti. Senatore democratico del Delaware dal 1972, è stato a lungo presidente della commissione affari esteri del Congresso.
[5] «So, first of all, let me assert my firm belief that the only thing we have to fear is fear itself» (F.D. Roosevelt, First Inaugural Address, discorso d’investitura, 4 marzo 1933).
[6] Da Samuel Augustus Maverick (1803-1870) che fu un legislatore texano, un uomo politico, proprietario terriero nonché autore della Dichiarazione di Indipendenza del Texas. Dal suo nome deriva il termine “maverick”, utilizzato per la prima volta nel 1867, per designare uno spirito intellettualmente indipendente. S.A. Maverick venne considerato tale dagli altri allevatori perché si rifiutò di marchiare il suo bestiame.
[7] Alan Greenspan (New York, 1926), economista americano, nominato presidente della Federal Reserve dal presidente Reagan, nel 1987, e poi confermato dai presidenti successivi, George H. Bush, Bill Clinton e George W. Bush fino al 2006.

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