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La riduzione della paura

Danilo Zolo

La paura è stata sinora una componente costante della storia dell’uomo. Nel secolo scorso l’etologia e l’antropologia filosofica hanno sostenuto, e in larga misura provato, che l’homo sapiens è, fra tutti i primati, l’animale più fragile e più esposto al panico, nonostante la lunghezza della sua vita. Secondo Arnold Gehlen la paura è una delle pulsioni fondamentali dell’uomo a causa del suo “primitivismo organico” e del suo essere biologicamente inadeguato ad un ambiente specifico. La sua mancanza di specializzazione istintuale lo rende particolarmente inadatto alla sopravvivenza e quindi in condizioni di costante insicurezza e di tensione aggressiva. E tuttavia la sua fragilità vitale, dovuta all'eccessiva esposizione ai rischi, sembra averlo reso più libero e creativo rispetto ad ogni altro essere vivente. La reattività all’ambiente e l’apertura al mondo ne hanno fatto una specie culturale.

L'homo sapiens può vantare una particolarissima capacità: quella di limitare la pericolosità dell'ambiente riducendone la complessità. I gruppi umani non controllano il proprio ambiente attraverso processi di specializzazione adattiva o affidandosi esclusivamente alla ripetizione abitudinaria di comportamenti collettivi, come fanno gli altri animali superiori. L’uomo si impegna a plasmare l’ambiente attraverso una libera produzione di protesi strumentali e di strutture selettive di carattere simbolico. La paura, in questa prospettiva antropologica, è la reazione emotiva del soggetto (o del gruppo) di fronte alla varietà non controllabile delle possibilità presenti in un ambiente complesso e percepito come pericoloso. Ed è, nello stesso tempo, la giustificazione di un uso diffusissimo della violenza anche nei confronti dei conspecifici.
Il soggetto umano si impegna a introdurre sempre nuovi elementi di stabilità e di ordine nel flusso caotico dei fenomeni ambientali e sociali, ma avverte che entro il ventaglio del possibile c'è sempre, inesorabile, anche la sua personale estinzione. La sua sopravvivenza non è infatti garantita da alcuna tendenza naturale o legge umana: nel lungo periodo essa è anzi minacciata dalla deriva dell'ambiente naturale verso un massimo di entropia. L’uomo interpreta perciò il proprio stress difensivo e selettivo come “contingenza” e cioè come vulnerabilità, disordine, imprevedibilità, possibilità di delusione, provvisorietà, fragilità, congiuntura. L’ipotesi della morte è la radice della paura e dell’insicurezza umana e contribuisce, nello stesso tempo, a fare dell’uomo un primate “sanguinario”.
 
 
1. Paura e politica
 
L’organizzazione politica – presente in forme più o meno articolate e complesse in tutti i gruppi umani in grado di stabilizzarsi e riprodursi – è la replica collettiva più efficace che l’uomo abbia escogitato per “ridurre la paura”, secondo la celebre formula proposta da Niklas Luhmann. Reagendo alle situazioni di rischio, il sistema politico dà vita a strutture organizzative che si impegnano a tenere il gruppo sociale in equilibrio con l'ambiente – incluso l’ambiente umano – e ne rassicurano i membri rimuovendo o controllando o rendendo meno visibili le fonti della paura. Sotto questo profilo il sistema politico moderno – in particolare lo Stato moderno europeo – può essere interpretato come un meccanismo omeostatico di “alleggerimento” (Entlastung) della paura che ne attenua l’impatto potenzialmente invalidante.
Il sistema opera come una struttura normativa di preselezione delle possibilità filtrando dall'insieme degli eventi possibili un campo di alternative più ristretto, rinforzandone la probabilità e rendendole oggetto di aspettativa sociale. Sulla base di decisioni vincolanti erga omnes (in casi particolari attraverso interventi diretti o misure coercitive) il potere politico vieta, impone, promuove o autorizza determinati comportamenti, sanzionando le condotte vietate con conseguenze sgradevoli a carico dei soggetti responsabili. Il diritto penale, il sistema giudiziario, le istituzioni penitenziarie, la pena di morte sono gli strumenti essenziali finalizzati al contenimento della paura. Alcuni eventi vengono così percepiti dai membri del gruppo come poco probabili e vengono proiettati in un orizzonte più lontano o totalmente rimossi. Viene così attenuato il timore di improvvise alterazioni ambientali, di dissoluzione violenta del gruppo, di catastrofi, di carneficine, di malattie incontrollabili, della povertà, della morte violenta, della rapina e così via.
Ma non va trascurato l’effetto simbolico che le istituzioni di autorità, con i loro apparati di procedure, di riti, di rappresentazioni allegoriche, di mitologie, e persino di galatei e di etichette esercitano, soddisfacendo un bisogno diffuso e latente di protezione sociale: un bisogno “residuale”, per usare il lessico della sociologia politica paretiana. La stessa funzione rassicuratrice e trascinante del capo politico carismatico ha radici, prima ancora che nell’aspettativa di vantaggi concreti, in un universo di interazioni simboliche in cui elementi razionali e irrazionali sono profondamente intrecciati: si pensi agli esempi di “identificazione cesaristica” pur entro contesti di democrazia rappresentativa, offerti dai casi Kennedy e Reagan negli Stati Uniti o, in Europa, dai casi Thatcher, Mitterrand e Craxi.
Il sistema politico moderno, esercitando il monopolio dell’uso legittimo della forza, ottiene un duplice risultato, come per primo ha visto Thomas Hobbes. Per un verso produce “fiducia” rafforzando le aspettative e cioè consentendo agli attori sociali di operare sulla base di aspettative stabili di comportamenti conformi a regole collettive imposte con la forza o garantite dal Leviatano. Le relazioni fiduciarie consentono fra l’altro un notevole risparmio di risorse che altrimenti dovrebbero essere investite in continui controlli pubblici o privati, accertamenti, procedure burocratiche e interventi repressivi. Per un altro verso il sistema politico moderno è impegnato a escludere o almeno a moderare le aspettative collettive di rischi che potrebbero investire i soggetti provocando gravi reazioni individuali e sociali: il panico, l’angoscia, la depressione, il delirio, la follia, la violenza, la guerra civile. Ma ancora oggi può accadere, come ha recentemente segnalato fra gli altri Luciano Gallino, quello che è avvenuto in India fra il 1996 e il 2007: nella più estesa democrazia del mondo non meno di 250.000 contadini si sono suicidati perché oppressi dalla fame e dai debiti. La carestia è tuttora provocata dallo sconvolgimento dell’ambiente rurale a causa delle monoculture – imposte dalle grandi corporations occidentali – che richiedono l’uso di alte dosi di fitofarmaci.
Occorre aggiungere che una elevata offerta (o imposizione) di protezione da parte dello Stato e una incalzante richiesta di sicurezza da parte dei cittadini e delle cittadine – situazione oggi caratteristica dei paesi europei, l’Italia compresa – corrispondono ad una estesa percezione collettiva dei rischi e dei potenziali di conflitto presenti nell'ambiente sociale. E gruppi diversi, portatori di diversi interessi e perciò minacciati da rischi diversi, si impegnano politicamente per ottenere, in conflitto con altri gruppi, configurazioni differenziate della attribuzione quantitativa e qualitativa dei “valori di sicurezza” e della riduzione della paura. E questo comporta, correlativamente, una differenziazione non solo dei rischi socialmente accettati ma anche delle libertà politicamente consentite: ad una protezione politica estesa corrisponde normalmente non solo una riduzione dei rischi ma anche una intensificazione dei controlli e una restrizione delle libertà. E, in linea di principio, sono i gruppi depositari di più ampie risorse ad essere interessati a livelli più elevati di protezione politica esercitata in forme repressive, mentre i gruppi meno privilegiati invocano l'intervento protettivo del sistema politico perché garantisca anche a loro un’equa possibilità di accesso alle risorse comuni. E quanto più acuta è la percezione collettiva della scarsità del bene “sicurezza” tanto più agonistica è la competizione fra i gruppi, poiché ad una più estesa “paura sociale” tendono a corrispondere livelli più elevati di aggressività.
La dialettica fra paura e sicurezza oggi caratterizza senza eccezioni le formazioni politiche complesse: dalle organizzazioni internazionali agli Stati nazionali, ai partiti politici, ai movimenti eversivi, alla grande criminalità organizzata. Qui si afferma immancabilmente una logica particolaristica che tende a rendere il gruppo tanto più coeso, e quindi discriminante verso l'esterno e repressivo al proprio interno, quanto più alta è la percezione dei rischi presenti nell'ambiente, fino al paradosso funzionale che spinge il gruppo a “produrre” i propri nemici, interni od esterni, proprio per esigenze di auto-identificazione e di rassicurazione. La richiesta di sicurezza, esattamente come l'offerta di protezione, include sempre la designazione di soggetti o gruppi “contro” i quali si chiede o si offre la prestazione di “riduzione della paura”: essa ha quindi sempre, necessariamente, una valenza parzialmente esclusiva e discriminante.
 
 
2. Verso la fine del Welfare state
 
Il livello più alto raggiunto in Occidente da un sistema politico nel tentativo di regolare e ridurre la paura è stato senza dubbio il Welfare state o Stato sociale. Si è trattato di uno sviluppo del cosiddetto rule of law o “Stato di diritto”: un sistema politico, tipico della modernità europea, impegnato a imporre vincoli giuridici all’esercizio del potere in modo da garantire ai cittadini una serie di diritti soggettivi da far valere sia nei confronti degli altri soggetti, sia nei confronti delle autorità statali. Le libertà fondamentali, l’habeas corpus, la proprietà privata, l’autonomia negoziale, il suffragio universale e in generale i diritti politici sono aspettative e interessi costituzionalmente garantiti che, nella misura in cui sono stati effettivamente sanzionati, hanno prodotto un livello accettabile di sicurezza individuale e collettiva, sia pure con una esplicita o latente discriminazione del genere femminile.
Lo Stato sociale, a partire dagli anni trenta del Novecento, ha tentato di andare oltre lo Stato di diritto garantendo, sia pure in forme che sono state giudicate insufficienti o distorte, i cosiddetti “diritti sociali”: il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione e alla salute, un’ampia serie di prestazioni pubbliche di carattere assicurativo, assistenziale e previdenziale. Si può dire che lo Stato sociale si è fatto carico dei rischi – e quindi della paura – strettamente legati all’economia di mercato, fondata su una logica contrattuale e concorrenziale che suppone la diseguaglianza economico-sociale dei soggetti contraenti o concorrenti e la riproduce senza limiti. L’economia di mercato è un potente fattore di paura per i singoli soggetti nonostante il suo eccezionale potenziale produttivo, o forse proprio per questo. Lo Stato sociale, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, ha tentato di limitare i rischi del mercato e di diffondere sicurezza con una serie di misure destinate a compensare attraverso servizi pubblici e prestazioni finanziarie i processi di discriminazione e di emarginazione inevitabilmente connessi con la logica del profitto.
Oggi un’opinione largamente condivisa ritiene che il Welfare state attraversi una crisi molto grave e che al fondo di questa crisi siano i processi di trasformazione economica e politica che vanno sotto il nome di globalizzazione e che porteranno inevitabilmente al collasso dello Stato sociale. Autori come Ulrick Beck, David Garland, Loïc Wacquant, Zygmunt Bauman, Robert Castel, Luciano Gallino hanno sottolineato che la globalizzazione per un verso ha celebrato il trionfo planetario dell’economia di mercato, in particolare nelle sue modalità finanziarie. Per un altro verso ha eroso le strutture sociali e politiche di gran parte degli Stati nazionali degradandone la coesione identitaria e comunitaria e limitandone drasticamente la capacità di produrre sicurezza. Altri autori – e sono la maggioranza – aderiscono alla tesi del trade-off, sostenendo che gli investimenti e le politiche assistenziali dello Stato sociale ostacolano la crescita economica. L’onere di un’ampia serie di rischi deve essere perciò posto a carico non dello Stato ma dei singoli cittadini, secondo un approccio orientato a privatizzare la responsabilità del rischio e la metabolizzazione della paura. Questa traslazione del rischio vale in particolare per i settori della sanità, dell’istruzione e delle pensioni, nei quali le prestazioni del bilancio pubblico tendono in molti paesi occidentali ad una progressiva restrizione. Anche le politiche di sicurezza urbana – si pensi alle guardie giurate e alle ronde di quartiere – tendono ad essere privatizzate.Quando non lo sono, si concentrano spesso, come ha segnalato Giandomenico Amendola, in una attenzione ossessivamente dedicata a soggetti marginali come i mendicanti e i lavavetri. Essi sono stati perseguiti dalle autorità cittadine – è noto il caso di Firenze – perché giudicati ansiogeni: la loro presenza aumenta l’ansia e il senso di insicurezza della gente e rende le città inospitali per i turisti.
Nel frattempo la crescente instabilità dei mercati, i cambiamenti demografici, le grandi migrazioni e l’evoluzione dei sistemi produttivi dei paesi più ricchi hanno contribuito a determinare una contrazione delle retribuzioni del lavoro e una diffusa incertezza e instabilità dei rapporti contrattuali, in particolare a carico delle donne lavoratrici. Per le nuove generazioni il lavoro è diventato un bene sempre più scarso, precario, segmentato, insufficientemente retribuito, “flessibile”, anche a causa della concorrenza “globale” di paesi caratterizzati da un eccesso di forza-lavoro e da una scarsa protezione dei diritti dei lavoratori. La frammentazione del tessuto sociale che ne deriva sembra minacciare la coesione della società civile, indebolire il senso di appartenenza, indurre apatia politica, alimentare la criminalità e la corruzione, fomentare fondamentalismi e secessionismi di vario tipo, diffondere l’uso delle droghe e dell’alcol fra i giovani più fragili e insicuri. Da qui, da una marea crescente di solitudine e frustrazione, emerge una sconfinata richiesta di protezione e una febbrile esigenza di sicurezza e incolumità che investe i cittadini e le cittadine prescindendo dalla loro posizione sociale, dal loro livello culturale e dalle loro credenze religiose. I tranquillanti etico-religiosi che per secoli la Chiesa cattolica ha elargito a larghe mani oggi hanno scarso successo e, si direbbe, nessun effetto neppure all’interno del clero e dei fedeli praticanti. E la crescente aspettativa di sicurezza canalizza la paura in una diffusa richiesta di repliche duramente repressive contro i “malvagi” e di un esercizio autoritario del potere contro i rischi del disordine e dell’anarchia.
A tutto questo si aggiunge l’antagonismo fra le popolazioni autoctone dei paesi occidentali e le masse crescenti di migranti provenienti da aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. Si tratta di soggetti molto deboli ma che, a rischio della vita, esercitano una forte pressione per l’ingresso e l’accettazione nei paesi occidentali e per l’eguaglianza di trattamento. La replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa pressione “cosmopolitica” si esprime in termini sia di rigetto o di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di soggetti civili, sia infine di discriminazione giuridica e politica nei confronti di “barbari invasori”. Questo conflitto sta scrivendo e sembra destinato a scrivere nei prossimi decenni le pagine più luttuose della storia civile e politica dei paesi occidentali, a cominciare dall’Italia. Il governo italiano, con la sua decisione di sanzionare come un crimine l’ingresso irregolare dello straniero extra-comunitario nel territorio dello Stato e, soprattutto, con la sua insistente proposta del giugno 2008 di registrare le impronte digitali dei bambini Rom, ha dato la più alta prova di inciviltà giuridica e di squallida discriminazione razzista. In questo modo ha assecondato di fatto l’ondata di isteria giustizialista e di xenofobia che in Italia aveva già investito, assieme, i cittadini romeni e le etnie Rom e Sinti. In alcuni casi erano stati organizzati dei veri e propri pogrom nei campi dei nomadi, incendiandoli e tentando il linciaggio delle persone che li abitavano.
In un contesto di crescente pluralismo etnico la presenza di lavoratori stranieri è vissuta da una larga parte della popolazione autoctona, anche fra i lavoratori dipendenti, come una insopportabile fonte di insicurezza entro un immenso cimitero di speranza deluse. Come ha mostrato René Girard, l’ansia, la tensione, il tormento, l’ossessione, il senso di impotenza si scaricano nelle classiche modalità del “capro espiatorio”: l’“Altro” – il diverso, lo straniero, l’emarginato – viene assunto, secondo una logica vittimaria e sacrificale, come responsabile del male e come farmacon purificatore.
Il fenomeno migratorio è una sfida radicale in tema di paura e di sicurezza perché la stessa dialettica di “cittadino” e “straniero” viene alterata dall’imponenza dei fenomeni migratori e dalla loro oggettiva incontrollabilità e irreversibilità. Ed è una sfida dirompente che tende a far esplodere sia gli elementi della costituzione “prepolitica” della cittadinanza, sia i processi sociologici di formazione delle identità collettive, sia infine le stesse strutture dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la pressante, legittima richiesta di un riconoscimento “multietnico” non solo dei diritti individuali dei cittadini immigrati, ma delle stesse identità etniche di minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze ospitanti.
Questo scenario di crescente insicurezza, instabilità e turbolenza delle relazioni politiche interne e internazionali è allarmante soprattutto perché mostra quella “insufficienza della polis di cui ha parlato Daniel Bell, intendendo l’assenza di un’opinione pubblica internazionale indipendente dagli interessi e dalle strategie delle grandi potenze e perciò adeguata al livello di gravità, complessità e interdipendenza dei problemi da affrontare.
 
 
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
 
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