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La parola tra decomposizione e salvezza:
un'analisi de Il malinteso di Albert Camus

Sara Codini

Nella farsa tragicaLe sedie”, scritta e presentata da Eugène Ionesco nell'aprile del 1952, un ingranaggio drammaturgico strutturalmente semplice e dotato di raffinatezza espressiva gira a vuoto e per rappresentare il vuoto. Mentre su un faro abbandonato e fluttuante tra la nebbia e l'acqua melmosa, due anziani guardiani, il Vecchio e la Vecchia, si agitano, preparando febbrilmente sedie vuote per invisibili invitati, e annunciando l'arrivo di un oratore, emissario verbale del loro messaggio al mondo, lo spettatore è condotto in un universo vischioso e caotico, in cui emerge solo l'assenza: di esistenze, di interlocutori e di parole.

Sulla scena, oltre al polveroso cumulo di sedie che, come i bottoni nella cucchiaia del “Peer Gynt” di Ibsen, si fondono con il lattiginoso sfumare dei suoni inarticolati dell'oratore, è possibile scorgere alcuni semi interpretativi, elementi guida per il percorso analitico che vorrei proporre e che si colloca ai margini e dentro un altro testo teatrale: il dramma “Il malinteso”, composto da Albert Camus tra il 1941 e il 1943. I puntelli ermeneutici (in)volontariamente suggeriti da Ionesco sono, secondo una prima e generica individuazione: la paradossale centralità della parola, nel suo dibattersi tra frantumazione e ricomposizione, tra decomposizione e salvezza; la sua autopoietica processualità, legata ad un artista nascosto dietro paraventi della scena, che, nell’illusione di tirare crudelmente i fili del discorso, segna il suo definitivo ritirarsi nell’oblio; e infine, quale punto cronologicamente e logicamente primo dell'indagine, il topos drammaturgico della fuga filiale, curiosamente rivendicata da un immaginario bambino spinto dal desiderio di uscire dalla casa paterna e di esplorare nuovi spazi aperti sul possibile.
Il dramma, che ci mostra il bambino divenuto adulto sulla via del ritorno verso casa, presenta geneticamente la confluenza di un filone cristiano e uno greco, e il passaggio radicale dall’uno all’altro, facilitato dalla lettura di un ermetico frammento di André Gide.
Nel discorso camusiano si individua l’utilizzazione di una parabola del vangelo di Luca (Luca 15,11-3), quella del figlio perduto e del figlio fedele, o del figliol prodigo. Essa si snoda attorno a due assi discorsivi, rispettivamente dei figli e del Padre; tratta esplicitamente del rapporto tra iniziativa umana e Grazia divina; e si conclude recidendo di netto il nodo etico, o dilemma dell'attivismo umano, con la spada della Parola che, gratuitamente pronunciata, produce immediatamente, e per entrambi i figli, la Salvezza.
L'unione delle prospettive, risolte nel simbolo della Grazia, viene frantumata dal lato greco del discorso camusiano: alla chiara luce dell’assurdo, la parabola di Luca viene capovolta, sia negli elementi narrativi, che nei significati profondi.
Al ribaltamento non è estranea la conoscenza di un originale lavoro, “Il ritorno del figliol prodigo”, scritto da André Gide nel 1907. L’autore dell’Immoralista ridipinge alla maniera degli antichi trittici il racconto del Nuovo Testamento. Dal cartiglio che si è ritagliato alla base del quadro, egli fa parlare il non detto di Luca e ri-orienta (o dis-orienta) il testo nell'inaspettata direzione veterotestamentaria.
Ciò avviene secondo due direttrici: quella della radicale modifica del relazione esistenziale tra il Padre e il Figlio fedele, a favore di quest'ultimo e della Legge da lui custodita, che si configura come imperativo necessario alla riduzione di complessità e alla sopravvivenza comune, messe in crisi dalla fuga anarchica del Figliol Prodigo; e quella della primazia della libertà umana sulla volontà divina, orgogliosamente sostenuta da un personaggio terzo, il Figlio minore, simmetrico rispetto al Prodigo nel desiderio di sperimentare nuovi mondi, reali e immaginari, ma più tenace nei confronti delle possibili avversità.
Così, la rilettura gidiana contiene alcuni spunti di sicuro interesse: la polverizzazione della parola del Padre, la sua sostituzione con quella del Figlio maggiore mostrano una perversione della Grazia alla Legge degli uomini, mentre la rottura operata dal Minore appare una ripetizione del gesto dei progenitori adamitici, che mangiavano il frutto dell’Albero della conoscenza del bene e del male e rivendicavano il diritto alla scelta. Ovvero, sceglievano di scegliere e si appropriavano del compito di indirizzare la scelta secondo criteri autonomamente individuati. Così, nella prima pagina della storia dell’uomo, c’è la rivendicazione dell’autonomia decisionale, della facoltà di stabilire da se stessi il bene e il male.
Camus, che da un punto di vista “metodologico” vede mantenuta la possibilità di rileggere gli spunti cristiani risalenti all’indagine della Metafisica, trova riconfermato il suo intento di non chiudere, anzi di radicalizzare, l’interrogativo assurdo.
Nel Malinteso, tali portati vengono calati in una cornice e in una narrazione drammaturgica che presentano i tratti essenziali della tragedia greca.
Oltre alla claustrofobica restrizione spazio-temporale dell’azione, nella vicenda è ravvisabile l'ammiccamento, in chiave ironica, di un eccentrico tassello collocato nella seconda parte de Lo straniero: la storia del cecoslovacco, trovato da Meursault nella prigione, in attesa del processo per l’omicidio dell’Arabo. Il racconto non subisce però l'inflessione moralistica e la condanna in quanto inquietante scherzo filiale, ma si trasforma asetticamente nel resoconto di un insondabile e assurdo malinteso, dalle devastanti conseguenze per il figlio, per la madre e la sorella, irriconoscenti assassine per denaro, e per la moglie, lasciata sola a contemplare lo scontro tra (im)possibilità esistenziali.
Nella sua perfetta simmetria dialogica, il primo atto mostra chiaramente le tre diadi attorno a cui si sviluppa il tessuto tragico.
La prima, occulta, è costituita dai Padri: il Padre morto, vero motore del ritorno del protagonista, e il Vecchio, crudele demiurgo e nuovo testimone del non-senso che, dalle fenditure di un impianto esistenzialista, scruta la catastrofe degli altri personaggi.
La seconda diade, che apre e chiude l’atto in una soffocante circolarità cerimoniale, è quella formata dalla Madre e da Marthe: essa rivela un aspetto essenziale del dramma, il suo carattere di esperimento, non sulla rivolta, ma sull’assurdo. Dalle parole delle due donne non emerge il rapporto rivolta–indifferenza–passione, declinato con sconcertante chiarezza ne Lo straniero e ne Il Mito di Sisifo, ma un'inconsueta finalizzazione dell’esistenza all’abbandono di un qui e ora, profondamente inautentico, e al raggiungimento di un Altrove, topos geografico ed esistenziale, coincidente con una condizione di felicità individuale. Tale Altrove presenta un elemento di differenziazione interna: mentre Marthe aspira chiaramente a una vita libera dal peso della sua anima, la Madre chiede solo un po’ di riposo che, con malcelata ironia, arriva a identificare con la religione.
Le uniche concessioni a Sisifo, eroe della rivolta negativa, sono la derisione riservata a Dio e la serialità dell’autocondanna all'omicidio, alla luce, però, dell'indebita volontà di riorientare un'esistenza altrimenti sterile. Non compaiono invece libertà e passione, silenziosamente incarnate dal cristo Meursault e qui trasformate in un benevolo distacco nei confronti dei clienti, finalizzato alla disumanizzazione necessaria al delitto.
C'è un ultimo elemento che caratterizza il doppio esclusivamente femminile, il legame affettivo che lo unisce, rinsaldato nel delitto: Marthe e la Madre non sono nulla l’una senza l’altra, ma in questo particolare si annida un germe di contrasto, che esploderà solo nel terzo atto.
La terza diade è la coppia JanMaria, in cui il personaggio che rivela è la donna: Jan non dice nulla sulla sua identità e sulle sue intenzioni, ed è solo dalle sollecitazioni verbali della moglie che apprendiamo quale sia il suo progetto. Maria gli suggerisce cosa dire per farsi riconoscere: le sue parole sono semplici, il suo discorso, lineare ed efficace, fa da contrappunto contrastivo alla confusione di Jan. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a una continua oscillazione tra incertezza e determinazione, tra soppressione della parola e sua insistente e passionale rivitalizzazione.
Il rovesciamento della parabola del Figliol prodigo presenta qui il suo più dirompente impatto: morto il Padre e con esso l’evidenza e la gratuità della condizione di figlio, resta un anonimo e balbettante avventore, che paga con il suo denaro la birra che gli hanno servito. Rimane solo da percorrere la strada fasulla battuta dal Figlio fedele: quella che passa attraverso il dovere (e il denaro). Infatti, anche Jan e Maria condividono la volontà di invertireil proprio cammino: ma se Marthe vuole partire dal paese in ombra per sorridere libera davanti al mare, Jan lascia proprio quei luoghi, in cui ha realizzato una condizione di libertà e felicità e si dirige verso la casa paterna, per realizzare il sogno di adempiere ai doveri di figlio. A una felicità autoriferita e centrata sul proprio corpo-simulacro, egli oppone il vincolo altruistico.
Nella sua forza disvelante Maria esprime una lucido ridimensionamento della creazione di sogni e doveri che sembra caratterizzare ogni vita umana, ma che ne annulla la componente essenziale: l'amore, da lei indirizzato verso il marito e verso gli altri. Maria conosce però la lezione di Cesonia e Caligola: essi hanno reciso di netto qualsiasi possibilità di soddisfare eternamente il proprio desiderio del corpo dell'amato.
Nel corpus centrale del primo atto, il detto /non detto di Marthe-Madre e quello di Jan-Maria, si pongono in un rapporto antitetico: non è possibile affermare che i due ordini presentino tra loro un'iniziale complementarità, rotta solo dall’intervento nefasto del Vecchio. Certo, il silenzioso meccanismo e il conseguente scarto cognitivo tra le prospettive, da Lui introdotti, rappresentano i portati determinanti del dramma, ma è necessario ricordare che sono Marthe e la Madre a non riconoscere Jan e ciò ben prima dell'inganno del demiurgo.
E poi siamo sicuri che, una volta riconosciuto, il figlio e fratello sarebbe stato accolto con il vestito più bello, i calzari ai piedi e l’anello al dito? Perché è evidente che le due opzioni, così come i loro linguaggi, sono collocati agli antipodi del continuum assurdo, e che, anche nel momento in cui si avvicinano, ciò che emerge è l’impossibilità dell’incontro, detonatore del rituale omicida.
È ciò che succede nel secondo atto, in cui le diadi principali si spezzano per riaccostarsi solo alla fine: mentre Marthe e la Madre si alternano nel loro divergere da Jan, costui rimane senza Maria, assenza che gli conferisce una decisiva instabilità, trasformandolo in una monade impazzita.
La prima scena è occupata dal dialogo tra Marthe e Jan: la giovane lascia intendere chiaramente di non essere del tutto certa di volerlo ospitare. Ma come potrebbe poi portare a termine i suoi piani? In questo, le viene in soccorso Jan: egli ha già rivelato di provenire da luoghi lontani e ora descrive con maggiore accuratezza le regioni che ha visitato, esplosioni di vita animale e vegetale, non ancora toccate dagli esseri umani, che non vi trovano alcuna originaria cittadinanza. Per Marthe, la descrizione dell’Altrove appassionatamente desiderato, rappresenta un motivo sufficiente per portare a termine il premeditato crimine.
L’ironica divergenza nella convergenza viene ulteriormente “stirata” tra le scena seconda e terza, in cui Jan esprime il desiderio di fuggire dall’anonima stanza per ritrovare il familiare amore di Maria: egli si rende conto di non servire a nulla a una madre e a una sorella che neppure sanno chi sia. Infine, anch’egli non riconosce più le persone che un tempo ha amato.
La scena quarta si apre su Jan, rimasto solo. Il Vecchio, scivolato sulla scena, se ne va senza dire una parola. Entra Marthe portando un vassoio su cui è disposta una tazza di tè piena di sonnifero, preparata per Jan. Ma costui non ha chiesto nulla. Allora Marthe si giustifica, attribuendo il suo gesto a una fantomatica indicazione del demiurgo.
La spiegazione contiene due direttrici ermeneutiche: quella per cui sarebbe il servitore a ordinare la somministrazione del sonnifero, dopo essersi nascosto dietro un’emblematica sordità. Essa, che lo dipinge come il Dio biblico che conduce subdolamente Caino ad alzare la prima pietra contro il fratello, non sembra essere coerente con l'attivismo minimo del Vecchio, quasi sempre definito dal non dire e dal non fare (o da un fare privativo).
È più probabile che sia la giovane donna a prendere orgogliosamente l’iniziativa, quale assassina che al delitto aggiunge l'attribuzione della colpa a colui che considera con gelida indifferenza.
Siamo di fronte a un vettore di autoproblematizzazione rispetto al Mito di Sisifo, non lontano dalle future catalogazioni storico-filosofiche dell'Uomo in rivolta, e Marthe appare vicina all’Ivan Karamazov di Dostoevskij. Ma la giovane donna percorre un cammino logicamente inverso rispetto a Karamazov: dalla scelta del Male alla colpa attribuita a Dio, senza passare per lo scandalo rispetto al dolore innocente. Anzi, come versione femminile ed estrema di Caligola, non colpevolizza Jan fino in fondo per ucciderlo meglio, ma adduce all’omicidio del fratello la motivazione per cui egli appare un innocente che, sorridendo scioccamente, va incontro al suo destino.
Il tema ritorna al termine del secondo atto. La Madre tenta confusamente di impedire a Jan di bere il tè avvelenato, ma il temporaneo tirarsi indietro non è il segno del riconoscimento di una vittima, una volta tanto innocente: l'accostamento al giovane è frutto della cortesia nei confronti dei clienti.
Mentre Jan oscilla tra la volontà di percorrere un cammino cristologico e il tentativo di ricomporre l’iniziale infranto attraverso la parola più semplice e chiara: “Sono io”, finalmente pronunciata con decisione, la coppia femminile si riallinea e le sue parole, ripercorrenti una vita nel delitto, vengono soffocate dal rumore indistinto dell’acqua della chiusa che le trascina con sé, insieme al cadavere del figlio e fratello.
Nel terzo atto, Jan, morto e riconosciuto, viene ad assumere le sembianze del solo cristo che meritiamo. Certo, egli non muore gettando uno sguardo limpido e felice sul destino ma, sul suo corpo senza sepolcro, si gioca l’ultima partita verbale, connotata esclusivamente al femminile e dagli esiti sorprendenti, che riconfermano l’intenzione di Camus di fare del dramma un osservatorio privilegiato sulla condizione umana.
Nel secondo atto, Marthe e la Madre, intente a frugare nelle tasche della sconosciuta vittima per cercare denaro, non si accorgevano della presenza del passaporto, elemento rivelatore della sua identità. Così il documento, caduto a terra, veniva raccolto dall’occhiuto Vecchio domestico, che si ritirava senza essere notato.
Nella prima scena del terzo atto, si consuma così la seconda catastrofe: il crudele deus ex machina consegna alle due assassine il passaporto e il crimine si rivela loro in tutta la sua portata.
Le reazioni alla scoperta di aver ucciso rispettivamente un figlio e un fratello sono, nella convergenza del gesto suicida, motivate in maniera differente.
È la Madre a sprigionare una complessità di argomentazioni. Alla luce della tensione irrisolta tra il grido di razionalità dell’Uomo e la silenziosa densità del Mondo, in un universo in cui Tutto è permesso, è possibile che sussistano alcune certezze. Una di queste, è l’amore di una madre per il proprio figlio e il dolore per averlo privato perfino del suo statuto di essere umano.
La Madre ammette di aver esaurito tutto in un gesto, il non riconoscimento: ora il delitto vede ristabilito il legame con il castigo. E in un crescendo di chiusure dell’interrogativo assurdo, l’unico Altrove possibile appare addirittura l’inferno.
Ma il deus ex-machina Camus fa parlare anche Marthe, che ricorda alla Madre la sua vicinanza, durata un’intera vita. L'anziana donna non contempla però tra le sue ritrovate certezze l’amore per una figlia, non paragonabile a quello provato nei confronti di un figlio, piantando così il seme dell’assurdo e della lacerazione: solo nella crudele irragionevolezza del mondo possono trovare cittadinanza la preferenza per un amore dimentico e silenzioso, e il gelido distacco da una costante devozione.
Torniamo al gesto che ha esaurito tutto: se si trattasse del riconoscimento del figlio Jan, morto? Il suicidio non potrebbe allora essere il taglio definitivo con cui soffocare una ritrovata tenerezza materna, prima abbandonata a favore dell’indifferenza? Il gettarsi nel fiume non sarebbe allora la recisione estrema della possibilità di dare finalmente un senso all’esistenza?Svuotandosi completamente di qualunque legame, sterile e inutile come gli assassini che la società condanna al castigo, la Madre si ricolloca nell’assurdo, raggiungendo il riposo attraverso il suicidio che assume un’insolita superiorità esistenziale rispetto alla rivolta negativa. Siamo alla cornice storica dell’Uomo in rivolta, in cui suicidio e omicidio si pongono, alla luce della temperie politica appena passata, come volti diabolici del nichilismo moderno.
Marthe si rende ora conto di aver perduto contemporaneamente la possibilità di raggiungere il mare, e la persona a cui era stata accanto, nella vita e nella morte altrui. Adesso la fuga le è preclusa per sempre e non le resta nemmeno la tenerezza della Madre, sottrattale da un fratello, considerato infine colpevole. La chiusura è completa: quella geografica ed esistenziale, visto che gettando uno sguardo sul panorama assurdo e popolato di cadaveri, la giovane rifiuta di alzare gli occhi al cielo e promette che lascerà il mondo senza essersi riconciliata con Dio e con gli uomini.
All’arrivo di Maria, le visioni dell’assurdo e le parole taglienti si incrociano e si separano come spade, in un crescendo omicida.
Tenuta fino a quel momento all’ombra espressiva del marito, Maria si fa riconoscere e fa riconoscere anche Jan, nell’ultimo tassello tragico.
Ad attenderla è Marthe, tornata al distaccoeal parlare chiaramente: essa affila le sue armi in una sconcertante strategia di allontanamento e, mentre spiega quale malinteso abbia portato a uccidere il fratello, scaccia le lacrime di disperazione di Maria e le comunica la propria decisione di morire.
Ma non andrà a raggiungere, nella morte, la Madre e il fratello, non intende mescolarsi alla loro tenerezza: il suo suicidio avverrà nella solitudine di una stanza che, qualche volta, in un impeto di rivolta, l’ha veduta perfino sorridere.
Marthe si spinge anche più in là, mostrandosi ben decisa a infondere nella “sorella” una dose di disperazione e tenta di trascinarla nell’ordine in cui nessuno si è mai riconosciuto. Di nuovo il suicidio e l’omicidio sono uniti nella distruzione e l’ultima raccomandazione prima della separazione nella morte, è quella di rendersi sorda a ogni grido e muta di fronte all’ingiustizia recata dall’uomo all'uomo: è quella di diventare simile a Dio che colpevolmente tace di fronte al dolore innocente. L’unica vera felicità non è quella di colui che spinge la pietra, ricominciando ogni volta il suo cammino, ma quella della pietra stessa.
Anche Maria è diventata sorda, ma di fronte a Marthe, mentre il suo caparbio amore per Jan, che l’ha “addomesticata” all’abbandono e l’ha preceduta nell’ora dell’incertezza, si volge ora a Dio. La sua richiesta è rafforzata dalla certezza di saper trovare le parole adatte, per sé e per tutti coloro che si amano e sono separati.
Ma è il Vecchio demiurgo a fare la sua ultima apparizione sulla scena e le sue parole segnano il rifiuto all’impaziente domanda di giustizia dell’uomo.
Attraverso Maria, portavoce della futura rivolta positiva e solidale, compare un’altra “soluzione” umana all’Assurdo: il detto che un uomo può sempre pronunciare e un altro uomo reduplicare con maggior sicurezza, il detto che riguarda se stessi.
Così, tra le pieghe del discorso di Maria, ascoltiamo la debole voce del bambino che abbiamo lasciato sulla via del ritorno quando, dopo un faticoso viandare, scorge il tetto della casa in cui ha abitato:
«Eccomi, sono vostro figlio, ecco mia moglie. Ho vissuto con lei in un paese che amavamo, davanti al mare e al sole. Ma non mi sentivo abbastanza felice, e oggi ho bisogno di voi»[1].
 
 
Bibliografia
 
- A. CAMUS, Le malentendu, Éditions Gallimard, Paris 1944, tr. it. di V. Pandolfi, Il malinteso, in Tutto il teatro, Bompiani, Milano 1988.
- A. CAMUS, OpereRomanzi, racconti, saggi, a cura e con introduzione di R. Grenier, Classici Bompiani, Milano 2004.
- M. ESSLIN, The Theatre of the Absurd, tr. it. di R. De Baggis e M. Trasatti, Il teatro dell’assurdo, Edizioni Abete, Roma 1990.
- A. GIDE, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, intr. par M. Nadeau, notices et bibliographie par Y. Davet et J. Thierry, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1958.
- E. IONESCO, La leçon – Les chaises, Éditions Gallimard Paris, 1954, tr. it di G.R. Morteo, La lezione – Le sedie, Collezione di Teatro, Einaudi Torino 1961 – 1982.


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[1] A. CAMUS, Il malinteso, tr. it. di V. Pandolfi, in Tutto il teatro, Bompiani 1993, p. 12.
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