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Tra paure e pregiudizi: il nodo informazione-sicurezza

Gianni Cipriani
Il tema che affronto in questo breve saggio è quello del rapporto informazione-sicurezza. Lo svolgo rispondendo a due domande: può l’informazione aiutare la sicurezza? Ovvero: può l’informazione moltiplicare la paura, le incertezze e il senso di insicurezza? Si tratta di un tema abbastanza arduo al quale potrei sbrigativamente rispondere con la formula del “bravo” giornalista o del “bravo” comunicatore: informazione e comunicazione devono raccontare e rappresentare l’insicurezza là dove essa esiste; non devono enfatizzare rischi e pericoli là dove non esistano; hanno il dovere di dire che un luogo è sicuro, là dove sia realmente sicuro; insicuro là dove sia realmente insicuro. Credo che questo si insegni in molte scuole di giornalismo e nelle facoltà di Scienza della comunicazione.
Il mio giudizio è un po’ diverso e sicuramente più problematico rispetto alla formuletta ora descritta. Per una serie di ragioni. Anzitutto perché nell’annoso (e secondo me fuorviante come illustrerò tra poco) dualismo tra fatti e opinioni, collocare in maniera netta in uno dei due campi la sicurezza è impresa piuttosto ardua. La sicurezza e l’insicurezza cosa sono? Fatti oggettivi? Opinioni? Come spiegare il divario che spesso esiste tra sicurezza reale (che si basa su dati statistici) e sicurezza percepita? È un fatto la sicurezza o la sua percezione?
Nei miei studi sulla disinformazione, la propaganda e più in generale sulla comunicazione persuasiva sono partito da concettualizzazioni e ricerche, elaborate soprattutto nell’ambito della psicologia sociale, che riguardano l’analisi dell’esperienza soggettiva e la correlazione tra ambiente esterno (o obiettivo) e ambiente vissuto (o psicologico). Lì ho avuto modo di scrivere: «Esistono dati ambientali (un oggetto, un colore, un evento) che possono essere sperimentati nella stessa maniera da tutti gli uomini, talché la loro percezione (e, in una seconda fase, la loro narrazione) è valutata come qualcosa di “obiettivo” e che ha per tutti lo stesso significato. In altri casi, però – quando, ad esempio, si tratta di condizioni sociali o fattori scatenanti di un determinato evento – la nostra valutazione dipende non solo da una percezione “obiettiva” dell’ambiente esterno, date le strutture psico-fisiologiche di base che abbiamo in comune con tutti gli altri uomini, ma largamente da strutture psicologiche che derivano dal nostro vissuto e dalla nostra esperienza di persone inserite in un determinato contesto socio-culturale, classe sociale, di una determinata età e quant’altro. È questa particolarità che fa sì che il soggetto sia parte integrante della definizione della struttura-significato di alcuni dati esterni»[1].
Ciò fa sì che in tutte le situazioni complesse e più strutturate «lo stesso dato esterno viene sperimentato in modo diverso da persone diverse; in linea generale, possiamo affermare che l’esperienza del mondo, l’ambiente psicologico, ha sempre qualche connotazione ‘privata’, esclusivamente propria del soggetto, visto l’intervento nell’esperienza stessa dell’assetto psicologico individuale, sintesi organizzata di esperienze in parte del tutto personali»[2].
Riportando queste osservazioni nel campo della comunicazione – e in particolare in quello dell’informazione – si può dire che una notizia può essere obiettiva quando riporta un elemento semplice, ben definito nella sua struttura e chiaro. Tale “obiettività” non può per definizione esserci quando l’oggetto della notizia è qualcosa di ben più articolato o meno definito, proprio perché, in questo caso, la notizia coincide anche con la sua interpretazione. L’11 settembre del 2001 a New York due aerei dirottati si sono abbattuti contro le Torri gemelle; i palazzi sono crollati e sono morte di migliaia di persone. Questa notizia è “obiettiva”, perché delinea compiutamente e in modo chiaro un evento che storicamente è accaduto. Se si introduce il termine “terrorismo”, però, già si fa una valutazione assai meno obiettiva, perché questa definizione corrisponde assai di più a una percezione propria di un campo socio-politico che, sicuramente, è assai diversa da quella di coloro che hanno considerato l’11 settembre un’azione eroica e legittima se non, addirittura, atto di difesa nei confronti dei veri terroristi[3]. Se proviamo a descrivere il contesto storico-politico o socio-economico nel quale l’attentato dell’11 settembre è avvenuto, allora non potremo che far derivare la nostra analisi dal nostro campo psicologico, ossia dall’insieme di esperienze, convinzioni, idealità e cultura che rappresenta il nostro vissuto, ossia ciò che sta tra noi e l’ambiente esterno. Raccontare che una persona è stata uccisa dalla mafia può significare raccontare con fedeltà obiettiva un evento. Raccontare cosa sia la mafia, ovviamente, comporta una chiave interpretativa che non può non coincidere con l’opinione che ci siamo costruiti della mafia in base alle nostre esperienze dirette, alla nostra etica o alle conoscenze che ci derivano da fonti esterne.
In altri termini, il più delle volte, il “fatto” coincide con la sua interpretazione. E la fin troppo declamata distinzione tra “fatti” e “opinioni” rappresenta da un lato un falso mito se non, addirittura (non sempre, ovviamente), un espediente per far passare per “obiettivo” ciò che “obiettivo” non può essere per definizione. Che è poi uno degli elementi stessi su cui si basa quella che ho denominato “guerra psicologica”.
Naturalmente queste mie considerazioni non vanno assolutizzate: personalmente non andrei a fare una passeggiata nei sobborghi di Bagdad, un campeggio nelle zone di guerra in Afghanistan, né mi inoltrerei con un orologio d’oro e una bella telecamera in quei quartieri di Caracas o nelle favelas brasiliane in cui non entra nemmeno la polizia.
Tuttavia credo che non sfugga a nessun lettore avvertito il fatto che concetti come la “paura”, i “rischi”, la “sicurezza” e l’“insicurezza” sono e sono stati utilizzati il più delle volte in maniera propagandistica e disinformante, per colpire emotivamente il lettore (talvolta l’elettore) e più in generale l’opinione pubblica per fini non sempre così nobili, tanto meno perseguendo il fine della corretta e completa informazione. Chi gestisce la paura, gestisce un potere. Chi è vissuto come colui in grado di eliminare le cause stesse della paura, gestisce un potere ancora più grande.
E qui entrano in campo considerazioni più ampie che riguardano la comunicazione di massa, tanto più stringenti in presenza di un processo di globalizzazione assai avanzato. Una condizione che, paradossalmente, in alcuni casi diventa congeniale al recupero di forme antiche di disinformazione e di propaganda: in un interessante saggio di alcuni anni or sono[4], Giovanni Sartori parlò della trasformazione dell’“homo sapiens” in “homo videns”. Là dove questo processo è stato individuato nel fatto che il “visibile” è sempre più prevalente sull’intelligibile e, di conseguenza, la capacità di astrazione, di comprensione della complessità viene progressivamente meno. Esiste quello che si vede, il resto no. A dire il vero, il ragionamento di Sartori riguardava soprattutto la televisione e la diffusione del “sapere per immagini”, considerato fonte di impoverimento culturale.
Credo che la fenomenologia dell’“homo videns” sia in qualche modo indipendente dalla televisione e possa essere interpretata facendo ricorso nuovamente agli strumenti della psicologia sociale, che poi sono quelli su cui si basano la propaganda e la disinformazione: esiste solo ciò che appare (indipendentemente da ciò che “è”), la complessità va ridotta a slogan (come insegnava Goebbles), la paura è la pre-condizione emotiva per far accettare situazioni e comportamenti altrimenti inaccettabili. Quindi il “videns” non è solo il telespettatore moderno, ma colui che scruta l’evidente e nello stesso tempo ignora il reale. Il susseguirsi delle “bolle” emotive e comunicative degli ultimi tempi ne sono la prova evidente.
Prendiamo ad esempio un recente e drammatico fatto di cronaca: il 12 maggio del 2008 a Ponticelli, vicino Napoli, una madre denunciò il tentativo di rapimento della sua bambina da parte di una zingara. La notizia si diffuse in un baleno e la conseguenza fu l’assalto e l’incendio del campo nomadi della zona da parte di una folla inferocita. Questo fu l’effetto principale e immediato. Come effetto collaterale – vista l’enfasi che la storia aveva avuto sui media – ci furono casi di altri presunti tentativi di rapimento di bambini da parte di zingari denunciati in varie parti d’Italia poi risultati casi inesistenti. Come terzo effetto ci fu il rilancio dell’immagine dello zingaro-rapitore di bambini che ha radici storico-letterarie[5] e quindi un innalzamento dei livelli di paura e diffidenza.
Successivamente è stato appurato che, con ogni probabilità, il tentativo di sequestro di Ponticelli non è mai avvenuto, mentre è affiorato il sospetto che dentro questa azione ci sia stata la volontà della camorra di alimentare una rivolta contro gli zingari, tra l’altro non per ragioni di sicurezza, ma per possibili speculazioni edilizie. Fatto sta che nella rappresentazione mediatica tra la notizia (falsa) del tentato rapimento e la successiva notizia del fatto che si trattasse di una montatura c’è stata una sproporzione evidente a vantaggio della prima. Talché nel senso comune è rimasta – e rafforzata – l’idea dello zingaro-rapitore. Non miglior fortuna ha avuto una ricerca promossa dalla Fondazione Migrantes, della Conferenza episcopale italiana, nella quale sono stati esaminati 29 casi di rapimenti attribuiti dalle cronache agli zingari, che in nessun caso sono risultati colpevoli[6]. Nonostante l’autorevolezza della fonte, anche i risultati della ricerca ben poco spazio hanno avuto nelle cronache, tanto meno si è aperta una serena e approfondita riflessione.
Perché? Non a caso, poc’anzi, a proposito delle analisi di Sartori, ho parlato delle “bolle” emotive e mediatiche le quali, talora, sono capaci di annullare ogni processo critico. L’“homo videns” di Sartori, ripeto, è qualcosa che va valutato anche al di là del ruolo (pure importante) della televisione. È il ragionare per immagini, intendendo con queste ultime l’esistenza di una mediazione immediata e acritica – che poi sarebbe una contraddizione in termini – tra mondo esterno e valutazione personale. Un’immagine che dia una traduzione categorica della realtà: è così; non può che essere così; è quella cosa; è senz’altro quella cosa. Là dove l’immagine vince con facilità rispetto al ragionamento, attraverso il quale bisogna sforzarsi di rappresentare le cose nella loro complessità. E tradurre la complessità in un’immagine elementare è impresa assai ardua, se non impossibile.
Quindi l’“homo videns” di Sartori altro non è che l’“uomo-massa” efficacemente descritto da Gustav Le Bon nella sua psicologia delle folle. Ne cito il pensiero seguendo la sintesi fatta da Sigmund Freud: «La massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per essa non esiste l’inverosimile. Pensa per immagini, che si richiamano vicendevolmente per associazione come, nel singolo, si adeguano le une alle altre negli stati di libera fantasticheria; queste immagini non vengono valutate da alcuna istanza ragionevole circa il loro accordo con la realtà. I sentimenti della massa sono sempre semplicissimi e molto esagerati. La massa non conosce quindi né dubbi, né incertezze. Corre subito agli estremi, il sospetto sfiorato si trasforma subito in evidenza inoppugnabile, un’antipatia incipiente in odio feroce»[7].
La psicologia delle folle ben spiega il perché di Ponticelli e dei suoi effetti collaterali, non ultima la difficoltà a dire una qualche parola partorita dal cervello piuttosto che dalle viscere in quel contesto. Il mondo dell’informazione e della comunicazione, ovviamente, ha le sue responsabilità perché spesso diventa un fattore moltiplicatore delle “bolle” piuttosto che svolgere il ruolo – che pure a esso competerebbe – di frangiflutti. Le ragioni sono tante: dalla necessità della semplificazione che può diventare inseguimento degli stereotipi e dei luoghi comuni, all’appiattimento acritico sulle “notizie” o su quelle che vengono presentate come “notizie”, senza la capacità o la voglia o la possibilità di svolgere un effettivo lavoro di verifica sul campo, come pure prevederebbe l’abc della professione giornalistica; fino alla impossibilità – anche dove ce ne fosse voglia – di poter effettivamente controllare fino in fondo le fonti.
C’è poi un altro elemento – che introduce ad un aspetto più generale – che spiega “perché Ponticelli”. Per essere efficace una disinformazione deve contare su tre fattori: l’autorevolezza della fonte; la creazione del senso comune; la capacità di diffusione[8]. Nel caso di Ponticelli la notizia ha fatto talmente leva su un pregiudizio consolidato e una paura diffusa – gli zingari rapitori di bambini – che è diventata vera indipendentemente dall’autorevolezza della fonte, comunque presentata all’inizio solo come “mamma” (da qui il processo di identificazione di tante famiglie che hanno vissuto quel dramma come proprio) mentre le successive notizie – figlia di un caporione della zona – sono rimaste comunque nello sfondo[9]. Ovviamente la successiva diffusione della notizia non ha fatto altro che moltiplicare le paure, legittimare la rivolta e moltiplicare nel breve periodo la suggestione di altri rapimenti di bambini.
Questa dinamica disinformativa non deve meravigliare. Purtroppo. Perché quando sono presenti le tre condizioni che ho prima esposto, è possibile andare ben oltre ai nostri scenari italiani. Ponticelli ha provocato una sommossa popolare; un po’ di insano chiacchiericcio politico ma fortunatamente nessuno è morto. Per la guerra in Iraq i morti sono stati milioni e ancora oggi si muore quotidianamente per le sue conseguenze. Eppure la “ricetta” utilizzata per legittimare di fronte all’opinione pubblica internazionale e perfino alle Nazioni Unite la “guerra preventiva” è stata la medesima: nei miei studi della disinformazione e la propaganda ho citato come esempio “da manuale” l’intervento del Segretario di Stato degli Stati Uniti Colin L. Powell al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 5 febbraio 2003. All’epoca, gli Stati Uniti e alcuni governi loro alleati si dicevano certi che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa e aiutasse il terrorismo internazionale. Saddam Hussein, in qualche misura, era rappresentato come gli zingari: cattivo e capace di tutto. Figurarsi se un tiranno sanguinario non potesse aiutare il terrorismo internazionale o non avesse armi in grado di distruggere la stessa Europa. Figurarsi se gli zingari, che realmente sono autori di numerosi furti e borseggi, non siano capaci di rubare i bambini. Questa tecnica disinformativa si definisce “attribuzione arbitraria”: non far discendere la falsa informazione dal nulla, ma inserirla in un contesto vero. Se è vero – come era vero – che Saddam Hussein aveva sterminato i curdi utilizzando i gas, allora doveva essere vero (mentre era falso) che avesse le armi di distruzione di massa. Se è vero – come è vero – che gli indici delinquenziali tra i rom sono superiori a quelli di altre comunità, allora anche il resto è vero, anche quando è falso.
Nel caso della guerra all’Iraq, però, gli Stati Uniti avevano una “grana” in più da risolvere: in quello stesso periodo gli ispettori incaricati dalle Nazioni Unite e le agenzie internazionali erano piuttosto scettici rispetto alle certezze del governo degli Stati Uniti. Per cui, nell’intervento all’Onu, compito di Colin Powell non fu solamente quello di confutare le affermazioni del regime iracheno (Saddam poteva dire ciò che voleva, ma in quel contesto l’opinione pubblica occidentale non gli avrebbe comunque dato ascolto) ma soprattutto togliere credibilità ad altre fonti più neutrali, ma altrettanto autorevoli, come appunto gli ispettori dell’Onu. Nel suo discorso, esemplare come uso delle tecniche di disinformazione, propaganda e contro-propaganda, Powell riuscì a convincere molti indecisi sulle ragioni dell’amministrazione Bush. Oggi Powell è passato con Obama e tanti hanno dimenticato quel discorso e le tragiche conseguenze che provocò… ma questa è un’altra storia. Mi limito a dire che Powell, allora come oggi, è stato mediaticamente trattato assai meglio di Saddam Hussein e degli zingari.
In definitiva, per concludere queste note, è mia convinzione che sono molto più numerosi gli interventi attraverso i quali l’informazione – più in generale il mondo della comunicazione – cavalca le paure, moltiplica l’insicurezza percepita ed è oggettivamente alleata di chi specula sulla paura o dalla paura trae la propria forza e legittima scelte sociali e politiche, rispetto agli interventi in cui l’informazione funge da strumento di difesa dalle paure e strumento di sicurezza. Al di là di alcune precise azioni di disinformazione di massa – la guerra in Iraq ne è un esempio lampante – non credo però che ci siano complotti, ma molto spesso la tendenza della comunicazione di massa (volutamente generalizzo, anche se in questo caso faccio ricorso pure io allo stereotipo dei giornali che non informano…) ad adagiarsi sulle “bolle” ed a sostituire l’approccio critico in una pilatesca rincorsa alla “notizia”, come se potesse essere qualcosa di neutrale, mentre – come ho detto – ogni notizia complessa[10] è anche “interpretazione”, quindi mai neutrale o “oggettiva”.
Naturalmente non è destino ineludibile dell’informazione e più in generale della comunicazione di massa diventare il gendarme dell’autoritarismo o di qualsiasi tipo di pregiudizi e stereotipi, compresi quelli “progressisti”, ossia la tendenza a suddividere il mondo in una minoranza di “buoni” che vogliono la verità; mentre la maggioranza, magari alleata con i poteri forti, persegue la menzogna. La demagogia trasversale è parte integrante della banalizzazione della complessità e foriera dei luoghi comuni. Non vorrei, puntando l’indice sulla disinformazione e la propaganda e sulle distorsioni che producono, fare a mia volta – nel senso deteriore del termine – propaganda. L’esperienza mi ha però insegnato che sugli allarmi e la paura il mondo dell’informazione (ma non solo il mondo dell’informazione) farebbe bene ogni tanto a farsi un esame di coscienza. E mi ha insegnato che la necessaria e ineludibile riduzione della complessità che presiede larga parte dei processi comunicativi non deve essere mai disgiunta da un sano e sapiente vaglio critico, anche quando è più facile e opportuno fare il contrario. Ho avuto recentemente modo di scrivere che oggi le viscere hanno molto più appeal della ragione. Ma bisogna sempre ricordarsi che il sonno della ragione genera mostri. E pogrom e linciaggi e odii. Ingiustizie e crimini che qualcuno continua a chiamare “sicurezza”.


[1] G. CIPRIANI, Guerra psicologica. La comunicazione come arma strategica, QuiEdit, Verona 2007, pp. 56-57.
[2] E. DE GRADA, Introduzione alla psicologia sociale, Bulzoni, Roma 1972, p. 94.
[3] Va aggiunto, inoltre, che esiste una fiorente pubblicistica secondo la quale l’11 settembre non è che il frutto di un complotto voluto dagli stessi Stati Uniti. Senza entrare nel merito, va sottolineato come l’assenza di un oggetto chiaro e ben definito sia la premessa di una lettura/percezione dei fatti influenzata dal nostro sistema valoriale ed esperienziale.
[4] G. SARTORI, Homo videns, televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1997.
[5] Tra i tanti esempi che si possono ricordare c’è l’opera di Giuseppe Verdi Il Trovatore, nella quale il protagonista, il ribelle Manrico, fratello del conte di Luna, era stato rapito da neonato dalla zingara Azucena e da lei allevato come un figlio. Vale la pena sottolineare che quest’opera – ripresa dal Trovador di Antonio Garcia Gutierrez – fu una delle opere più popolari di Verdi e il suo successo ha contribuito ad alimentare il mito dello zingaro-rapitore.
[6] S. TOSI CAMBINI, La zingara rapitrice: racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma 2008.
[7] G. LE BON, Psychologie des foules (Parigi 1895) citato in S. FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Bollati-Boringhieri, Torino 1975, pp. 19-20. Ovviamente sono consapevole dei limiti dell’opera di Le Bon e di alcune inevitabili approssimazioni di un lavoro, comunque, pionieristico. Tuttavia, lavorando da quasi un quarto di secolo nel mondo della comunicazione, devo dire che su molti aspetti fondamentali Le Bon ha avuto assolutamente ragione.
[8] Cfr. G. CIPRIANI, Guerra psicologica, cit., pp. 51-56.
[9] Nessuno fa fatica a immaginare che se al posto della zingara, la mamma avesse accusato un poliziotto o un sacerdote o, comunque, una persona percepita come “rispettabile”, la notizia prima di essere presa per buona sarebbe stata sottoposta ad un più serio vaglio critico. Oppure sarebbe stata liquidata come falsa accusa.
[10] Ovviamente questo dipende anche dalla contestualizzazione della notizia, dalla sua posizione rispetto alle gerarchie informative, dalla sua evidenza e dal fatto stesso che venga scelta come notizia nella sterminata moltitudine di eventi che accadono quotidianamente nel mondo. Sono i “criteri di notiziabilità” che preludono alla cosiddetta “codifica selettiva”: essi, per definizione, non possono essere oggettivi, perché è la scelta stessa a comportare un giudizio che è determinato da valutazioni di carattere personale, sociale, politico, religioso, di linea editoriale.
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