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La guerra indicibile e il terrore[*]

Luigi Alfieri

1. La criminalizzazione della guerra e la fine dello Stato

Il necessario punto di partenza di ogni considerazione sulla guerra nel mondo contemporaneo è che l’esperienza dei due conflitti mondiali ha cambiato irreversibilmente la struttura stessa del fenomeno. Ciò sotto due profili, strettamente collegati tra loro.
In primo luogo, il livello di distruttività delle nuove tecnologie belliche ha fatto saltare tutti i precedenti parametri d’inquadramento della guerra, qualificandola come atto intrinsecamente criminale non più suscettibile di alcuna legittimazione giuridica e morale, non più rapportabile alle forme di etica ed estetica della morte comunemente accettate in precedenza. Le trincee del ’14-’18 sono state un vero e proprio campo di reciproco sterminio, con le stesse proporzioni e in gran parte le stesse tecniche di Auschwitz. La carne umana illimitatamente esposta ai gas, al filo spinato, alle mitragliatrici, non è più altro che carne da macello offerta in alimento ad un Moloc che non ha nulla di razionale, che non segue una logica politico-giuridica, per quanto violenta e cinica la si voglia immaginare. Sebbene oscenamente ipocrita, la criminalizzazione dei vinti operata dai vincitori al termine della prima guerra mondiale esprimeva un dato indubitabile, e cioè che i responsabili di simili distruzioni non potevano più essere qualificati come iusti hostes. La cosa, certo, era a senso unico, dunque sotto questo profilo eticamente inaccettabile; però mostrava una consapevolezza rispetto alla quale il tentativo di Carl Schmitt di «salvare» giuridicamente la guerra dopo la prima – e persino dopo la seconda – guerra mondiale appare caratterizzato da una sorta di perversa ottusità[1]. Con la seconda guerra mondiale, la criminalizzazione dei vinti, malgrado il perdurare dell’ipocrisia dei vincitori, è divenuta addirittura una delle basi etico-politiche del mondo contemporaneo: siamo tutti figli di Norimberga.
In secondo luogo, l’apparizione dell’arma nucleare non ha comportato solo un ulteriore immane aumento della distruttività bellica, ma ha determinato una svolta repentina riguardo alla natura stessa del genere umano. L’uomo è diventato l’unico essere vivente che possa suicidarsi come specie, e con ciò ha smesso per sempre e senza rimedio di essere una componente del mondo naturale, entrando in una sorta di preternaturalità che potrebbe essere vista come una soprannaturalità pervertita[2]. Siamo, di fatto, oggi, dei demoni. E la speranza che possiamo diventare dèi o angeli è assai scarsa, sebbene ormai non esista più, alla lettera, altra via d’uscita concepibile.
S’intende che un evento che cambia la natura della specie cambia, a maggior ragione, le forme dell’umana convivenza. Lo Stato come lo conoscevamo non esiste più, sebbene i giuristi, conservatori oggi, per certi versi, più di quanto lo siano mai stati in passato, solitamente rifiutino di prenderne atto. Certo, possiamo coltivare quanto ci pare la fictio iuris che San Marino sia uno Stato sovrano esattamente come gli USA, ma questo non può velare l’evidenza fattuale che San Marino è un parco a tema[3] in provincia di Rimini, lontano mille miglia dalla forma-Stato, mentre gli USA ne sono altrettanto lontani in ben altra direzione, essendo i massimi depositari del potere autodistruttivo dell’umanità, e perciò – non in maniera esclusiva ma in maniera assolutamente preponderante – i signori del mondo: non solo molto più di uno Stato, ma addirittura molto più di un impero come lo intendevamo[4].
Sia chiaro che non è questione di estensione territoriale. L’isola di Malta, nel 1565, ha potuto resistere vittoriosamente ad un assedio turco di dimensioni imponenti: non solo era uno Stato, ma era una media potenza marittima con ambizioni egemoniche su scala locale del tutto sostenibili[5]. La minuscola città-Stato di Ragusa ha potuto resistere, al riparo delle sue mura e dei suoi cannoni oltre che dei tributi saggiamente pagati ai turchi per secoli, fino a Napoleone, durando qualche anno più di Venezia: era veramente uno Stato[6]. Ma oggi non soltanto le mura e i cannoni servono giusto per le cartoline dei turisti: anche centinaia di carri armati e decine di cacciabombardieri non sono che giocattoli da parata, per chi non ha la Bomba. E chiunque non abbia la Bomba dipende, per la sua sopravvivenza, dal benvolere altrui: situazione tecnicamente definibile solo come protettorato. Non ci sono più veri Stati al mondo, ma solo finti Stati da cartolina, protettorati e superpotenze nucleari: un concetto nuovo quest’ultimo, perché in qualche modo si è pur dovuto prendere atto che parlare di Stati, oggi, o è troppo o è troppo poco[7].


2. «Impossibilità» della guerra

Ne consegue, come ho sostenuto altrove, che la guerra come tale è diventata «impossibile»[8]. A livello di “finti” Stati, la cosa è sin troppo ovvia: al di sotto di certe dimensioni gli eserciti sono monumenti del passato, resti archeologici viventi, figuranti in costume che recitano uno spettacolo un po’ patetico per turisti di bocca buona (e questo anche parecchio più su del livello San Marino). Se parliamo degli Stati «veri» come sono oggi, cioè di protettorati, la guerra può avvenire solo su autorizzazione o delega (o per assoluto disinteresse) della potenza protettrice, e quindi non sarà comunque espressione di sovranità: tanto più che esiste un oligopolio internazionale delle armi che renderebbe difficile, se non impossibile, l’approvvigionamento a chi non agisca all’interno dell’ordine mondiale dato (anzitutto sotto il profilo economico). La guerra come esercizio di sovranità, a questo livello, è morta e sepolta[9]. Riguardo alle superpotenze nucleari, poi, la guerra è evidentemente da escludere, perché il rischio di perdere il controllo della situazione e di arrivare ad un punto in cui o si usa l’atomica o ci si riconosce sconfitti è tremendamente reale. Le guerre tra superpotenze si fanno, beninteso, ma sono guerre economiche, diplomatiche, simboliche (per esempio competizioni sportive), oppure guerre per interposti clientes[10]. A tutti i livelli, inoltre, agisce la fondamentale e universale criminalizzazione della guerra, per cui nessuno Stato può riconoscere che la sta facendo o che la vuole fare – perché si autoqualificherebbe come aggressore, e perciò come autore di un crimine – e se la fa deve negare di farla, sostenendo che si tratta di legittime operazioni di autodifesa, d’interventi umanitari, di operazioni di polizia a tutela dell’ordine internazionale. La fantasia diplomatica è notevolmente vasta a questo proposito.
Di guerra si parla apertamente, non a caso, solo quando l’avversario è talmente criminalizzato in partenza da dare alla cosa un intenso sapore morale: si può, si deve, fare guerra al male, al terrorismo, alla tirannide. Estremamente interessante, a questo proposito, la delineazione di un’inedita categoria di «Stati-canaglia» (rough States), a cui evidentemente non si riconosce sovranità e nei cui confronti ci si ritiene liberi di fare qualsiasi cosa (o almeno di dire qualsiasi cosa). In nessun caso si afferma di fare la guerra ad una nazione, ad un popolo; anzi, s’invade e si bombarda sempre per il bene degli invasi e bombardati, che avranno in ricompensa libertà e democrazia. Va da sé che la dichiarazione di guerra è completamente scomparsa: un’istituzione plurimillenaria di diritto delle genti, risalente quanto meno all’Età del Ferro, è stata del tutto estirpata senza che la cosa abbia suscitato opposizione, e neanche particolare meraviglia.
Fatta la debita tara della nauseante ipocrisia di tutto ciò, resta il fatto che il cambiamento è reale ed enorme. E comprende almeno i seguenti punti fermi: a) l’assunzione della guerra come valore in sé (che ha dominato dalla protostoria al ’14-’18 compreso) è ormai del tutto impossibile[11]; b) la stessa parola «guerra» è diventata un nomen criminis che non deve essere usato se non in senso generico e astratto o in sede storica, e mai per designare ciò che il proprio Stato sta effettivamente facendo (se non in contesti del tipo «guerra al terrore»); ma allora, c) la guerra si fa davvero in maniera diversa rispetto al passato: deve durare poco, deve costare poco, deve fare poche vittime (almeno tra i «nostri», dei «loro» non importa), non dev’essere troppo appariscente, non può essere troppo a lungo la prima notizia del telegiornale. Se va male, bisogna chiuderla alla svelta in qualche modo, e il vantaggio di una guerra «indicibile» è che la si può anche perdere senza dirlo – se non c’è guerra non c’è sconfitta. Ma il punto fermo di gran lunga più importante è: d) niente guerra tra potenze nucleari, perché nessuno ha dubbi sul fatto che si perde comunque. Qui il non-detto non basta, ci vuole proprio il non-fatto, anche per quanto riguarda la guerra «convenzionale». Ci si potrà andare più o meno vicino: minacciarla (sempre secondo la retorica dell’indicibilità, naturalmente, a maggior ragione in questo caso), prepararla, farla fare ad un proprio cliente contro un cliente dell’avversario, finanziare qualche movimento guerrigliero rivoluzionario o separatista, ecc. Ma il tabù supremo non dev’essere mai violato.


3. La pace sotto la Bomba

A questo punto, però, la Bomba è diventata il vero e proprio fondamento dell’ordine internazionale e persino l’unico strumento per assicurare qualcosa che, essendo una non-guerra, è più o meno una pace. Non l’Onu: la Bomba, ed è chiaro che senza la Bomba anche l’Onu avrebbe fatto la stessa fine ingloriosa della Società delle Nazioni.
Questo però la rende spaventosamente indispensabile. È impensabile che chi ce l’ha se ne privi[12], perché questo lo declasserebbe da superpotenza a protettorato, e creerebbe anche reali rischi per la sicurezza (col consenso delle superpotenze rimaste tali, si potrebbe essere candidati a subire il prossimo «intervento umanitario»). C’è una fortissima convenienza ad averla, perché si passa al grado superiore, si acquista l’unica forma di sovranità che oggi sopravviva, ci si libera dalla dipendenza dal benvolere altrui, e questo può essere l’unico modo di sopravvivere per governi che non possono o non vogliono appoggiarsi ad una potenza protettrice e sono quindi per questo solo fatto esposti ad un intervento umanitario concentrico (com’è accaduto alla Serbia, come l’Iran ed altri non vogliono – e francamente non si capisce perché ciò sarebbe folle e irrazionale come quasi sempre si legge – che accada anche a loro).
Una facile previsione, a questo punto, è che il mondo futuro sarà fatto tutto di potenze nucleari, o di confederazioni di Stati alcuni dei quali sono potenze nucleari (tale è, tutto sommato, l’Unione europea) – più un buon numero di piccole o grandi Repubbliche di San Marino, che avranno venduto la propria sovranità al miglior offerente, e ci sono casi in cui non si può fare niente di più saggio. La guerra sarà allora impossibile non solo come parola, ma anche come fatto: il che però non sarà molto allegro, perché il prezzo da pagare sarà la progressiva intensificazione del rischio di una catastrofe nucleare scatenata da un incidente tecnico o da un occasionale atto di stupidità o follia, eventualità che, in un tempo sufficientemente lungo, diviene praticamente certezza. Ma la guerra come atto politico, come decisione più o meno razionale, sarà davvero definitivamente scomparsa, e non si vede perché ciò non dovrebbe essere visto come un’importante conquista. Ad essere straordinariamente, stravagantemente ottimisti, si potrebbe addirittura ipotizzare che, alla lunga, la disabitudine alla guerra porti al non saperla più concepire come possibilità, e allora forse la Bomba potrebbe diventare un pezzo da museo.


4. La Bomba e i kamikaze

Sennonché, c’è un fatto nuovo che mette seriamente in crisi questo scenario: ed è il terrorismo, nella forma suicida che ormai è divenuta abituale.
Il suicidio ha un forte rapporto con la Bomba, e non solo nel senso che l’uso della Bomba sarebbe appunto il suicidio dell’umanità. C’è un rapporto più sottile e tragicamente interessante tra le due cose, e questo proprio riguardo al primo (e per ora unico) caso di uso bellico della Bomba. La strategia del Giappone negli ultimi mesi di guerra è appunto consapevolmente suicida, e non per follia o fanatismo, ma come scelta a suo modo «razionale». Il contendente più debole, ormai avviato a sconfitta certa, ha un solo modo di evitarla: renderla troppo costosa per l’avversario, accettando da parte sua di pagare qualsiasi prezzo. Si possono subire perdite spaventose, affrontare le più terribili devastazioni, sopportare le sofferenze più atroci, purché questo possa condurre l’avversario oltre il punto a cui può permettersi di arrivare. Si dà per certo, infatti, che l’avversario possa accettare solo perdite, devastazioni e sofferenze notevolmente inferiori, sia perché la sua mentalità, la sua cultura, la sua religione non contemplano il sacrificio estremo, sia perché il suo sistema è pluralistico e l’unità del volere politico s’infrangerebbe di fronte ad una prospettiva di distruzione troppo vasta. Il calcolo era spietato, ma perfettamente sensato: gli americani non avrebbero potuto sopportare un’Iwo Jima moltiplicata per mille, come sarebbe stata l’invasione del Giappone. A quel punto, avrebbero dovuto accettare una pace di compromesso, che il Giappone avrebbe potuto iscrivere nella propria storia come una sostanziale, anche se sofferta, vittoria. Solo che fuori del calcolo era rimasta la Bomba, di cui i giapponesi non sapevano nulla. Ed ecco che la carta del suicidio controllato strategico si rivolta contro di loro: rifiutare la sconfitta e continuare la guerra significa essere distrutti, non esistere più come nazione: sarebbe un suicidio in senso pieno, senza poter infliggere all’avversario nessuna anche piccola ritorsione. La Bomba vince sul suicidio, perché lo priva di senso strategico e di onore.
Però l’idea del suicidio come arma, nata allora, non è più davvero morta. Resta un’idea potenzialmente vincente, un altro aspetto centrale del panorama di guerra-non guerra in cui viviamo. La Bomba può sconfiggere la strategia del suicidio, ma, appunto, ci vuole la Bomba. In un teatro di operazioni in cui la Bomba non è adoperabile, il suicidio torna ad essere l’arma assoluta: chi si uccide trasformandosi in arma, colpendo tramite la propria stessa morte, è tecnicamente invincibile. Certo, non potrà realizzare una forza d’urto tale da poter sconfiggere l’esercito nemico in campo aperto, ma può creargli intorno un clima d’insicurezza, paura e frustrazione tale da metterlo in condizione di assedio permanente. Dal punto di vista strategico, il terrorismo suicida ricostituisce appunto la struttura della guerra di assedio: diventa decisivo il fattore tempo, vince chi resiste di più, chi sopporta più a lungo una situazione di privazioni e sofferenze. Ma i due avversari non sono comunque sullo stesso piano: è chiaro che chi fin dall’inizio è disposto a volere la propria morte parte avvantaggiato. È sufficiente avere alle spalle una collettività sufficientemente disperata e fanatizzata – la prima cosa rende estremamente facile la seconda – da produrre con regolarità un numero di «martiri» che consenta di non dar tregua all’avversario per un lasso di tempo abbastanza lungo da spezzare la sua volontà di combattere. E in un tempo sufficientemente lungo, non c’è il minimo dubbio su chi vince tra un esercito di suicidi ed uno di non suicidi. Il calcolo «giapponese» è perfettamente giusto, senza la Bomba. E ha fatto scuola (non dimentichiamo che c’è stato un contatto storico tra terrorismo giapponese di estrema sinistra – antiamericano e antioccidentale, e in questo in perfetta continuità con la generazione della guerra – e terrorismo nazionalista palestinese, una sorta d’ideale passaggio di testimone).
E qui assistiamo ad una delle tante ciniche ironie della storia. È come se il Giappone vinto abbia lasciato un’eredità di vendetta ad un popolo che gli è sotto ogni profilo lontano, ma ha accumulato nel tempo un’analoga carica di frustrazioni, arretratezze ed ansie di riscatto. Oggi non è certo a giapponesi che si pensa, quando si usa la parola kamikaze[13]
E questa volta la strategia del suicidio rischia di essere vincente, perché la Bomba non c’è. È un’arma scomoda, la Bomba: troppo ingombrante, troppo mastodontica, troppo a misura di superpotenza. E qui incontriamo un altro interessante e disperante paradosso. Sulla scala che le è propria, quella appunto delle superpotenze, la Bomba incontra un’altra Bomba uguale e contraria e ne è come annullata, se non si vuole la distruzione totale reciproca: è un’arma paralizzata, immobilizzata, che non serve a fare la guerra, ma a fare la pace. Dove dall’altra parte non incontra un’altra Bomba, ma incontra il Terrore suicida, la Bomba è ugualmente impotente. Distruggerebbe troppo, non saprebbe distinguere tra amici e nemici, ed anzi rischierebbe di distruggere tutti tranne appunto i nemici: i gangli vitali della loro organizzazione sono altrove, magari nelle capitali di Stati amici ed alleati, o in qualche paradiso fiscale o banca svizzera. Il suo uso risponderebbe al terrorismo suicida con un terrorismo omicida che darebbe all’avversario la vittoria morale e farebbe crollare qualsiasi base di consenso.


5. Giganti impotenti e nani feroci

Di questo è urgente prendere atto: il terrorismo suicida non è una forma di astratto furore fanatico o un’espressione di barbarie. È una spietata, ma lucida ed efficace scelta strategica: è la sola arma che possa essere opposta con successo a chi possiede la Bomba, l’unica che possa ridurre all’impotenza chi è onnipotente. Altra decisiva conferma che nel panorama politico internazionale attuale esiste di tutto, tranne che Stati: megaimperi sempre più simili a giganti incatenati ed organizzazioni piccole ma transnazionali, simili a nani disperati e feroci, mobili, mimetici e pressoché invisibili. In questa guerra tra giganti e nani, il vantaggio è chiaramente di questi ultimi, purché siano disposti a lasciarsi schiacciare in gran numero, mentre i giganti sopportano male anche le più piccole ferite e, non sentendosi realmente in pericolo di essere annientati, tendono a risparmiare le forze e a non impegnarsi a fondo. Per sottrarsi al morso dei nani, in effetti, piuttosto che insistere fino ad ucciderli tutti, è più facile andarsene e lasciarli perdere, magari gettando nella lotta al proprio posto dei nani amici contro i nani nemici.
Ma anche questa è una scelta razionale e non perdente, ed è un problema per i nani. In effetti, il gigante può essere facilmente ferito, e grida forte anche per le ferite più piccole. Ma appunto, non è possibile infliggergli che ferite piccole: lo si può forse far scappare, ma ucciderlo è del tutto impossibile. E non basta farlo scappare, perché il gigante, anche fuggendo a casa sua, continua a dominare l’economia mondiale e a monopolizzare lo spazio comunicativo. Anche se i nani feroci avessero la possibilità di istituire la loro repubblichetta pura e dura, islamica o no che la si chiami, non potrebbero resistere a lungo alla forza di attrazione mimetica del loro avversario, alla sua capacità di affermarsi come modello in forza di una supremazia economica e di un’opulenza di stile di vita che ancora a lungo non avranno uguali[14]. In un sistema di comunicazione globalizzata, una società pluralista, che offre almeno in linea di principio uguaglianza di fronte alla legge, possibilità di orientare autonomamente la propria vita ed opportunità di successo ed autorealizzazione, senza gerarchie sociali immutabili e regole di costume soffocanti, non può che esercitare una potentissima forza d’attrazione sui propri stessi avversari, una volta che sia stato superato o attenuato l’odio vissuto durante la lotta. È l’immensa forza di «corruzione» del «grande Satana»: le cittadelle del Bene assoluto, della purezza, della virtù, dell’autenticità, della giustizia perfetta sotto l’occhio onniveggente di non importa quale Dio, non reggono a lungo all’evidenza che essere ricchi è meglio che essere poveri, poter scegliere è meglio che dover obbedire, poter cambiare è meglio che dover restare identici, realizzare i desideri è meglio che essere costretti a reprimerli. Per un po’, la propaganda sull’ingiustizia e sull’immoralità ipocrita dell’avversario funziona, anche perché ha un discreto fondamento nei fatti, finché è vivo il ricordo dei colpi alla cieca inferti dal gigante e delle distruzioni da lui provocate, spesso per pura goffaggine; ma alla lunga, la sproporzione tra l’altrui rutilante inferno di vizi e il proprio squallido e desertico paradiso di virtù sarà schiacciante. La guerra fredda lo insegna: la vittoria finale avviene sul fronte del desiderio. E l’Occidente dovrebbe capire di essere odiato non per le sue molte e realissime colpe storiche, ma per il suo evidentissimo monopolio del futuro, per il fatto che a tutti gli sguardi ostili esso appare come l’unica forma di vita che potrà allignare nel mondo di domani, quando tutte le tradizioni ataviche, le identità eroiche, le virtù millenarie, gli esclusivismi tribali, le parentele claniche, le immolazioni sacrificali a leggi divine ed eterne verità saranno ridotte in polvere – o a cartoline per turisti. Si odia nell’avversario il fatto che un giorno si dovrà essere come lui, perché non ci sarà altro modo di essere. Per questo non basta vincere, mettere in fuga il gigante, come è perfettamente possibile ed è realmente successo (in Vietnam ad esempio): no, il gigante dovrebbe morire, se no comunque vincerà lui.
Ma come possono i nani uccidere il gigante? Non possono, evidentemente: però, purtroppo, possono trovare un valido surrogato della sua morte – precisamente nella morte propria.


6. L’incubo e la speranza

Nessuno potrebbe sconfiggere un nemico invulnerabile. Ma non ci sono nemici invulnerabili. Per questo gli uomini sono per natura uguali, insegna Hobbes: perché tutti possono ugualmente uccidere ed essere uccisi[15]. Perciò ogni guerra è incerta, malgrado ogni pur grande sproporzione di forze: nessuno può sapere prima che non verrà ucciso, nessuno può dare per sicuro che vincerà. È proprio questa la ragione per cui in generale è preferibile la pace, e per cui la pace, almeno la non-guerra, si afferma necessariamente in una situazione in cui tutti sono ugualmente certi che sarebbero uccisi, che non ci sarebbero vincitori. È appunto l’attuale paralisi nucleare della guerra. Ma che accadrebbe se scendesse in lizza appunto un invulnerabile, un immortale?
Sembra facile respingere questa terrorizzante prospettiva: per fortuna siamo mortali, e non sembra che abbiamo motivo di preoccuparci di quel che farebbe in guerra un immortale, di cosa mai potrebbe trattenerlo dall’uccidere tutti i mortali…[16]. Ma qui purtroppo non conta il fatto della morte: conta la sua anticipazione conoscitiva. Non siamo mortali perché moriremo, ma perché lo sappiamo e ci pensiamo sempre. Come ci comporteremmo, però, se non lo sapessimo? Se rifiutassimo il concetto stesso di morte, e pensassimo che quello che gli altri chiamano morte è invece ancora vita, vita migliore, vita beata, vita pura, vita eterna? Se pensassimo non alla tomba, ma al paradiso?
Di fatto, la guerra stessa, in tutte le sue forme, è tecnicamente possibile solo grazie alla facilità, alla frequenza, all’intensità, alla diffusione di rappresentazioni culturali che depotenziano il morire. Si potrebbe persino scrivere una storia della guerra sotto questo particolare angolo di visuale. Non si muore davvero, perché c’è la Gloria, perché si è cantati dai poeti e commemorati dai concittadini, perché la propria morte alimenta la vita dei discendenti, perché si raggiungono gli antenati, perché si ascende al Walhalla, perché si merita il paradiso, o semplicemente perché si era perso già da prima il senso di esistere come individui, immergendosi sino ad annegarvi in un «noi» che vivrà tanto più intensamente quanti più «io» vi muoiono dentro[17]. E c’è, a depotenziare il sentimento del morire, soprattutto l’enorme senso di potere che dà la pubblica autorizzazione ad uccidere impunemente, innocentemente, gloriosamente[18]. La guerra finisce quando i sopravvissuti reimparano di essere mortali, quando si convincono che moriranno davvero, che non diventeranno statue, ma cadaveri[19]. È dai morti che s’impara cosa significa morire. Bisogna vederne tanti, troppi, riempirsene gli occhi, le narici, introiettarli, quasi mangiarli, finché a poco a poco rinasce il salutare sentimento dell’orrore, della ripulsa verso il cadavere che si diventerà, e s’impara a fuggire dall’immagine della propria morte verso il rifugio della pace, con la sua promessa modesta, ingloriosa, fatta quasi sottovoce: «se smetti di uccidere, per adesso non morirai»[20].
Ma per questo, per ricondurre verso la pace, la guerra ha bisogno di tempo. Finché non ne è passato abbastanza, finché non abbastanza cadaveri sono scorsi giù nella clessidra, il vantaggio è tutto dei meno mortali, degli uccisori più entusiasti, dei morituri più suicidi. Non c’è che fare: il kamikaze è il guerriero perfetto. Tanto che per fargli paura non occorre nulla di meno che una morte iperbolica, ipertrofica, assurdamente totale, oscenamente assoluta, trionfante e priapesca: il fungo di Hiroshima. Ma se fosse il kamikaze ad avere la Bomba? Non è questo l’incubo che incontriamo ogni notte?
La Bomba paralizza la guerra perché, e finché, anche la semplice eventualità del suo uso basta a ricordarci di essere mortali, anche senza bisogno di vedere il nostro cadavere nei cadaveri degli altri. Non possiamo immaginarci trionfanti dopo la guerra, perché non c’è dopo. Non possiamo immaginarci vittoriosi sui nemici uccisi, perché non c’è vittoria, non ci sono vincitori, non c’è sopravvivenza[21]. Almeno nel luogo d’impatto della Bomba, e per un ampio spazio intorno, non ci sarebbero neppure cadaveri da vedere, sarebbero vaporizzati, e in una guerra nucleare fatta sul serio, del resto, non ci sarebbe più nessuno che possa andare a contare i cadaveri. Ma che accadrebbe, se ottenessimo il perverso «successo» di restituire alla morte atomica la rappresentazione di un dopo? Attenuandola, riportandola alla misura del tecnicamente controllabile, restituendole l’idea di un limite, di un confine tra morti e non morti: non la Bomba, ma una piccola graziosa Bombetta che non fa tanto rumore e tanto danno, che elimina «chirurgicamente» i cattivi insieme ad una quantità accettabile di buoni e consente di pensare alla guerra nucleare come una guerra «normale», che finisce con le statue ai caduti e le medaglie ai generali, proprio come si deve. Esistono già, in tante versioni diverse, queste bombette atomiche «intelligenti», magari le bombe a neutroni, che ammazzano le persone senza distruggere le cose, realizzando un’apoteosi della Merce che non dovrebbe dispiacere ai tanti sacerdoti del Dio Mercato. E questo sarebbe lo scacciamosche perfetto che consente al gigante incatenato di sbarazzarsi una volta per tutte dei nani molesti e ringhiosi che lo mordicchiano. Aspettiamoci che venga usato, questo scacciamosche: avverrà nell’istante preciso in cui l’idea consolante della Bombetta buona riuscirà ad esorcizzare il fantasma della Morte totale e ci avrà convinti di nuovo che possiamo uccidere senza morire, che dobbiamo uccidere per non morire.
Ma la Bombetta esiste – almeno come idea – anche in una comoda versione mignon per nani: la bomba «sporca» di cui tutti da qualche anno aspettiamo l’esplosione in una qualsiasi delle nostre grandi città. Un bel botto, e poi forse diecimila, ventimila, centomila morti: non tantissimi, in passato si è fatto assai di meglio con fucili e baionette, però il morso farebbe davvero male, il gigante griderebbe proprio forte... E dopo? Scapperebbe? Si arrenderebbe? Si convertirebbe? Pagherebbe il tributo al nuovo califfo trionfante sotto verdi bandiere? Speriamo che non siano in troppi a pensarlo, perché non andrebbe così. Il gigante darebbe di piglio allo scacciamosche, e puff! Via un paio di «Stati canaglia», via un po’ di «aree tribali», via qualche governicchio doppiogiochista. La faccenda andrebbe avanti per un certo tempo, tra ritorsioni e controritorsioni, ma probabilmente non ci vorrebbe molto per far cambiare idea a tutti i protettori, finanziatori, ospiti più o meno conniventi di nani feroci. E allora, tra molte cerimonie, molti discorsi, moltissime statue, medaglie e bandiere, proclameremmo di avere vinto l’ultima guerra, la guerra che pone fine a tutte le guerre, la guerra al Terrore. Cerchiamo di non distogliere lo sguardo da questo scenario: è di gran lunga il più probabile. E non il peggiore.
Finché i nuovi kamikaze sono nani, il pericolo è grave ma limitato: si può sperare di non rischiare la distruzione totale – e questa stessa speranza è un rischio non da poco, dovremmo saperlo –; ma i nani potrebbero crescere di statura, e la Bombetta di dimensioni. La Bomba conviene averla, lo sappiamo già; è un calcolo del tutto razionale. Finché non la si usa, finché si pensa di non poterla usare. Finché la si vuole proprio per non usarla, come tutte le potenze nucleari finora. Ma se nascessero potenze nucleari di nuovo tipo, capaci di volere la Bomba per usarla, e non perché pensano di non poter essere distrutte, ma perché sono del tutto indifferenti alla propria distruzione, o addirittura la cercano? Una cosa del genere sembrava tanto inverosimile, sino a poco tempo fa, che nessuno ci aveva seriamente pensato. Ma ora la cosa è diventata tragicamente pensabile, è diventata il nuovo volto del Terrore atomico. Perché l’Iran non dovrebbe avere la Bomba, ora che ce l’ha persino il Pakistan? Non c’è purtroppo nessuna buona ragione da opporre. C’è solo una ragione decisamente «cattiva»: che cioè questa prospettiva ci fa più paura, perché l’attuale regime iraniano è il solo al mondo da cui si possa temere la riproposizione della strategia del suicidio sino al punto di sussumervi la guerra nucleare stessa. Perché non è detto che l’obiettivo di una guerra debba essere per forza la vittoria. La vittoria intesa come sopravvivenza del vincitore al vinto. Se per sconfiggere la guerra bisogna rovesciare la logica della sopravvivenza[22], il pericolo massimo potrebbe però essere quello di abbandonarla del tutto: la guerra fatta per non sopravvivere, perché la vittoria non è mediante la morte ma nella morte, perché la vittoria è il martirio, perché solo morendo si sopravvive davvero. Se ci sono religioni della guerra, l’eventualità più spaventevole e che esse possano sovrapporsi alle religioni del lamento[23], fino a fare del lutto, del rito funebre l’autentica celebrazione della vittoria. Se nulla è più glorioso che morire santamente nella guerra per Dio, se non c’è vita più autentica che l’eternità nel paradiso dei martiri, se il pianto funebre diventa persino elemento indispensabile della beatitudine nell’al di là[24], perché non cercare proprio nella Bomba il martirio perfetto? Morire tutti, un popolo intero, dopo aver distrutto Israele. Che l’attuale presidente iraniano pensi qualcosa del genere è purtroppo probabile, se dobbiamo credere che pensi quel che dice; e ci sarebbe del resto molto metodo in questa follia: avrebbe anzi una sua perfezione logica, dati i presupposti. E c’è un altro presidente che dice, e dunque probabilmente pensa, che per impedire questo potrebbe scoppiare la Terza guerra mondiale, dando all’altro un ottimo, probabilmente decisivo argomento per volere la Bomba, anche a costo di doverla poi usare davvero. Nulla di peggio è possibile: demoni postnucleari che fanno politica con una stupidità tutta umana. Dovremmo deciderci a capire in fretta che se continua così non esiste alcun dubbio su come andrà a finire.
Non resta che sperare che nella nostra età demonica siano sopravvissute altre qualità umane, a parte la stupidità. Non resta che sperare che sia rimasto abbastanza, nel post-uomo d’oggi, di quella che era l’infinita complessità dell’umano. Sperare perciò nell’incoerenza di tutte le fedi. Nella pluralità nascosta dietro gli unanimismi obbligatori. Nell’amore delle donne per la vita, nell’amore delle donne per l’amore, anche quando si deve indossare il chador. Nel buon senso un po’ cinico che i preti hanno sempre saputo opporre ai santi. Nel fatto che tutte le folle prima o poi si stancano di acclamare. Nell’inerzia che la pesante complessità della vita oppone alla semplicità pura, rigorosa, risolutiva del morire. Negli sprazzi di dialogo che ogni tanto spezzano la continuità del delirio. Nel fatto che governi e popoli tendono a mantenere un fondo di ragionevolezza anche quando l’ideologia ufficiale e il depositario ufficiale del potere sono puri e duri e suicidi. E nel buon senso degli elettori, là dove col voto si può scegliere davvero. Purché non sia già tardi.
Ma certo, ora che persino la pace sotto la Bomba scricchiola, è di vitale urgenza fare ancora un passo oltre in quella tabuizzazione della guerra che abbiamo costruito inopinatamente dopo millenni che l’adoravamo: ancora debole, cinica, ipocrita, ma salutare, rivoluzionaria, potenzialmente redentrice. Tornare ad avere paura, non sentirci più sicuri, potrebbe essere un buon segno: potrebbe darci la spinta per procedere dalla guerra che non può essere detta alla guerra che, per non essere fatta, non deve più neppure essere pensata. Non è probabile, ma chissà…


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[*] Il testo costituisce la versione definitiva del saggio preliminarmente pubblicato nel periodico elettronico della Società italiana di Filosofia politica (www.sifp.it).
[1] Cfr. C. SCHMITT, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, tr. e postfazione di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, sp. pp. 335-367. Schmitt nota comunque che i nuovi mezzi di distruzione di massa modificano la natura della guerra: cfr. ivi, pp. 410-431.
[2] Il punto di riferimento classico sul tema della scomparsa dell’uomo dopo Auschwitz ed Hiroshima è G. ANDERS, L’uomo è antiquato, a cura di C. Preve, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2003. Anders però non vede l’aspetto «positivo» di tale scomparsa, e cioè che potrebbe essere il primo atroce gradino di un processo di autosuperamento. Si tratta in ogni caso di un punto di non ritorno, dopo il quale non resta che l’annientamento o la nascita di una nuova specie. Certo è ormai diventata risibile la prospettazione di una «natura umana», specie quando si nutre la pia intenzione di invocare tale «natura» come argomento a favore della virtù e contro il vizio, come accade sin troppo spesso di questi tempi.
[3] Pregherei di prendere tale affermazione alla lettera e di non considerarla un paradosso. Si tratta precisamente di una struttura turistica, molto ben amministrata, la cui dimensione «politica» è parte essenziale dell’offerta turistica medesima: il medioevo per turisti, le libertà comunali per turisti, la città-Stato per turisti. Non è l’unico caso al mondo, e forse varrebbe la pena di elaborare una categoria giuridica apposita. “Turistizzazione” della sovranità?
[4] Il concetto d’Impero sta ritornando prepotentemente nel pensiero politico contemporaneo. Per un testo che ha avuto grande fortuna, cfr. M. HARDT, A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 20022, testo la cui originalità è inficiata peraltro dall’applicazione di categorie marxiste-leniniste del tutto inadeguate al problema.
[5] Cfr. E. BRADFORD, The Great Siege. Malta 1565, Penguin Books, London 1964 (rist.).
[6] Ragusa (odierna Dubrovnik) perde la propria indipendenza nel 1808; la sua grande rivale e antica dominatrice Venezia nel 1797.
[7] Rinvio al mio saggio Sovranità, morte e politica, in AA. VV., Diritto, giustizia e logiche del dominio, a cura di A. De Simone, Morlacchi, Perugia 2007, sp. pp. 218-224.
[8] Cfr. il mio saggio La guerra impossibile. Dalla deterrenza alla pace?, in AA. VV., Il nuovo volto di Ares, o il simbolico nella guerra post moderna. Profili di simbolica politico-giuridica, a cura di C. Bonvecchio, Cedam, Padova 1999, sp. pp. 58-59.
[9] Cfr. il mio Sovranità, morte e politica, cit., pp. 220-222.
[10] La simbolizzazione della guerra nel mondo contemporaneo, nel contesto della «guerra fredda», è colta genialmente da Canetti in conclusione del suo capolavoro. Cfr. E. CANETTI, Massa e potere, tr. di F. Jesi, Adelphi, Milano 200613, pp. 566-567.
[11] Sul radicamento delle «categorie per la guerra» in tutta la storia del pensiero occidentale, cfr. I. MANCINI, Il pensiero negativo e la nuova destra, Mondadori, Milano 1983, pp. 115-173.
[12] L’unico caso sembrerebbe essere la Corea del Nord, ma ogni scetticismo in proposito è giustificato, e si tratta comunque del caso assai particolare di un ex protettorato (cinese) che minaccia sfracelli da superpotenza al solo scopo di ottenere una nuova condizione più comoda di protettorato (indirettamente americano, tramite Corea del Sud e Giappone), garantendo ad un patetico tirannello e alla sua corte la permanenza al potere o, in prospettiva, un confortevole esilio.
[13] Cfr. K. F. ALLAM, Lettera a un kamikaze, Rizzoli, Milano 2004.
[14] Sul successo «mimetico» della democrazia occidentale, americana in specie, cfr. R. GIRARD, Quando queste cose cominceranno. Conversazioni con Michel Treguer, a cura di A. Beretta Anguissola, Bulzoni, Roma 2005, pp. 117-122.
[15] Cfr. TH. HOBBES, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi con la collaborazione di A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 2000, cap. XIII, pp. 99-104.
[16] È accaduto per pochi anni che vi fosse al mondo un soggetto politico «immortale», nel breve periodo in cui gli USA furono gli unici a possedere l’arma nucleare. Non averne immediatamente approfittato è probabilmente il loro massimo titolo di gloria storico. Ma ci si può chiedere cosa sarebbe accaduto durante la guerra di Corea, se anche l’URSS nel frattempo non avesse fabbricato la Bomba…
[17] Cfr. R. ESCOBAR, Il silenzio dei persecutori, ovvero il Coraggio di Shahrazàd, Il Mulino, Bologna 2001, sp. pp. 91-96.
[18] Cfr. E. CANETTI, Massa e potere, cit., pp. 85-87; cfr. anche il mio La stanchezza di Marte. Prospettive sulla guerra globale, in “La società degli individui”, n. 1, 2005, pp. 20-21.
[19] Cfr. ivi, pp. 19-20.
[20] Canetti nota come la «massa aizzata» possa esaurire di colpo la sua furia omicida e disgregarsi velocemente di fronte al nemico appena ucciso, perché il suo cadavere, la sua testa recisa, riportano ciascuno alla coscienza della propria mortalità. Cfr. E. CANETTI, Massa e potere, cit., pp. 61-62.
[21] Sulla «sopravvivenza», cfr. ivi, sp. pp. 273-275.
[22] Cfr. ivi, sp. pp. 569-571.
[23] Su questi due aspetti dell’Islam – che possono benissimo allignare in altri contesti – cfr. ivi, pp. 171-186.
[24] Come accade appunto nell’Islam sciita: cfr. ivi, pp. 178-179.
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