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Scienza e lavoro per la comunità.
Le utopie agli inizi dell’età moderna

Galliano Crinella

Nella lunga stagione medioevale l’utopia e l’esigenza di rinnovamento assumono forme religiose e si confondono con l’attesa del Regno dei Cieli. Solo con l’inizio del sec. XVI nasce l’utopia moderna. Nel suo senso più proprio, l’utopia si realizza con il mondo moderno. Ma con esso muta radicalmente la prospettiva. L’ideale utopico non dipende più dalla sottomissione ad un piano trascendente, esso deve essere costruito con le sole forze umane[1]. La situazione nuova è favorita dal clima culturale e civile che si costruisce con il Rinascimento. Le scoperte geografiche oltrepassano gli orizzonti tradizionali, ampliandoli a dismisura, le ricerche scientifiche rafforzano il potere dell’uomo sulla natura e le cose, le nascenti strutture dell’economia borghese stimolano la concorrenza, provocano la crisi delle oligarchie dirigenti, realizzano un vasto ricambio di ceti e introducono nuove forme e costumi di vita. La ragione dell’uomo, in sé misura di armonia e di sviluppo, diventa ora la condizione e la regola per ogni aspetto della vita e del lavoro.
Così nel periodo stesso in cui nasce il pensiero scientifico, le utopie esprimono la volontà di indicare all’uomo come poter costruire il proprio avvenire. Il carattere prevalente nella letteratura utopistica è la invenzione di nuovi sistemi politici e sociali e il progresso delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche è considerato fattore determinante per il miglioramento della condizione umana. È necessario tuttavia verificare in che misura la scienza e la tecnica possano concorrere alla realizzazione del progetto utopico. Ed anche cogliere le modalità attraverso le quali il progetto utopico prefigura la società nuova, e quale relazione vi sia in essa tra evoluzione della scienza e della tecnica ed evoluzione della società.
È evidente che il sapere e la ricerca scientifica rientrino a pieno titolo nell’orizzonte del lavoro dell’uomo. Nella produzione di valori d’uso e nell’appropriazione di elementi naturali per la soddisfazione dei propri bisogni l’uomo utilizza dei mezzi che sono dati dalla propria forza-lavoro e dalla capacità di agire, ma non meno importanti, in vista del suo operare, appaiono le sue risorse intellettuali, il patrimonio di conoscenze e di invenzioni scientifiche e tecniche che ha saputo costruire. È nota, a questo proposito, l’affermazione marxiana: «Ciò che distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera».
L’attività conoscitiva, si diceva, non può non essere considerata lavoro. Il lavoro intellettuale è, a torto, ritenuto da alcuni un lavoro di dubbia utilità, lavoro «improduttivo», dal momento che il pensiero, per sua natura, non si materializza mai in oggetti. Ed è un lavoro che ha assunto sempre più una funzione-guida nel mantenere intatto il processo vitale e nel garantire la sua rigenerazione.
Il legame tra scienza lavoro e comunità nelle costruzioni utopistiche assume un significato particolare nella realtà nuova, agli inizi dell’età moderna, allorché un rigoglio di pienezza vitale pervade tutte le forme del vivere e all’attesa millenaria della salvezza si affianca l’intenzione di promuovere la redenzione dell’uomo tramite se stesso. Insieme con ciò si va affermando una concezione del lavoro come fattore di civiltà e di cultura. L’attività dell’uomo è condizionata dal fatto che egli vive in società e l’azione non può essere nemmeno immaginata fuori di essa. «Un uomo che lavorasse per costruirsi un mondo abitato solo da lui – ha scritto H. Arendt – avrebbe perduto la sua qualità specificamente umana. L’azione è l’esclusiva prerogativa dell’uomo; né una bestia né un Dio ne sono capaci, ed essa solo dipende interamente dalla costante presentazione degli altri»[2]. L’Utopia di Tommaso Moro, nel 1516, è la prima a render conto della nuova mentalità. I suoi abitanti sono attenti allo sviluppo delle scienze naturali e ritengono che Dio stesso incoraggi la conoscenza del mondo per mezzo della ragione umana. Vi si legge:

«Scrutando con l’aiuto delle scienze i segreti della natura, par loro di ingraziarsi sommamente l’autore e artefice di essa, il quale, facendo, a parer loro, questa macchina del mondo perché la vedesse l’uomo, solo essere capace di sì gran cosa, l’ha esposta all’osservazione di lui; ragion per cui ha più senso uno che sia contemplatore pieno di curiosità e di zelo e ammiratore dell’opera sua, anziché chi, come una bestia senza intelligenza, dinanzi ad uno spettacolo così grandioso e mirabile resti senza commuoversi, come uno stupido, e non se ne occupi»[3].

In questo brano è sottolineata la nuova dignità riconosciuta alla ricerca scientifica, ma allo stesso tempo si evince che l’obiettivo di Moro non è costituito dall’esaltazione di un sapere utilitaristico. La scienza finisce con il rivelare Dio nelle sue opere e permette di conoscere meglio il creato e quindi di celebrare meglio il Creatore. Non contraddice l’insegnamento religioso, anzi si accorda bene con esso, confermando con le prove fornite dall’osservazione ciò che è stato evidenziato dalla Rivelazione. L’evoluzione scientifica e tecnica non è ancora finalizzata al lavoro e al miglioramento delle condizioni di vita: nessuna macchina allevia ancora lo sforzo umano, le foreste vengono disboscate a mano e l’atavico bue trascina l’aratro. Gli abitanti di Utopia lavorano solo sei ore al giorno per far sì che ci sia occupazione per tutti e che per tutti rimanga del tempo da dedicare alla contemplazione.
Un’altra significativa espressione dell’utopia in età moderna è la Civitas Solis di Tommaso Campanella, pubblicata a Francoforte nel 1623, giusto un secolo dopo l’Utopia di Moro. Qui alla scienza e alla tecnica è riservato un altro ruolo. Fin dalla prima infanzia l’uomo deve darsi alla conoscenza. Le mura della città sono ornate da figure matematiche, carte geografiche, rappresentazioni di piante o di minerali. Lo stesso insegnamento di Stato costituisce un sistema enciclopedico di educazione che forma, al massimo grado, i suoi dirigenti. Il capo dello Stato è allo stesso tempo filosofo, scienziato e gran sacerdote, perché possa muoversi con competenza ed abilità in tutti i settori del sapere. Gli abitanti della città del sole, i Solari, sono anche tecnici esperti di astronomia, metereologia e agricoltura, sono in grado di costruire navi a propulsione meccanica, aratri a vela e macchine volanti.
Alla scienza è riconosciuto dunque un ruolo fondamentale nella vita della comunità, ma essa non contribuisce ad elevare il tenore di vita. L’atteggiamento dei Solari di fronte alle scienze è fatto di riverente venerazione, anche se queste appaiono venate di profetismo e talvolta si confondono con la magia e l’astrologia. Essi non fanno nulla che non sia scientificamente provato e tutta la loro educazione è volta a portare innanzi coloro che eccellono fino a attribuire il supremo potere all’uomo ritenuto più sapiente. Norberto Bobbio ha posto l’accento sulla «forza moralizzatrice del sapere», in contrapposizione con quella morale della potenza che regolava i rapporti tra capo e sudditi nella realtà[4]. Nell’educazione dei Solari non c’è soltanto istruzione scientifica, ma anche addestramento sportivo e apprendimento dei mestieri. C’è poi l’accentuazione dell’universalità del lavoro, una delle idee più moderne dell’utopia di Campanella, da cui derivano per naturale conseguenza i princìpi dell’uguaglianza, della equa distribuzione, dell’adeguazione del reddito al bisogno, del lavoro manuale come dovere sociale, motivi per cui il lavoro di una giornata viene ridotto a solo quattro ore.
Nella comunità dei Solari è abolita la proprietà privata e la schiavitù del lavoro. Nessuno può sottrarsi all’obbligo del lavoro manuale e all’esercizio dei lavori più umili. Se confrontata con una precisa situazione storica, quella della Napoli oziosa e parassitaria del tempo, la città del sole acquista tutta la sua efficacia morale e sociale, il segno profetico e il valore di ideale regolativo.
La scienza in Tommaso Campanella ha prima di tutto una natura metafisica; la conoscenza è sacra perché viene da Dio e a Lui riconduce. È il tentativo di conciliare la religione con le prerogative e le ragioni del sapere, e allora la scienza è vista come una modalità dell’essere e, come tale, è attributo di Dio. Praticare la scienza vuol dire avvicinarsi a Lui. Così le scoperte tecniche sono esaltate e magnificate, ma in realtà non hanno un vero ruolo nell’organizzazione del lavoro che è sempre guidata da istanze e motivazioni morali e spirituali. È l’acquisizione della conoscenza, più che la sua utilizzazione pratica, ciò che importa.
Facciamo intervenire a questo punto una considerazione di Hannah Arendt, autorevole interprete della cultura filosofica del nostro secolo. Secondo la Arendt, che fu allieva di Husserl e Heidegger, lo sviluppo della scienza moderna non deve essere riportato, come vorrebbe un ricorrente pregiudizio storiografico, ad un desiderio pragmatico di migliorare le condizioni della vita umana sulla terra. La scienza e la tecnologia moderne trovano la loro origine nella ricerca e nel desiderio di conoscenza, dunque non sono motivate fondamentalmente da istanze pratiche, ma solo da urgenze conoscitive[5]. È quanto si deve rilevare nella concezione che Campanella esibisce della scienza, ma che sembra valere per l’intero contesto utopico in età moderna.
Proseguendo nella nostra sintetica indagine, incontriamo un autore e un’utopia poco conosciuti eppure importanti. L’autore è il pastore luterano, viaggiatore, riformatore sociale e predicatore Johann Valentin Andreae e l’utopia, scritta nel 1619, ha per titolo Christianopolis. Levis Mumford[6] ha scritto che il pensiero di Andreae merita di essere valutato con interesse, essendo una delle espressioni utopiche più creative del suo tempo, ancor prima di quelle di Bacone e Campanella, e che la sua utopia, Christianapolis, può essere paragonata per originalità e valore della Repubblica platonica. In essa si trova il modello di una «Societas christiana» in cui è importante l’apprendimento delle virtù cristiane e, allo stesso tempo, ha grande rilievo l’insegnamento intensivo delle scienze e della matematica. I numerosi laboratori scientifici non sono riservati alle élites degli scienziati, ma sono aperti agli studenti. Anche qui la scienza deve coniugarsi con una visione religiosa della vita e del mondo, ma Andreae sottolinea, a differenza di Campanella, la possibile finalità pratica di ricerche che devono essere «utili alla scienza umana e al mantenimento della salute». C’è una descrizione che Andreae fa della figura del matematico che è bene ricordare:

«Il matematico è un uomo di sorprendente perspicacia, che applica tutti gli strumenti di tutte le arti e le invenzioni dell’uomo; si occupa del numero, della misura e del peso; conosce la relazione che esiste tra cielo e terra; vi è qui un campo, grande quanto la natura, che dev’essere arato dall’industria umana: perché ogni ramo della matematica richiede numerosi artisti che lavorino con grande solerzia, ma tutti devono mirare a questo scopo, contemplare l’unità di Cristo tra tante mirabili invenzioni che riguardano il numerare, il misurare e il pesare, ed osservare la saggia architettura di Dio nella fabbrica di questo universo. D’ora in poi, gli studiosi di meccanica ci aiuteranno con loro abilità e la loro acutezza; essi non sono così ignobili e sordidi come pretendono i sofisti, ma piuttosto rivelano l’uso e la pratica delle arti, e perciò sono stati poco stimati in considerazione della loro scarsa loquacità. Ma è proprio di un vero matematico ornarli ed arricchirli con le regole dell’arte, per mezzo delle quali si ridurranno le fatiche degli uomini e il privilegio dell’operosità e la forza e il dominio della ragione saranno più evidenti»[7].

In Andreae la scienza, come si evince da questo testo, è già funzionale, ma ancora senza piena incidenza sul regime politico e sulla qualità della vita.
Assai interessante è l’organizzazione delle attività produttive nella realtà di Christianapolis. La comunità è suddivisa in tre parti. Una è dedicata all’agricoltura e all’allevamento degli animali; in un altro quartiere vi sono mulini, forni e macelli, e poi cartiere, segherie, officine; nel terzo quartiere sono collocate le industrie metalmeccaniche e quelle per la lavorazione dei mattoni, delle terrecotte e del vetro. È interessante notare che nella pianificazione di Christianapolis sono anticipati i migliori criteri che saranno applicati nei secoli successivi. Nella suddivisione della città in zone, nel raggruppamento delle industrie simili, le città del novecento sembrano avvicinarsi molto alla situazione di Christianapolis.
Una forma utopica successiva, questa forse ancor più importante, è la Nuova Atlantide di Francesco Bacone, un’operetta incompiuta pubblicata postuma nel 1627, l’anno successivo alla morte dello studioso inglese, anche se taluni documenti attesterebbero essere stata scritta prima del 1617. Vi è descritta un’utopia particolare, il sogno di una società ideale, religiosa e scientifica. Riprendendo quella parola, Atlantide, con cui Platone nei due dialoghi Timeo e Crizia aveva favoleggiato di un’isola immensa che si estendeva al di là delle colonne d’Ercole, lo stretto di Gibilterra, abitata da un popolo che aveva raggiunto un alto grado di civiltà ed una grande potenza guerriera, lo scritto narra della scoperta da parte di alcuni naufraghi di una nuova terra, la Nuova Atlantide, situata nel Nord dell’Oceano Pacifico.
Gli abitanti della Nuova Atlantide erano cristiani, ed avevano costruito nell’isola una società perfetta, rimasta tuttavia del tutto sconosciuta nel resto del mondo. La dottrina cristiana era stata portata loro nei tempi antichi, ed era un cristianesimo evangelico che attribuiva grande importanza all’amore fraterno. La conoscenza scientifica aveva raggiunto uno stadio molto avanzato. Nel loro grande collegio, la Casa di Salomone, un ordine di sacerdoti-scienziati svolgeva ricerche in tutte le arti e le scienze, i cui risultati sapevano come impiegare a vantaggio degli uomini.
Nella Nuova Atlantide si scopre un paesaggio mentale nuovo, in cui la scienza sembra poter costituire la grazia nella concezione del destino umano. Le finalità della Casa di Salomone, una specie di Accademia delle Scienze che è nel cuore dell’utopia baconiana, sono chiaramente definite:

«Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo»[8].

Negli anni che videro l’affermarsi della razionalizzazione e della statualizzazione della società europea, la sua crescita economica, un grande progresso industriale e tecnologico, il consolidarsi delle organizzazioni scientifiche e il diffondersi degli istituti scientifici, dei laboratori e dei luoghi per la ricerca, nel momento in cui si verificò l’incontro tra scienza, tecnica e industria e si diffuse la consapevolezza che l’attività scientifica è di importanza decisiva per i popoli e per il loro progresso, la Casa di Salomone apparve come una grande immagine profetica, una sorta di grandiosa, quasi imprevedibile anticipazione.
Sarebbe assai utile un confronto, impossibile da fare in questa sede, tra il pensiero scientifico di Bacone, i temi presenti nella Nuova Atlantide e il movimento dei Rosa-Croce, la tradizione ermetica, la magia e la Gabbala[9]. Bacone descrive un universo scientifico che ha raggiunto grandi mete. I Bensalemiti (gli abitanti di Bensalem) sono in grado di analizzare la reazione dei corpi immersi in diversi ambienti, creano animali e vegetali sconosciuti, posseggono altoparlanti e macchine capaci di riprodurre i suoni, dispongono di navi volanti e di battelli sottomarini, conoscono le celle frigorifere, praticano l’anatomia comparata e la meccanica. Ma questo sapere prodigioso, puramente sperimentale, non è, come voleva Andreae, a disposizione di tutti ma è riservato ad un piccolo gruppo di scienziati. Il popolo non vi partecipa e lo stesso potere politico ha su di esso un potere di controllo assai limitato.
Per Bacone, il miglioramento delle condizioni di vita – in questo il suo pensiero è estremamente moderno – dipende dallo sviluppo delle scienze e della tecnica. Così, per la prima volta con lui nella vita di utopia si oltrepassa lo stadio della semplice economia di sussistenza. La scienza è amministrata da una minoranza competente che ne dispensa i benefici per la felicità del popolo, ma senza tollerarne l’ingerenza. Ciò a cui tende Bacone non è solo un obiettivo di natura economica, né è rivolto, come sarà poi per gli antiutopisti, a modificare la società tramite la scienza, ma solo a fare della scienza uno strumento a disposizione dell’uomo. Bacone è il primo ad intravedere che la scienza può far progredire l’uomo verso la realizzazione del sogno utopico. Uno studioso francese, Raymond Ruyer, ha affermato che Bacone non preannuncia tanto una società trasformata dalla scienza, quanto piuttosto una società in cui la scienza abbia il primo posto.
Bacone è uno dei grandi costruttori dell’immagine moderna della scienza. Ma il suo discorso riguarda, oltre i metodi, anche i valori e i fini del sapere scientifico, i suoi rapporti con le altre forme della cultura. Il sapere scientifico deve essere coltivato con spirito di collaborazione e di carità, perché la scienza non è un baluardo per uomini orgogliosi né un giaciglio per spiriti irrequieti, ma un’impresa che riguarda la società e la sua graduale riforma. Nonostante queste convinzioni Bacone non crede al progresso continuo ed illimitato della civiltà dell’uomo. Illustrando il tema delle invenzioni meccaniche, fece ricorso al mito di Dedalo per sostenere che esse possono sì migliorare l’esistenza umana, ma possono anche divenire strumenti di vizio e di morte. La natura della tecnica è ben rappresentata dall’immagine del labirinto. Non solo perché il filo di un labirinto guida le invenzioni umane, ma soprattutto perché una stessa persona ha costruito il labirinto e mostrato la necessità del filo.
La tecnica è ambigua per essenza: produce il male ed offre insieme rimedi al male. È bene ricordare dunque che Bacone non credette mai che la scienza e la tecnica, in quanto tali, rappresentassero la salvezza. La restaurazione del potere dell’uomo sulla natura si realizza attraverso la scienza e la tecnologia ha valore, a suo giudizio, solo se posta al servizio dell’ideale della fratellanza e della carità. La scienza rappresenta uno degli strumenti migliori per realizzare il regno di Dio sulla terra, che è anche il regno dell’uomo sulla natura creata da Dio appositamente per lui. E la stessa fede, nella scienza, può essere intesa come verifica della stessa fede religiosa. Obiettivi possibili se si fanno cessare le discordie religiose e politiche che dividono l’umanità in sètte e ne impediscono la pacificazione.
Nella Nuova Atlantide si avverte la consapevolezza che gli uomini, servendosi della tecnica e della collaborazione tra i ricercatori, potranno disporre di un grande potere, e che l’orizzonte delle imprese umane non è più una città o una singola nazione ma l’intero mondo. È chiaro anche il senso dell’impresa scientifica come impresa collettiva che investe l’intera società e che necessita di specifiche istituzioni. Con profetica intuizione, Bacone si pose anche il problema dei rapporti tra scienza e politica, risolvendolo nel senso di una netta e forte separazione.
Dobbiamo osservare così che l’utopia, nelle espressioni che abbiamo ricordato, riserva attenzioni particolari alla scienza, ma in questo richiamo alla scienza permane ancora il richiamo alla trascendenza. La scienza e la tecnica sono subordinate a più alti valori. La scienza non elimina la fede, cerca anzi di porsi in una direzione convergente.
Il Seicento e il Settecento non apporteranno elementi sostanzialmente differenti rispetto all’orientamento indicato. Fino alla fine del secolo dei lumi scienza e tecnica continuano a proporre all’uomo una migliore comprensione dell’organizzazione del mondo, piuttosto che sottolineare la sua capacità di agire sul mondo. La scienza istruisce, illumina, dissolve le nebbie della superstizione, ma non produce forti trasformazioni sull’ambiente e sul modo di vivere.
La prospettiva muta, e in modo radicale, agli inizi dell’Ottocento in seguito alla rivoluzione industriale e allo sviluppo delle macchine. Queste ultime inducono radicali cambiamenti nei sistemi di produzione e, conseguentemente, nelle condizioni di vita. La scienza si avvia a non essere più spiegazione del mondo, strumento di investigazione metafisica, e a diventare piuttosto scienza applicata, al servizio del progresso materiale e sociale. L’individuo, liberato, si innalza e si illumina. Siamo all’ottimismo e al prometeismo antropologico al quale l’antiutopia, o controutopia, ormai prossima, conferirà una brutale e radicale smentita: la tecnica disumanizza e riduce gli uomini a semplici ingranaggi di una gigantesca macchinazione.
Secondo la ben nota teoria della controfinalità della ragione o della eterogenesi dei fini, il progetto scientifico, nato per liberare l’uomo, ha finito per negarlo, sostituendolo con i robot. Ha sostituito la morale con la tecnica, costruendo le condizioni per una sorta di manipolazione biologica e psicologica. La scienza sembra perseguire una nuova finalità: non più, come in Moro, Bacone e Campanella, strumento di conoscenza quanto strumento di potere. La stessa Arendt, nelle ricerche contenute in Vita activa, ha mostrato come uno dei caratteri più significativi dell’età moderna, che nella sua valutazione è fatta coincidere con l’imporsi dei processi di industrializzazione, è dato dal rovesciamento del rapporto gerarchico tra vita contemplativa e vita activa, con il prevalere di quest’ultima. E l’esperienza fondamentale che è alla radice di tale rovesciamento sta in una nuova considerazione: la sete di conoscenza si placa, nell’uomo, solo dopo aver riposto una piena fiducia nel proprio fare. Non che la conoscenza e la verità perdessero valore, ma si può pervenire ad esse attraverso l’azione, non la contemplazione. Si impone così l’homo faber, l’uomo costruttore e fabbricatore.


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[1] Anche in virtù dello sviluppo della scienza e della tecnica si crea per l’uomo una situazione nuova che è stata definita «il disincanto del mondo». In questo contesto nel mondo nuovo è grande lo spazio per l’elaborazione utopica. Agli aspetti politici dell’utopia rinascimentale è dedicato il volume di L. FIRPO, Lo Stato ideale della Controriforma, Laterza, Bari 1957.
[2] H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 19913, pp. 29-30.
[3] T. MORO, Utopia, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 95-96.
[4] N. BOBBIO, Prefazione a T. MORO, La Città del Sole, Einaudi, Torino 1941, p. 45.
[5] H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, cit., pp. 183 ss.
[6] Cfr. L. MUMFORD, Storia dell’utopia, Calderini, Bologna 1969, pp. 54-76; la prima edizione dell’opera, in lingua inglese, risale al 1922.
[7] Il brano, tratto da Christianapolis, è riportato in F.A. YATES, L’illuminismo dei Rosa-Croce. Uno stile di pensiero nell’Europa del Seicento, Einaudi, Torino 1976, p. 183.
[8] F. BACONE, La Nuova Atlantide, a cura di P. Rossi, Tea, Milano 1991, p. 81.
[9]Ai fini di questa ricerca è utile la consultazione del citato volume di F. A. YATES, L’illuminismo dei Rosa Croce, cit., e di P. Rossi, Francesco Bacone. Dall’utopia alla scienza, Laterza, Bari 1957; II ed., Torino 1974.
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