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Rapporto AlmaLaurea: una riflessione su obiettivi e implicazioni della riforma universitaria in Italia

Andrea Cammelli

La riforma degli ordinamenti didattici, nata nel contesto della creazione dello spazio europeo dell’istruzione superiore – processo avviato a Bologna nel 1999 – ha costretto l’Università italiana ad una vera e propria rivoluzione culturale. Una rivoluzione ad oggi ancora incompiuta e poco conosciuta, che però ha già prodotto i primi risultati misurabili sulla base di evidenze empiriche. Per la prima volta, a distanza di sei anni dall’avvio, è disponibile una base documentale attendibile e seria dalla quale emergono importanti implicazioni che il dibattito attuale spesso ignora, privilegiando lo scontro ideologico fine a se stesso. Prediche inutili, per dirla con Luigi Einaudi, che danno l’alibi di un mancato esercizio del potere come responsabilità. Perché di questo cambiamento, che almeno nei principi ispiratori ribalta l’ottica di un mondo universitario costruito sulla cattedra piuttosto che a partire dalle aule, ancora si continua a parlare sulla base di molti luoghi comuni. La riflessione qui proposta, sintesi di un più ampio lavoro di ricerca che da anni AlmaLaurea conduce, intende offrire alcuni spunti per un libero confronto a partire dalla realtà dei numeri e dal contesto più in generale, in cui si trova, su questi temi, il nostro Paese: scarsità di laureati, abbandoni degli studi universitari, difficoltà da parte del mondo produttivo a valorizzare i giovani meglio formati.


Troppi laureati in Italia?

Resiste ancora oggi nell’immaginario collettivo l’idea che nel nostro Paese ci siano troppi laureati. È vero il contrario. Nel 2006, sono 75 giovani su cento a portare a casa per la prima volta la laurea. Nonostante l’aumento del numero di laureati, documentato nell’ultimo rapporto OECD Education at a Glance 2007, l’Italia è dietro a Paesi come il Messico e la Grecia per numero di giovani di età tra 25 e 34 anni che posseggono un’istruzione di terzo livello. Più in generale, il confronto internazionale evidenzia che, nonostante lo sforzo rilevante compiuto soprattutto negli ultimi anni, la universitarizzazione raggiunta in Italia dalla popolazione più giovane (il 16% nell’età 24-35 anni) non arriva al livello di quella conseguita dalla popolazione di età 55-64 anni nei Paesi Ocse (19%); inoltre si registra una presenza poco più che simbolica dei titoli, sempre di terzo livello, finalizzati all’inserimento specifico nel mercato del lavoro. Uno scenario preoccupante, se si guarda alla strategia di Lisbona che aveva posto il traguardo, nel 2010, di realizzare «la più dinamica e competitiva economia del mondo basata sulla conoscenza», capace di una crescita sostenibile, di migliore qualità delle condizioni lavorative e di una più grande coesione sociale.
Altro campanello d’allarme, sottovalutato, è la falcidia all’ingresso dell’Università, la percentuale studenti che rinunciano nei primi dodici mesi al conseguimento di una laurea. Le mancate re-iscrizioni tra il primo e il secondo anno si attestano su valori alti: il 21,5% nel complesso degli studenti italiani, il 20,8% nel settore tecnologico, il 30% nel settore scientifico. In alcuni corsi scientifici si registrano punte di abbandoni al primo anno del 35%: inutile piangere la crisi di vocazioni se poi perdiamo anche i “pochi” per strada!
In più, il tormentato ingresso dei laureati nel mondo del lavoro: neo laureati con guadagni da mille euro al mese e stipendi che perdono potere d’acquisto (fatto 100 il guadagno ad un anno del laureato 2001, oggi il guadagno è pari a 94,7), il cui primo approccio al lavoro è nella precarietà, soprattutto nel pubblico impiego, che perdura anche nel medio periodo, mortificati nel merito da un sistema di relazioni per trovare un impiego, esclusi dalla rappresentanza, dal governo del Paese (coloro che hanno dai 25 ai 39 anni, che pesano per il 30% sulla popolazione italiana di 25 e più anni, sono rappresentati da meno del 10% dei deputati) e dalla classe dirigente. Una generazione che reclama visibilità e futuro.


La Riforma alla prova dei fatti

Come è cambiata la trasmissione del sapere, dunque, con la Riforma? Che bagaglio formativo e con quali prospettive escono oggi i giovani dalle università italiane?
Come è noto, la riforma prevista nel D.M. 509 del 1999 (con successive modifiche previste dal D.M. 270/2004) ha ridisegnato l’offerta formativa, ne ha previsto l’articolazione in livelli differenti (laurea di primo livello, laurea specialistica o magistrale, laurea a ciclo unico, dottorato di ricerca), si è proposta obiettivi ambiziosi: aumentare la diffusione dei titoli universitari, ridurre gli abbandoni, mettere al centro lo studente, avvicinare i laureati al mondo del lavoro, internazionalizzare i percorsi attraverso la generalizzazione dei crediti formativi. Obiettivi raggiunti?
Per dare una risposta compiuta dal punto di vista statistico, è stata circoscritta l’analisi (la documentazione completa del profilo dei laureati degli Atenei aderenti ad AlmaLaurea si trova in www.almalaurea.it) alla popolazione dei laureati di primo livello che hanno iniziato e terminato gli studi nell’Università riformata, quelli che AlmaLaurea ha definito “puri”, osservati nel 2006. Si tratta di oltre 68mila laureati, l’81% del complesso dei laureati di primo livello. Questa focalizzazione consente valutazioni in grado di restituire lo stato d’avanzamento reale della Riforma ed il diffondersi dei suoi effetti nell’ambito dei singoli gruppi disciplinari. Il confronto avviene con le performance accertate per i laureati del 2005, ma anche, dove è possibile e con le cautele indispensabili visto l’eterogeneità delle due popolazioni in termini di formazione, durata degli studi e obiettivi, con le caratteristiche dei laureati pre-riforma del 2001.
Il raffronto mostra innanzitutto alcuni risultati confortanti.
L’età alla laurea non supera i 24,2 anni; un valore atteso per la riduzione della durata legale del titolo di studio, e comunque ben lontano dai 28 anni dei laureati italiani alla vigilia della riforma!
La regolarità negli studi, la capacità cioè di completare il percorso formativo nei tempi previsti dagli ordinamenti, seppure ridottasi rispetto a quella registrata l’anno precedente (erano risultati regolari 64,4 laureati su cento), continua a riguardare quasi la metà dei laureati; valore ben superiore al 9-10% che caratterizzava il complesso dei laureati pre-riforma. Un risultato che, ancora una volta, è la sintesi di situazioni profondamente diversificate: si va dall’82% dei laureati in corso delle professioni sanitarie al 53% del gruppo chimico-farmaceutico sino al 39% sia del gruppo insegnamento che di quello letterario.
Osservare che si è data una risposta a uno dei mali endemici dell’università italiana - i laureati in età avanzata, ben oltre i tempi canonici – non significa sottovalutare il fenomeno dei fuori corso che si sta riproducendo anche fra i laureati puri di primo livello (nel 2006 sono 51 su cento) soprattutto alla luce di ciò che avverrà nei prossimi anni: le Università saranno in grado di non ricadere nel passato, con laureati ormai fuori età rispetto ai colleghi europei, sempre meno in grado di mettersi quindi in gioco, di inventare e innovare nella delicata fase di passaggio dalla laurea al lavoro?
La riforma ha anche allargato l’accesso all’università a fasce di giovani provenienti da ambienti socio-culturali meno favoriti e ha fatto lievitare la frequenza regolare alle lezioni, che nel 2006 coinvolge 72 laureati su cento. Effetto, quest’ultimo, di una “licealizzazione” del sapere universitario? La documentazione non entra nel merito della qualità dell’insegnamento, di ciò che oggi si trasmette e dei modi, della preparazione culturale necessaria per affrontare le sfide di un mondo globale senza perdere valori e concetti quali quelli di “una comunità educante” e quindi di una istruzione non solo formale. Quello che si può trarre dal profilo dei laureati, è il giudizio dei giovani universitari sugli anni di studio. La valutazione ampiamente positiva dell’esperienza universitaria portata a termine accenna a crescere nell’opinione dei laureati. Si dichiarano decisamente soddisfatti del corso di studio concluso 35,7 laureati su cento (ed altri 52 esprimono una soddisfazione più moderata). L’apprezzamento per i docenti, seppure in aumento, registra valutazioni più critiche. Un quinto dei laureati è rimasto decisamente soddisfatto ed altri 65 dichiarano di esserlo in misura più contenuta. La piena sostenibilità del carico di studio degli insegnamenti è confermato dal 30 per cento dei laureati (per altri 57 la sostenibilità è comunque riconosciuta, seppure non pienamente).
è evidente, inoltre, che il positivo affacciarsi all’università di giovani e di adulti provenienti da fasce di popolazione meno favorite, associato ad un’assidua frequenza alle lezioni, sottolineano l’urgenza di provvedere con il potenziamento di servizi di diritto allo studio adeguati alla nuova domanda di formazione, a cominciare da una politica per gli alloggi e dall’opportunità, già prevista dalla Riforma, di iscriversi a tempo non pieno.
Un ultimo aspetto va considerato nella lettura sugli effetti in positivo della Riforma: l’avvicinamento al mondo del lavoro. Le esperienze di tirocinio e stage riconosciute dal corso di studi, moltiplicatesi nel passaggio fra il vecchio e il nuovo ordinamento, entrano infatti nel bagaglio formativo di 58 laureati su cento (due punti percentuali più dell’anno passato). Testimonianza indiscutibile dell’impegno delle università e della collaborazione con il mondo del lavoro, stage e tirocini attendono una approfondita verifica della qualità di tali proposte formative. Certo è che all’esperienza di tirocinio e stage si associa già un più elevato indice di occupazione (10 punti percentuali in più fra chi ha svolto uno stage durante gli studi rispetto a chi non vanta un’esperienza analoga).


I punti critici della Riforma

In un quadro sostanzialmente positivo, rispetto agli obiettivi ispiratori, non mancano alcune criticità. Lo studio all’estero, già ridotto nei laureati pre-riforma, ha subito un’ulteriore flessione. Sarà anche l’effetto della minore durata degli studi di primo livello e di un maggiore carico didattico, di ritmi più pressanti nello studio, ma ciò non toglie che sottrarre ai nostri giovani la possibilità di confrontarsi con altre culture, proprio negli anni della formazione, sia un fatto a cui porre urgente rimedio.
Ma a porre seri interrogativi sulla compiutezza dell’impianto riformatore è, soprattutto, l’ampiezza della domanda di ulteriore formazione che si indirizza alla laurea specialistica e che coinvolge 71 laureati puri su cento (dall’89-90% dei laureati in Psicologia e in Giurisprudenza, al 55% dei laureati del gruppo Insegnamento). Sono molti o pochi rispetto alle aspettative di chi ha progettato la Riforma? Quali prospettive dovevano realmente aprire le lauree di primo livello, quali obiettivi si voleva raggiungere rispetto al loro impianto? La prosecuzione degli studi per la maggior parte dei laureati di primo livello è il nodo da sciogliere più evidente: da un lato, ad un anno dalla laurea, le intenzioni di proseguire gli studi espresse alla vigilia della conclusione della formazione di primo livello non solo non sono diminuite come ci si poteva attendere, ma sono addirittura cresciute (sia pure in misura modesta); dall’altro c’è la conferma dell’intenzione a proseguire anche dei laureati specialistici (una popolazione già di notevole consistenza). Sebbene non si possa dimenticare che, trattandosi dei primi laureati specialistici “puri”, il loro bagaglio formativo risulta di eccellenza, resta il fatto che il desiderio di continuare a studiare (soprattutto con un dottorato di ricerca) riguarda il 43% di loro.


Dopo la laurea di primo livello?

La verifica di questa tendenza a proseguire la formazione, che alla vigilia della laurea è ancora una intenzione, trova riscontro nella prima indagine sperimentale sulla condizione occupazionale e formativa di tutti i laureati di primo livello dell’intero anno solare 2005. I risultati rivelano infatti che è consistente la quota di laureati che decide di proseguire la propria formazione iscrivendosi ad un corso di laurea specialistica, in particolare tra i laureati “puri”. In particolare, ad un anno dal conseguimento del titolo, i laureati di primo livello presentano un tasso di occupazione pari al 48,5%. Tra gli occupati, il 32% è dedito esclusivamente al lavoro, il 16,4% si è posto l’obiettivo di coniugare studio e lavoro. Chi è impegnato esclusivamente negli studi specialistici è il 43% dei laureati. La principale motivazione all’origine della prosecuzione degli studi con la specialistica è data dalla volontà di completare e arricchire la propria formazione (66%), mentre un terzo dei laureati (31%) ha sentito questa come scelta “quasi obbligata” per accedere al mondo del lavoro. Il desiderio di migliorare la propria formazione risulta particolarmente elevato tra i laureati dei gruppi ingegneria (76%) e scientifico (73%). Per i laureati del giuridico, più di altri, l’iscrizione alla specialistica viene vissuta come una necessità per accedere al mondo del lavoro (55%).
è chiaro che su questo snodo nevralgico della riforma confluiscono e si intrecciano una pluralità di motivazioni: le strategie di vita dei giovani e la loro difficoltà ad affrontare il nuovo, la capacità formativa dell’università, la sua disponibilità ad emendarsi ed a mettersi in sintonia con le esigenze della società, l’atteggiamento dei docenti di fronte alla riforma e alla rivoluzione culturale che essa ha proposto loro (a costo zero, senza averne verificato il consenso e la disponibilità), il comportamento degli ordini professionali, il sistema produttivo del paese ed il mercato del lavoro pubblico e privato ancora così debole ed impreparato alla valorizzazione delle risorse umane formate dall’università, il Governo e le scelte che gli competono sul terreno dei mezzi da investire nell’istruzione e nella ricerca universitaria e delle verifiche da effettuare sistematicamente.
Rispetto al salto dall’Università al mondo del lavoro, appare insostenibile la presunta insoddisfazione del mondo imprenditoriale per le nuove figure di laureati: i primi laureati triennali figli esclusivamente dell’università riformata sono usciti dal sistema universitario italiano nell’estate del 2004, in larghissima maggioranza, come si è visto, hanno proseguito per la successiva laurea specialistica. Quindi i soli laureati post-riforma che il mondo imprenditoriale può avere conosciuto sono, quasi esclusivamente, quelli frutto di conversioni e di passaggi dal vecchio al nuovo ordinamento avvenuti su un retroterra formativo spesso assai tormentato e con percorsi frequentemente abbreviati.


Università: un breve esame di coscienza

Soffermandoci prima di tutto sulle Università, la domanda è: cosa è avvenuto all’interno del corpo accademico con l’avvio della Riforma? Forzati a ridisegnare in fretta e furia l’architettura dei corsi, temo che in molti abbiamo ceduto alla tentazione di perseguire una nuova accademia dei pochi e dei privilegiati. Con un ragionamento che ha svilito i titoli di primo livello: allarghiamoli pure a tutti, tanto non rappresentano la “vera” laurea. Inevitabile che fra gli stessi studenti universitari, ai quali in aula viene frequentemente ripetuto di considerarsi studenti di serie B, si sia insinuato il dubbio sulla validità della Riforma e sulle capacità dei neo laureati triennali! Il rischio è di aver progettato un sapere in pillole, spezzettato e iper-specializzato, pur di preservare, meglio moltiplicare, i corsi e quindi i ruoli. Con lo spostamento nel secondo livello, nelle lauree specialistiche, della formazione di qualità, della vera selezione – numeri chiusi e contributi studenteschi più alti – e delle cattedre che contano: l’università d’élite, appunto. Non tutti hanno seguito questa strada, tanti eccellenti colleghi lottano quotidianamente per opporsi ad una riforma applicata male. E sono la maggioranza silente, quella che oggi nelle commissioni didattiche e nelle Facoltà sta lavorando per correggere il tiro a partire dalle revisioni proposte dal Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica. Partiamo dall’idea della necessità di innalzare comunque il livello di conoscenza dei singoli, ben sapendo, citando Massimo Cacciari, che «chi abbia letto una sola tragedia greca, una sola ‘invettiva’ dantesca, un verso de La Ginestra, saprà ascoltare, saprà riconoscere i propri limiti e il valore altrui – ma passivamente obbedire mai». E questo vale anche per il sapere scientifico. Più cultura, dunque. Necessaria per dare parole e quindi diritti ai più deboli. In ricordo di don Milani: per non escludere. Si può iniziare restituendo dignità ai percorsi brevi – che vuol dire per alcuni essere più di “base” e orientativi, per altri essere più legati a figure professionali intermedie del mercato del lavoro che è sempre più urgente definire – e dando pari opportunità per l’accesso alle specialistiche, con una politica di valorizzazione dei cervelli migliori. Allora avremo reso il servizio che i giovani meritano. Nel nome di un’Università pubblica, democratica. Almeno, è un punto di partenza.


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