cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Lo statuto dei nuovi saperi

Marcello Cini

1. Vecchi e nuovi saperi

Al plurale il sostantivo sapere indica quelle pratiche diffuse – i saperi tradizionali o popolari – che sono servite per secoli ad affrontare i problemi primordiali del vivere quotidiano o a raggiungerne obiettivi ben individuati e circoscritti senza che se ne possano dare giustificazioni rigorosamente razionali o definizioni precise. Si tratta sempre comunque di conoscenze pragmatiche, mescolanze di teoria e pratica, di esperienza e intuito, e soprattutto di attività tramandate per apprendistato che hanno radici affondate nel passato e cresciute nei luoghi d’origine, prive di uno statuto epistemologico ben definito.
I vecchi saperi, anche a causa di questo statuto dubbio, sono gradatamente caduti in discredito con l’affermarsi dell’approccio scientifico all’acquisizione di nuove conoscenze della natura e con il vorticoso sviluppo delle tecnologie che spesso ne utilizzano i risultati per inventare oggetti, sostanze, macchine e strumenti destinati a soddisfare bisogni umani sempre più sofisticati. Una divisione del lavoro sempre più spinta ha creato professioni e mestieri specializzati ben definiti con competenze e abilità strettamente finalizzate e rapidamente apprese secondo un tirocinio standardizzato. Henry Ford pretendeva dai suoi operai lo stesso gesto ripetuto per tutta la vita e vendeva automobili tutte di colore nero.
Questa trasformazione ha caratterizzato tutto l’arco delle attività umane, per lo meno nei paesi che andavano sviluppando l’industria, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla fine del secolo scorso: i suoi risultati, spesso anche largamente positivi dal punto di vista della qualità della vita di vaste masse popolari, sono sotto gli occhi di tutti. La grande Esposizione Universale dl Parigi del 1900 segna il trionfo di quella che è stata chiamata l’èra della modernità. Cito due esempi a caso.
Il primo è quello della medicina dove si è assistito, oltre che allo straordinario allungamento della vita media delle popolazioni (sia pure con notevoli disuguaglianze tra ricchi e poveri) anche alla scomparsa della figura del medico capace di considerare ogni essere umano nella sua interezza – come unità inscindibile di una mente complessa e di un corpo formato da organi in stretta interazione reciproca. Una figura sostituita da una miriade di specialisti, ognuno concentrato sul comportamento della componente corporea di propria competenza, che considerano terminato il loro compito con la prescrizione di un intervento locale (farmaco specifico o intervento chirurgico su un “pezzo” malfunzionante) e con la compilazione di un referto che il paziente potrà far interpretare da chi meglio crede, o addirittura da un computer. E sempre restando in questo ambito, si è assistito al rigetto da parte della medicina ufficiale di terapie fondate su saperi tradizionali come l’agopuntura o le piante medicinali o l’omeopatia.
In modo analogo, ma in un settore assai differente, si è osservato il declino dell’agricoltura fondata sui saperi legati ai cicli dei fenomeni naturali e sulla conoscenza degli equilibri ecosistemici e dei tempi necessari al ripristino delle risorse rinnovabili, in seguito al diffondersi dell’agricoltura industriale, fondata sull’uso intensivo dei prodotti dell’industria chimica, e più recentemente di quella biotecnologica, capaci di ottenere produzioni qualitativamente standardizzate e quantitativamente più abbondanti a costi minori.
Più in generale si è assistito ovunque alla scomparsa con ritmo incalzante dei saperi legati agli usi e costumi dei luoghi e alla loro storia: lingue, dialetti, sementi, specie animali, utensili, musiche, cibi, forme figurative, strutture abitative, favole, credenze religiose (e si potrebbe continuare a lungo), ormai muoiono insieme a coloro che li possedevano e li tramandavano. Vengono rimpiazzati da prodotti standardizzati e da figure sociali rese uniformi da compiti identici prestabiliti. È un fenomeno che il sociologo George Ritzer[1] ha chiamato, con termine felice e provocatorio, la «globalizzazione del nulla»; il fenomeno cioè della estensione in tutti gli angoli del pianeta di modi di vita generalmente concepiti e controllati centralmente che sono relativamente privi di contenuto sostanziale distinto.
La tesi di fondo di Ritzer è in sostanza che la globalizzazione e il nulla procedono di pari passo, in quanto è più facile globalizzare forme concepite e controllate centralmente che non forme ricche di contenuto. Questo soprattutto perché ciò che ha un forte contenuto ha anche molto che potenzialmente si scontra con (o non si adatta a) alcuni aspetti di altre culture del mondo: quanto maggiore è il contenuto, tanto maggiori sono le possibilità che alcuni fenomeni non si adattino o non siano accettati. È per questo che è molto più facile (e molto più vantaggioso) esportare il nulla. Tutto questo riguarda, dunque, la globalizzazione dall’alto.
Del tutto diversa, e molto più difficile da inventare, è la globalizzazione dal basso. Sono i nuovi saperi che possono contribuire a renderla realizzabile. In questo contributo cercherò molto schematicamente di indagare in che modo. Prima però di affrontare l’argomento vorrei collocare questo processo nel mutato contesto sociale, economico e culturale che caratterizza il passaggio dal XX al XXI secolo.


2. La crisi della cultura della modernità

È convinzione comune che la cultura della modernità sia in profonda crisi. In una battuta, la Dea Ragione mostra segni di Alzheimer e il Metodo si rivela un boomerang. Isolare un fenomeno dal contesto risulta spesso difficile e arbitrario. Cause diverse possono produrre lo stesso effetto e una stessa causa effetti differenti. Sono stati scritti migliaia di libri per illustrare le manifestazioni di questa crisi e individuarne le cause ma le proposte per uscirne non brillano per originalità.
La principale prescrive addirittura di fare come lo struzzo. Essa si aggrappa disperatamente alle suddivisioni della società tracciate dalla modernità e ai compiti tradizionalmente assegnati a ogni suo settore. È una soluzione molto diffusa tra le classi dirigenti che non richiede molta fantasia. La scienza dovrebbe continuare a fornire disinteressatamente una conoscenza “veritiera” sempre più fedele e oggettiva della realtà “così com’è”; la tecnologia dovrebbe sfruttarne nel modo più efficace i risultati inventando dispositivi, strumenti, manufatti, prodotti utili finalizzati a soddisfare meglio bisogni vecchi e nuovi; l’economia dovrebbe allocare nel modo più efficiente le limitate risorse disponibili per massimizzare l’utilità degli individui singoli attraverso le leggi del mercato; e infine i politici dovrebbero limitarsi a scegliere, a seconda degli interessi delle classi sociali che rappresentano, fra le varie soluzioni possibili ai problemi considerati più urgenti, applicando, o eventualmente modificando, le norme che regolano la convivenza civile. In sostanza – si sostiene – il sistema troverà il modo per risolvere i problemi creati dal suo stesso sviluppo attraverso una riaffermazione rigorosa dei principi che ne sono stati alla base.
La disarmante povertà delle basi epistemologiche di questa posizione è evidente, così come, all’estremo opposto, è altrettanto disarmante la superficialità dei teorici della postmodernità per i quali la soluzione della crisi della modernità consiste semplicemente nell’assunzione che i punti di vista unilateralmente adottati per affrontare i problemi che da essa derivano sono tutti ugualmente legittimi. Sfugge infatti a tutti che la vera origine della crisi deriva dalla profonda contraddizione tra la natura complessa del sistema-mondo, caratterizzata dal fitto intreccio delle sue componenti fisiche, biologiche, storiche, ecologiche, tecnologiche, economiche e culturali in perenne mutua interazione e il riduzionismo lineare del pensiero cartesiano che ancora permea di sé la struttura di base dell’approccio teorico e pratico alla conoscenza e alla trasformazione della realtà.
Nel corso di più di quarant’anni sono andati accumulandosi argomenti che hanno messo in crisi la visione del mondo dell’autore del Discours de la méthode e in particolare la tradizionale immagine della scienza vista come rappresentazione oggettiva, razionale e sempre più fedele della realtà “così com’è”. Tre sono gli ambiti nei quali questa immagine perde la sua validità.
Il primo è l’ambito epistemologico, nel quale, a partire dal dibattito, che ha avuto inizio nella metà degli anni ’60, fra storici e filosofi della scienza come Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, Imre Lakatos e Karl Popper, si è successivamente andata affermando una ricostruzione del processo di crescita della conoscenza scientifica – alla quale ho contribuito io stesso per quasi quarant’anni[2] – che mette in luce le molteplici componenti economiche, culturali e sociali del confronto fra gli scienziati portatori di differenti rivendicazioni di conoscenza superando così il postulato del criterio unico secondo il quale la validità di una teoria si fonda sul giudizio definitivo e impersonale del risultato di un esperimento cruciale.
Il secondo ambito di argomenti è quello metodologico. Già alla fine degli anni ’70 si cominciò a capire che, se è vero da un lato che il metodo galileiano delle “sensate esperienze” e delle “certe dimostrazioni” ha permesso di formulare le grandi leggi della natura che stanno alla base della nostra conoscenza delle proprietà della materia inerte e delle nostre capacità di dominio su di essa, è dall’altro altrettanto vero che esso è inadeguato a comprendere i processi che accadono nei diversi livelli di organizzazione della materia vivente e in quelli della sfera della mente degli animali e dell’uomo, nei quali, accanto a regolarità strutturali e a vincoli fisici che pure devono essere indagati e misurati, l’evoluzione e l’aleatorietà giocano un ruolo essenziale. E si arrivò a capire che altrettanto inadeguato allo studio di questi fenomeni è l’approccio riduzionista della fisica, visto che i sistemi complessi manifestano in generale proprietà dipendenti dal contesto e dalla storia individuale di ciascuno, che solo in parte e non sempre sono derivabili da quelle dei loro componenti.
Il terzo ambito infine è quello del crescente intreccio fra teoria e prassi, tra conoscenza e azione e in particolare tra scienza, tecnologia ed economia. Di questo intreccio hanno cominciato ad accumularsi negli ultimi decenni del secolo scorso evidenze sempre più numerose e disparate. A cominciare dalla decisione storica della Corte Suprema degli Stati Uniti che nel 1980 riconobbe la brevettabilità degli organismi viventi geneticamente modificati, la corsa ai brevetti in ogni campo dell’innovazione scientifica e tecnologica e l’estensione dei diritti di proprietà intellettuale a ogni manifestazione creativa della mente umana, stanno conducendo alla mercificazione di ogni aspetto della vita individuale e sociale diventando al tempo stesso strumenti di accentuazione delle disuguaglianze e immense fonti di profitto.
È una novità che ha sovvertito l’ordine novecentesco. Essa è al tempo stesso causa ed effetto del passaggio dell’economia capitalistica – che ha unificato sotto le sue regole il globo intero – alla produzione crescente, e in prospettiva dominante nel XXI secolo, di merci non tangibili (conoscenza, informazione, saperi, comunicazioni, formazione, intrattenimento, cultura). Il punto cruciale di questa novità è che c’è una differenza sostanziale tra la natura di questi beni e quella dei beni materiali che costituivano la produzione pressoché esclusiva della ricchezza nel XX secolo
La proprietà fondamentale dei beni non tangibili è infatti che la fruizione da parte di un “consumatore” non ne impedisce la fruizione da parte di altri. Perciò è improprio parlare di consumatori, perché le merci immateriali, in realtà, non si “consumano”.


3. L’economia della conoscenza

I saperi sono diventati dunque capitale intellettuale. È una scoperta assai recente. Ce la spiega Thomas A. Stewart[3], editor della più importante rivista americana di economia, Fortune: «In questa nuova èra – scrive – la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione – e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l’intrattenimento, la comunicazione, i servizi – sono diventati le principali materie prime dell’economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere – prosegue – è ciò che compriamo e vendiamo… Non si può né odorare né toccare. Il capitale fisso necessario per creare ricchezza non è oggi la terra, né il lavoro fisico né le macchine utensili né gli stabilimenti: è un capitale fatto di conoscenza».
La privatizzazione del “brainpower collettivo” è dunque divenuto l’obbiettivo principale del capitale. È un processo che James Boyle, professore di diritto della Duke University, studia partendo dalla analogia tra la pratica della trasformazione della terra pubblica in appezzamenti privati nell’Inghilterra dei due secoli che vanno dal XVII al XVIII e l’odierna appropriazione privata della conoscenza prodotta a partire da una conoscenza condivisa socialmente disponibile, che viene “recintata” affinché possa usufruirne solo chi ha i mezzi per comprarla. Questa analogia non è arbitraria. «Sembra esagerato – scrive Boyle infatti – chiamarlo movimento di enclosure dei beni comuni non tangibili della mente, ma proprio di questo si tratta. È vero, i nuovi diritti di proprietà creati dallo stato sono ‘intellettuali’ invece che ‘reali’ ma ancora una volta cose che erano prima ritenute proprietà comune o in ogni caso non mercificabili, vengono coperte da nuovi ed estesi diritti di proprietà»[4].
Il proliferare di diritti di proprietà in campo biotecnologico rischia di ostacolare lo sviluppo di nuove tecnologie e di impedire agli strati meno abbienti della popolazione mondiale di usufruirne. La diffusa pratica delle licenze sulle possibili applicazioni delle invenzioni (oltre che sull’uso) genera infatti monopoli sull’innovazione che ne paralizzano l’intero ciclo e pongono barriere alla loro diffusione.


4. Nuovi saperi e nuovi valori

Una società della conoscenza che inverta le tendenze distruttive di quella fondata sull’economia della conoscenza dovrà fondarsi sulla diffusione di una nuova etica pubblica. I nuovi saperi devono essere dunque permeati di nuovi valori. Per illustrare l’idea citerò rapidamente alcuni esempi di “nuovi saperi”, dei quali ho scritto più diffusamente altrove[5]. Il primo è legato al nome di Hans Jonas. Il suo pensiero è ormai ampiamente noto e non è necessario insisterci ulteriormente. Il più importante nuovo valore che dobbiamo introiettare, secondo questo autore, è fondato sull’obbligo morale di prefigurarci e di approfondire le possibilità ipotetiche che il nostro oggi, così gravido di conseguenze e sotto molti aspetti calcolabile, porta in grembo. Questo comporta una trasformazione profonda degli scopi del sapere tecnico-scientifico[6]. È su queste basi, fra l’altro, che sono state formulate le norme internazionali che introducono il cosiddetto principio di precauzione.
Altri esempi di costruzione di saperi finalizzati ad affrontare i nuovi problemi posti, sia localmente che globalmente, dalle conseguenze ecologiche ed economiche impreviste dello sviluppo delle nuove tecnologie sono rappresentate dalle esperienze di democrazia ecologica illustrate da Daniele Ungaro[7] e dalle pratiche di costruzione sociale della tecnologia teorizzate da Wiebe Bijker[8]. La prima analizza nuove forme associative che estendono i diritti fondamentali a ciò che si considerava prima il non-umano (e come tale non rappresentabile). Di conseguenza, considerare le nostre relazioni con l’ambiente come bene primario significa riconoscere il diritto a tutti gli stakeholders (soggetti coinvolti) di intervenire per affermare i loro bisogni fondamentali. Questo significa estendere le comunità degli esperti che decidono sulle scelte da adottare. Anche nella seconda, che si pone in contrapposizione alla concezione standard della tecnologia come forza autonoma, rappresentata da macchine e processi che incorporano proprietà oggettive della materia, il punto di partenza sono i “gruppi sociali rilevanti”. Gli artefatti tecnici sono descritti attraverso gli occhi dei membri di questi gruppi. Questa concezione costruttivista della tecnologia è cruciale per ogni discussione sul rapporto fra democrazia e tecnologia.
Un’altra manifestazione significativa della nascita di nuovi valori come reazione alla mercificazione della conoscenza nel tessuto sociale che viene dal paese guida dell’economia del capitale intellettuale è messa in evidenza dalla ricerca di un sociologo italo-americano, Richard Florida[9]. È un fenomeno che fornisce una conferma della tendenza alla diffusione di un’etica alternativa all’etica protestante dell’accumulazione di denaro come scopo del lavoro. Secondo questo autore, sta nascendo una nuova classe sociale che si distingue dalle altre per una caratteristica fondamentale, la creatività, cioè la forza di offrire innovazione e di portare alle tradizionali organizzazioni produttive idee originali e contenuti dirompenti.
Dai suoi dati risulta che in determinate aree metropolitane degli Stati Uniti esiste una correlazione positiva tra la realizzazione di più alti indici di sviluppo economico e la crescita di un tessuto sociale caratterizzato da un’offerta molto ampia di produzione culturale di alto livello, unita alla diffusione di un’insolita tolleranza, della capacità di rottura delle convenzioni e di apertura mentale. La ricchezza di questi poli di sviluppo è costituita dalla diversità. «Continuare a considerare la creatività come la provincia esclusiva di pochi eletti – afferma nelle conclusioni del libro – è la vera ricetta per ogni tipo di guai, dall'ingiustizia all'inefficienza. La buona notizia è che la creatività si sta diffondendo in tutta la società e continuerà a farlo».
Un ultimo esempio ci viene dallo sviluppo travolgente delle nuove tecnologie dell’informazione. Lo scontro che ormai da qualche anno ha contrapposto i sostenitori delle pratiche che vanno sotto il nome di open source (sorgente aperta) e di free software (software libero) alla filosofia di Bill Gates è diventato un conflitto mondiale tra la diffusione dei sistemi basati su Linux e quelli della Microsoft.
Questa contrapposizione si basa su due opposte concezioni dell’etica professionale. Mentre infatti nella economia della conoscenza le aziende realizzano i loro profitti attraverso la proprietà delle informazioni garantita tramite brevetti, marchi di fabbrica e accordi di non divulgazione e giustificano questa pratica con l’etica protestante del denaro che secondo Weber sta alla base dello sviluppo del capitalismo, l’etica che caratterizza la comunità degli hacker è fondata sul principio che «la condivisione dell’informazione sia un bene di formidabile efficacia, e che la condivisione delle competenze, scrivendo software libero sia per gli hacker un dovere etico». In questo modello chiunque è libero di imparare studiando il codice sorgente dei programmi messi a disposizione, e di svilupparlo ulteriormente in propri prodotti anch’essi aperti. Su questo principio si potrebbe addirittura sviluppare un nuovo tipo di economia, basata sulla cosiddetta impresa open source.


5. Nuovi saperi e globalizzazione

Dagli esempi appena riportati risulta chiaro che i nuovi saperi nati dall’esigenza di affrontare i problemi derivanti dalla complessità del sistema-mondo e dall’inadeguatezza del Metodo cartesiano per trovarne soluzioni soddisfacenti hanno, al pari dei vecchi saperi dell’era premoderna, statuti epistemologici e metodologici ibridi: da un lato sono frutto del coinvolgimento di soggetti diversi e del concorso di concause molteplici, mentre dall’altro producono effetti dotati di ampi margini di incertezza e di oggettività condizionata. Sia gli uni che gli altri nascevano e nascono da esperienze locali e dipendenti dal contesto, piuttosto che dalla applicazione di leggi generali ottenute sfrondando i casi particolari da fattori dichiarati contingenti e inessenziali.
D’altro canto i nuovi saperi differiscono da quelli vecchi per un aspetto fondamentale. Si tratta del carattere globale che essi possiedono rispetto a quelli tradizionali. Il loro obiettivo non è infatti riportare il mondo a un’epoca in cui il locale era pressoché tutto ciò di cui disponeva la grande maggioranza delle persone sul pianeta, ma quello di conservare quegli aspetti del locale che rappresentano una fonte cruciale di innovazione nel mondo.
Oggi possiamo dire che oggi «tutto ciò che è locale è globale, e tutto ciò che è globale è locale». Locale e globale non si presentano più come i due termini distinti di un binomio, segnato dalla distanza geografica, ma come un processo unitario, territorialmente radicato, in cui i due aspetti coesistono. L’essere qui ed altrove nello stesso momento, è un’esperienza quotidiana per tutti, almeno per tutti noi occidentali: non solo, banalmente, perché la tecnologia della comunicazione ce lo consente, ma per la lingua che usiamo, per il cibo che consumiamo, per le immagini che vediamo, per i problemi ambientali che affrontiamo, per le preoccupazioni che ci coinvolgono verso un altrove globale.
È tuttavia soltanto riacquistando il perduto carattere di beni pubblici che i nuovi saperi riusciranno a realizzare quella che abbiamo all’inizio chiamato la globalizzazione dal basso contrapponendosi alla globalizzazione dall’alto, imposta dalle inesorabili leggi del mercato, che tende sempre a spazzarli via.


E-mail:

[1] G. RITZER, La globalizzazione del nulla, Slow Food Editore, Bra 2005.
[2] M. CINI, Un paradiso perduto, Feltrinelli, Milano 1994.
[3] T.A. STEWART, Il capitale intellettuale, Ponte alle Grazie, Milano 1999, p. 8.
[4] J. BOYLE, The second Enclosure Movement, in “Law and Contemporary Problems”, v. 66, 2003, p. 33.
[5] M. CINI, Il supermarket di Prometeo, Codice, Torino 2006.
[6] H. JONAS, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997.
[7] D. UNGARO, Democrazia ecologica, Laterza, Bari 2004.
[8] W. BIJKER, Sociohistorical Technology Studies, in S. JASANOFF ET AL., Handbook of Science and Technology Studies Sage, Londra 1995, p. 229.
[9] R. FLORIDA, L’ascesa della classe creativa, Mondadori, Milano 2003.
torna su