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L’acqua: una merce o un diritto?

Luca Martinelli – Marco Bersani

Italia, maggio 2007. Hera, la ex-municipalizzata del Comune di Bologna, oggi azienda multi-servizi quotata in Borsa, gestisce il servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura e depurazione) a Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara, Ravenna, Cesena-Forlì e Rimini; Acea, la ex municipalizzata del Comune di Roma, anch’essa ormai azienda quotata in Borsa, gestisce il servizio idrico a Roma, Frosinone, Pisa, Firenze, Grosseto e nel Comune di Lucca. E potremmo continuare. È il paradosso della Legge Galli: approvata nel 1994 con l’obiettivo di riorganizzare una gestione eccessivamente frammentata – nel 1990 erano attive circa 5 mila società per la gestione degli acquedotti e della depurazione delle acque – e garantire, attraverso l’apertura “al mercato”, una gestione più efficiente, la legge ha di fatto creato una sorto di oligopolio. Anno dopo anno, attraverso un meccanismo di acquisizioni e fusioni e non di gare d’appalto, si è ridotto il numero dei soggetti gestori sul territorio nazionale. Rimangono ormai poche grandi aziende, società per azioni quotate in Borsa o che si apprestano a farlo – come Asm Brescia, Iride (Torino-Genova), l’emiliana Enía oltre alle citate Acea ed Hera –, che con un accordo di cartello si spartiscono, di fatto, in “zone d’influenza” il territorio nazionale. È aumentata in modo evidente, nel frattempo, la distanza tra l’azienda/l’acquedotto e il cittadino. Quella che era, una volta, “l’acqua del sindaco”, oggi è un asset di Borsa.
Lo dimostra appieno il caso di Iride, l’azienda multi servizi nata nell’aprile del 2006 dalla fusione tra Amga Genova e Aem Torino (entrambe società quotate in Borsa) che gestisce il ciclo dell’acqua per cinque milioni di italiani, dal Piemonte alla Toscana. Domenica 8 aprile Il Sole-24 Ore, quotidiano di Confindustria, ha dedicato un’analisi impietosa alla società, una holding a cui fanno capo quattro aziende controllate al 100% ed equamente divise fra le città di Genova e Torino. I due Comuni controllano il 58,34% delle azioni di Iride, attraverso la Finanziaria Sviluppo Utilities Srl; tra gli azionisti principali figurano anche Intesa Sanpaolo – con il 4,81% del capitale – e la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino – con il 4,07%. Quella di Iride – ha commentato Alberto Nosari sul quotidiano di Confindustria – è «una costruzione d’altri tempi, attuata forse per rispettare quelle logiche con le quali erano e sono assegnate le numerose e forse troppe poltrone». Il presidente è a Genova mentre l’amministratore delegato è a Torino.
Iride è frutto di un processo lungo e laborioso e non privo di inefficienze, secondo Nosari: «L’itinerario [...] è stato più volte interrotto e poi ripreso ed ha richiesto oltre due anni di trattative e più di un intervento dei sindaci di Torino e Genova in rappresentanza degli azionisti di controllo. Ma alla fine il matrimonio è stato celebrato, anche se ha richiesto la creazione di una struttura barocca per rispettare gli equilibri e creare le condizioni per assegnare un congruo numero di cariche e di ruoli societari. Una scelta che però non deve essere stata indifferente in termini di efficienza se solo si considera che il business plan presentato giovedì scorso (il 5 aprile, ndr) a Milano ha richiesto circa 12 mesi di lavoro». Un piano industriale che però delude, e non poco, l’analista del Sole: dopo un anno di gestazione, non rappresenta altro che la sommatoria dei due piani precedenti. Alcuni analisti finanziari hanno commentato che tutto ciò “è sicuramente meglio del nulla precedente”. Nonostante questo, negli ultimi dodici mesi il valore delle azioni di Iride è cresciuto del 44%, fino a segnare un massimo di 2,73 euro. Per il 2006 il Cda ha proposto un dividendo di 0,06 euro ad azione, contro lo 0,041 di Aem e lo 0,02 di Amga nel 2005. Valore delle azioni e dividendi alle stelle senza alcune legame con il livello del servizio e la soddisfazione dei cittadini utenti. A cosa è dovuta tanta euforia finanziaria? Forse al fatto che in Borsa gli investitori scommettono sulle potenzialità di crescita nel settore idrico: a Torino, ad esempio, dove in Comune e nella sede di Smat c’è chi gongola sull’opportunità di entrare nella “scatola” di Iride. D’altronde Smat e Amga – cioè Iride – sono socie paritarie nella Società acqua potabili, che è quotata in Borsa e che, prima della bocciatura dell’Antitrust, si era aggiudicata la gara per essere nei prossimi trent’anni il gestore del servizio idrico di Palermo. Ma facciamo un passo indietro, all’avvio della privatizzazione, all’insieme di normative che hanno permesso di trasformare le imprese municipalizzate in società di capitali con presenza di privati.


La Legge Galli e le forme di gestione del servizio idrico

Uno snodo importante, in questo senso, è stata la Legge 36/1994, meglio conosciuta come “Legge Galli”. L’esigenza di una normativa che riorganizzasse il servizio idrico era allora abbastanza evidente e alcuni punti della legge costituiscono, senz’ombra di dubbio, delle innovazioni importanti, a partire dai principi e dagli obiettivi generali enunciati nei primi articoli del testo. Viene, infatti, prevista la proprietà pubblica dell’acqua e la sua salvaguardia come patrimonio ambientale da consegnare integro alle generazioni future. Si stabilisce la priorità del consumo umano rispetto a quello industriale ed agricolo e che tale uso debba avvenire secondo criteri di solidarietà. Si definisce il servizio idrico come integrato, ovvero l’interconnessione tra le funzioni di captazione, distribuzione e depurazione dell’acqua. Si delineano gli Ambiti territoriali ottimali, corrispondenti ai bacini idrografici, e si costituiscono autorità che dovrebbero redigere un bilancio idrico dei bacini e pianificare l’utilizzo della risorsa.
Qui finiscono gli aspetti positivi, perché quando si passa dai principi alle disposizioni la musica cambia radicalmente. Viene infatti prefigurata una gestione imprenditoriale e aziendalista, stabilendo per il gestore l’obbligo dell’equilibrio economico-finanziario di gestione; si introduce il criterio del full ricovery cost, ovvero della copertura integrale, attraverso la tariffa, dei costi d’investimento e di esercizio. E, soprattutto, si prevede all’interno dei costi da coprire anche un’adeguata remunerazione del capitale investito, ovvero la garanzia di adeguati profitti. Sugli standard di qualità e di vigilanza da inserire nelle convenzioni-tipo e nei disciplinari viene lasciata un’estrema discrezionalità alle Regioni, incaricate – ognuna – di individuare gli Ato (Ambito territoriale ottimale). Tali disciplinari e convenzioni costituiscono del resto l’unica fonte di obblighi del gestore nei confronti della pubblica amministrazione: si tratta di un atto negoziale che dovrebbe riuscire a trasfondere gli obblighi di realizzare le finalità di legge e contenere tutte le indicazioni necessarie per contratti pluridecennali. Infine, sul versante delle sanzioni, gli inadempimenti vengono trattati come violazione di contratti di diritto privato, agendo dunque ex-post. È grazie a questa impostazione, tesa alla mercificazione dell’acqua, che, nonostante la Legge Galli non preveda esplicitamente la definizione del servizio idrico come di rilevanza economica, negli affidamenti le pubbliche amministrazioni si sono comportate applicando la normativa conseguente.
Allo stato attuale, la gestione dei servizi pubblici locali può passare per tre diverse forme:

La proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali può essere affidata dagli enti locali a società a capitale interamente pubblico, ed è incedibile. La gestione della rete può essere affidata, oltre che ad imprese idonee, direttamente a società a capitale interamente pubblico.
Secondo quanto disposto dalla normativa vigente, dunque, l’unica forma societaria prevista di gestione del servizio idrico è la società di capitali. Delle tre tipologie indicate, due prevedono la presenza totale o parziale del capitale privato: ma anche l’ultima, la Società per azioni a capitale interamente pubblico, pur rappresentando in qualche misura un “argine” alla totale privatizzazione del servizio, costituisce comunque un soggetto di diritto privato, e come tale orientato alla creazione di utili. Va altresì ricordato come, in realtà, in Italia non esista nessuna normativa che declini dettagliatamente quali servizi debbano intendersi come servizi di interesse generale e quali come servizi di interesse economico generale. In mancanza di tale quadro giuridico, qualsiasi ente competente potrebbe autonomamente definire il servizio idrico come servizio di interesse generale e sottrarlo di conseguenza alla gestione attraverso Spa. Il fatto che ciò non sia ancora avvenuto dà solo il segno di quanto profondamente abbia inciso l’ideologia liberista nelle culture politiche e amministrative.


Arezzo: profitti privati, pubblici oneri

Nel 1999, i 37 sindaci dell’Ato 4 toscano scelsero di affidare la gestione del servizio idrico alla società Nuove Acque Spa, con capitale pubblico pari al 54% e socio privato denominato “Consorzio Intesa Aretina” e formato dalla multinazionale francese Suez, da Amga Spa, da Iride Srl, dalla banca Monte dei Paschi di Siena e dalla Banca popolare dell’Etruria e del Lazio. Come sempre, la scelta fu argomentata con la necessità di reperire ingenti risorse finanziarie per gli investimenti previsti nel Piano di ambito, l’esigenza di acquisire dal soggetto privato il know-how indispensabile, l’esigenza di dotare l’ente gestore di una forma giuridica snella, quella privatistica, ritenuta più adatta alla gestione di un servizio di carattere industriale come quello idrico. Veniva inoltre sottolineato che la maggioranza pubblica della società e il potere di controllo dell’Ato avrebbero comunque garantito l’indirizzo del soggetto gestore verso obiettivi di carattere collettivo. Oggi, otto anni dopo, grazie all’intervento costante dell’Arezzo Social Forum, ora divenuto “Comitato Aretino Acqua Pubblica nel 2008”, è possibile evidenziare come le previsioni dei sindaci siano state smentite dai fatti. Le tariffe del servizio idrico aretino sono le più alte d’Italia, e determinate in modo illegittimo. Infatti nel 1999 l’Ato stabilì la tariffa media applicabile senza considerare la quota fissa; attraverso questo meccanismo quell’anno l’incremento reale rispetto alle preesistenti gestioni è stato mediamente del 45%. Negli anni successivi al 1999 l’incremento è stato sistematicamente del 6,5% annuo, percentuale che rimarrà costante anche per gli anni a venire, poiché il Piano d’ambito prevede l’aumento massimo consentito dalla legge almeno fino al 2015 compreso. Per quanto riguarda il controllo pubblico, basti dire che il soggetto privato, pur essendo minoritario, ha nella società di gestione tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione. Ha il diritto, sancito dai patti parasociali costitutivi di Nuove Acque, di nominare l’amministratore delegato. Il potere della parte pubblica di Nuove Acque risulta dunque praticamente irrilevante.
Per quanto riguarda il capitolo investimenti, l’importo totale previsto dal Piano economico finanziario 2003-2023 corrisponde a circa 25 euro pro-capite all’anno. Ebbene, la media nazionale di investimenti nel settore idrico dal 1985 al 1998, nell’epoca delle inefficienza pre Legge Galli, è stata pari a circa 31 euro pro-capite l’anno. Considerando il tasso di inflazione, si può affermare che l’ammontare degli investimenti del piano di ambito dell’Ato 4 è pari, in termini reali, a meno della metà della media italiana degli anni '80-'90. Anche il confronto con i Piani d’ambito approvati dagli altri Ato dà i medesimi risultati, assegnando all’Ambito aretino il penultimo posto in Italia. Inoltre, il presunto indispensabile know how di Suez e di Amga non è stato considerato come normale bagaglio conoscitivo del socio privato, ma opportunamente pagato a parte con un esborso di 1,269 milioni di euro l’anno. Volgendo infine lo sguardo a costi e ricavi, si scopre dai dati relativi al quinquennio 2000-2005 come, a fronte di una sostanziale stabilità dell’acqua venduta (da 16,550 a 16,705 milioni di mc, + 0,9%), ci sia stato un incremento del totale dei ricavi pari al 50,4%.
Per assicurare questo insieme di risultati negativi la collettività ha dovuto mantenere dei cospicui consigli di amministrazione (i nove membri del Cda di Nuove Acque e i dieci consiglieri dell’Ato 4, alla incredibile media di un consigliere di amministrazione ogni 10 dipendenti di Nuove Acque) che hanno originato un costo complessivo a carico dei cittadini pari a oltre 2 milioni e mezzo di euro.


Il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

A fronte di situazioni come quella aretina, che si ripetono in varie parti del Paese, si è sviluppata una vertenza nazionale che arriva da lontano, figlia delle decine di conflitti territoriali contro la privatizzazione aperti in tutta Italia. I passi iniziali vengono mossi in Toscana, dove la realizzazione – nel novembre 2002 – del Forum sociale europeo e – nel marzo 2003 – del Forum mondiale alternativo dell’acqua consentono di sedimentare nuove consapevolezze e di dare ulteriore impulso alle capacità di radicamento territoriale delle realtà di lotta nella regione. La Toscana è stata la prima regione italiana ad applicare la Legge Galli e a scegliere il Partenariato Pubblico Privato (PPP) come modello di gestione dei servizi idrici. I risultati di queste gestioni, analizzate dai forum sociali territoriali, mettevano in radicale discussione la bontà, da molti accettata a prescindere, del cosiddetto “modello toscano”. Durante due Fori sociali toscani, nell’estate 2004 a Stia e a Piombino, i movimenti decisero di ingaggiare una lotta regionale contro la privatizzazione dell’acqua e stabilirono come strumento di questa mobilitazione la predisposizione di una legge regionale d’iniziativa popolare. La campagna di raccolta firme fu un successo: in sei mesi, tra il febbraio e l’agosto del 2005, furono raccolte ben 43 mila firme, nonostante ne fossero sufficienti – per legge – solo 3 mila, e nonostante il Comitato promotore si fosse dato l’obiettivo di 30 mila. La proposta di legge, consegnata al Consiglio Regionale, è stata da quest’ultimo respinta nell’autunno 2006.
Ma intanto un nuovo movimento era partito, e dal Lazio alla Sicilia, dall’Abruzzo alla Toscana, dalla Campania alla Lombardia si stavano moltiplicando le lotte territoriali. Tanto che, quando diversi esponenti di associazioni nazionali e di comitati territoriali (tra gli altri, Attac Italia, Comitato italiano per il Contratto mondiale dell’acqua, FpCgil, Arci, Sincobas, Confederazione Cobas, Abruzzo Social Forum, Rete toscana per l’acqua) hanno promosso, nel luglio 2005, un primo appello per realizzare il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, le adesioni si sono in brevissimo tempo moltiplicate. Cinque assemblee nazionali itineranti (Cecina, Firenze, Roma, Pescara e Napoli) hanno scandito i tempi della costruzione partecipata del Forum che, nel marzo 2006, si è infine realizzato a Roma, con più di seicento partecipanti, una pluralità di esperienze a confronto, la percezione di una possibile diffusione sull’intero territorio nazionale. L’assemblea conclusiva del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, giudicando matura l’apertura di una vertenza nazionale sul tema, ha scelto la costruzione di una legge nazionale d’iniziativa popolare come strumento di rafforzamento delle vertenze territoriali e come elemento di riunificazione delle stesse, verso un obiettivo di esplicita rottura della “gabbia” normativa attuale, che permette gestioni dei servizi solo attraverso la forma societaria della Società per azioni. Anche la scrittura del testo si è svolta con la massima partecipazione possibile, affiancando nei tavoli di lavoro tecnici ed attivisti per mettere in comune i differenti saperi e le diverse esperienze. Il testo della legge è stato approvato dall’assemblea nazionale tenutasi a Firenze il 7 ottobre 2006. La stessa assemblea ha ribadito la scelta politica dello strumento d’iniziativa popolare, proprio per attivare una campagna di raccolta firme, di iniziative e di mobilitazioni che coinvolgesse l’intero Paese. Il resto è stretta attualità: il Comitato promotore, a cui hanno aderito 70 reti e organizzazioni nazionali e più di 700 comitati territoriali, ha lanciato, a metà gennaio 2007, la Campagna di raccolta firme. Dopo tre mesi erano già 200 mila le firme raccolte, quadruplicando le 50 mila richieste per presentare in Parlamento il progetto di legge.


I contenuti della proposta di legge per la ripubblicizzazione dell’acqua

L’acqua è un bene comune e un diritto umano universale: questo è il principio fondamentale che ispira la legge di iniziativa popolare «per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque». Se l’acqua è tale, la disponibilità e l’accesso all’acqua potabile sono diritti inalienabili e inviolabili della persona; per questo la legge prevede che 50 litri per persona, il quantitativo minimo vitale giornaliero, vada garantito gratuitamente a tutti. Il servizio idrico integrato viene considerato un servizio pubblico privo di rilevanza economica, finalizzato a obiettivi di carattere sociale e ambientale, da sottrarre alle leggi del mercato e della concorrenza. Nella legge si prevede, in particolare, che la gestione possa avvenire solo attraverso enti di diritto pubblico, alle cui scelte sugli atti fondamentali devono poter partecipare i lavoratori del servizio idrico e gli abitanti del territorio. Entro tempi certi devono terminare tutte le gestioni affidate a società private, miste pubblico-privato e anche a totale capitale pubblico. Lo strumento delle Spa non assicura la tutela degli interessi pubblici: in quanto soggetto di diritto privato, infatti, necessariamente dovrà indirizzare tutte le proprie scelte di gestione in funzione dell’obiettivo del profitto, invece di quello dell’efficienza sociale, legato alla garanzia dei diritti dei cittadini.
Nella legge si afferma, inoltre, che l’acqua è un bene finito, da tutelare e da conservare perché indispensabile all’esistenza di tutti gli esseri viventi della presente e delle future generazioni. Si prevede che ogni territorio debba definire un bilancio idrico che preservi la risorsa e la sua qualità e si dettano gli indirizzi per la tutela e la salvaguardia del patrimonio idrogeologico come elemento prioritario di garanzia per la qualità ambientale e di vita delle popolazioni. È previsto un fondo nazionale per finanziare progetti di cooperazione internazionale per l’accesso all’acqua potabile nel sud del mondo, gestiti attraverso forme di cooperazione decentrata e partecipata dalle comunità locali dei paesi di erogazione e dei paesi di destinazione, con l’esclusione di qualsivoglia profitto o interesse privatistico. Da ultimo, ma non per importanza, il principio del finanziamento del servizio idrico integrato attraverso la fiscalità generale, ed in particolare attraverso strumenti definiti legati alla proporzionalità del reddito, alla riduzione delle spese militari, alla destinazione di quota parte dei prelievi dalla lotta all’evasione fiscale, a tasse ambientali di scopo.
Una legge d’indirizzo complessivo che disegna un orizzonte di tutela del bene comune acqua, ne riassegna la gestione alle comunità locali e alla partecipazione dei lavoratori e dei cittadini, e ne riafferma l’indisponibilità alle leggi del mercato.


Spunti ulteriori contro la mercificazione dell’acqua

Riteniamo importante presentare, seppur in breve, altri importanti aspetti del fenomeno della mercificazione dell’acqua. Il primo riguarda il business dell’acqua minerale, di cui noi italiani siamo i primi consumatori al mondo – con 188 litri pro capite all’anno (per un totale di quasi 11 miliardi di litri, più 1 esportato, e un giro d’affari di 3 miliardi di euro) –, un bisogno indotto dagli ingenti investimenti pubblicitari delle aziende leader del settore. Secondo un'indagine di Aegis Media ripresa da Il Sole-24 Ore a fine marzo, tra i top 100 inserzionisti pubblicitari in Italia ci sono Cogedi (marchi Rocchetta e Uliveto), che occupa la 26° posizione con 45 milioni di euro (+ 20% rispetto al 2005) e – più indietro – Nestlé divisione acque, San Benedetto, Soc. Gen. Acque minerali (Lete) e Ferrarelle.
Tra i numerosi aspetti controversi il più importante riguarda, probabilmente, il regime concessorio: in 14 regioni su 20 le aziende pagano agli Enti locali solo l’affitto del terreno da cui estraggono l’acqua che imbottigliano. Solo Piemonte, Lombardia, Veneto, Umbria, Basilicata e Sicilia, prevedono un “canone d’imbottigliamento”. Dove esistono, le tariffe variano tra 0,0003 euro per litro (in Basilicata) e i 0,003 euro per litro (in Veneto). Per esempio, in Trentino Nestlé imbottiglia ogni anno 100 milioni di litri pagando meno di 30 mila euro al comune di Peio. In ogni caso tariffe inferiori a quelle del servizio idrico integrato. Recentemente, poi, si è dato in Umbria il caso del comune di Gualdo Tadino dove la Regione ha autorizzato Rocchetta – a dispetto del nome una società multinazionale di diritto olandese – a prelevare e imbottigliare l’acqua del fiume Rio Fergia, lasciando a secco gli acquedotti delle frazioni di Boschetto e Gaifana (sulla lotta del Comitato per la difesa del Rio Fergia si veda "Altreconomia", febbraio 2007).
Volgendo invece lo sguardo al Sud del mondo, ci preme evidenziare due elementi. Il primo riguarda l’esistenza di un’iniziativa della Banca mondiale, la Public Private Infrastructure Advisory Facility (Ppiaf), nata nel 1999, i cui fondi non vengono investiti per finanziare direttamente progetti di privatizzazione, ma per “costruire consenso”, fornendo consulenze a favore della cessione al privato dei servizi idrici. In questo modo, fondi pubblici per la cooperazione multilaterale – tra i donatori del Ppiaf ci sono una dozzina di governi, tra cui, almeno fino al 2006, anche quello italiano, e la Commissione europea – vengono utilizzati per pagare consulenti che devono convincere l’opinione pubblica, eventuali partiti contrari, la stampa, i Parlamenti, ma anche i sindacati e la società civile di Paesi tra i più poveri al mondo – come Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Malawi, Zambia – sull’opportunità di privatizzare un servizio fondamentale quale appunto quello di fornitura dell’acqua. Il secondo, invece, è un invito a prestare attenzione alle molteplici forme della privatizzazione dell’acqua. Non si pensi che nel Sud del mondo, e soprattutto in ambito rurale laddove non esiste un servizio di acquedotto, non esistano forme di privatizzazione dell’acqua. Solo, questa assume forme diverse. Si pensi all’agricoltura intensiva di specie vegetali idrovore come la palma africana, alla costruzione di grandi dighe che causano lo sfollamento di migliaia o milioni di persone o alle miniere per l’estrazione di minerali preziosi, dove l’acqua è utilizzata per separare l’oro o l’argento dalla pietra, e poi re-immessa in circolo inquinata. Esistono, in tutto il mondo, Reti organizzate che si oppongono a queste forme di mercificazione dell'acqua, ed è a loro che guardiamo quando cerchiamo di individuare nostre controparti nei movimenti del Sud.

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