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Globalizzazione e povertà

Bruno Amoroso

Concetti e interpretazioni

L’introduzione del termine Globalizzazione risale agli anni Settanta, per indicare il delinearsi di un nuovo assetto del sistema economico e politico capitalistico in sostituzione di quello sino ad allora vigente. Il cambiamento ha riguardato sia gli aspetti economici e strutturali sia quelli politici.
Nei primi si è verificato il passaggio dal sistema industriale fordista a quello post-fordista. Un cambiamento rapido e radicale che correttamente è stato indicato come la «Grande Trasfigurazione» (Panikkar) rispetto alla «Grande Trasformazione» (Polanyi) che aveva segnato il passaggio dall’economia delle comunità al mercato capitalistico. Nei secondi il cambiamento è più graduale e inizia con la crisi dello stato del benessere e l’affermarsi delle nuove teorie e politiche neoliberiste e monetariste. Le teorie dell’economista inglese Keynes sono state sostituite da quelle dello statunitense Friedman.
Il concetto di Globalizzazione assume rapidamente un significato onnicomprensivo, sia temporale e spaziale sia fenomenologico, supportato dalla scelta di indicatori adatti allo scopo. Alcuni sostengono che la Globalizzazione sia sempre esistita da Marco Polo in poi: opinioni queste che riducono la Globalizzazione ad alcuni indicatori di quantità come il commercio mondiale, le migrazioni e gli investimenti esteri. Interpretazioni più ambiziose hanno visto nella Globalizzazione il punto di arrivo della storia umana (Fukuyama), confondendo probabilmente le aspirazioni di alcuni con quelle di molti. Altri, seguendo la traccia di indicatori come il commercio, le tecnologie, la finanziarizzazione, ecc. riuniscono paradossalmente nello stesso gruppo paesi come gli Stati Uniti e il Giappone con la Cina, l’India e il Brasile, appartenenti ad aree geografiche e a dinamiche economiche diverse e in conflitto tra loro. I movimenti della «società civile» in Occidente finiscono spesso, con le loro richieste di Globalizzazione dal basso, Globalizzazione dei diritti, Globalizzazione della solidarietà, con il produrre ossimori che in realtà sono dei cavalli di Troia utili alla sua legittimazione.


Cos’è la Globalizzazione

Nel corso degli anni Sessanta una serie di ricerche misero in luce un problema che sino a quel momento era rimasto nell’ombra e sfuggito quindi all’attenzione dei ricercatori: il problema del limite delle risorse naturali a disposizione e, quindi, l’insostenibilità dei paradigmi prevalenti di crescita economica che questo problema avevano ignorato. Come è noto lo sviluppismo, cioè un atteggiamento di ottimismo panglossiano sostenuto dall’idea che le tecnologie possano risolvere tutti i problemi, ha pervaso sia le teorie liberali sia quelle marxiste dalle origini del capitalismo.
Questo ha rappresentato il nucleo forte della modernità e la condizione del suo successo. Infatti, la trasformazione violenta delle comunità rurali e l’istituzionalizzazione della vita materiale con la metamorfosi della persona e della base comunitaria nella società borghese di «diritto» e nell’«individuo» non sarebbero stati possibili senza la grande promessa del progresso illimitato che avrebbe portato tutti fuori dall’“idiotismo delle campagne” e dentro i vantaggi del benessere e della ricchezza materiale. Un concetto e obiettivo di progresso che ha le sue radici filosofiche nel paradosso rinascimentale che, da un lato, contesta la centralità della terra nel sistema dell’universo ma, dall’altro, afferma la centralità dell’uomo sulla natura e su tutti gli altri esseri viventi. L’“Uomo del rinascimento” è una autocertificazione di centralità e di intelligenza rispetto al resto del “creato”, pensato docile strumento nelle nostre mani.
Dagli anni Sessanta e poi in modo crescente queste verità iniziano a vacillare fino al punto che il Club di Roma, tra gli altri, introduce esplicitamente il concetto di “Limiti alla crescita” (1972). Le drammatiche indicazioni sull’esaurirsi delle risorse materiali a disposizione per il sostenimento di un meccanismo di crescita economica capitalistico, spinto dalla molla del profitto e da una espansione illimitata della produzione e dei consumi, si coniugarono negli anni Sessanta con quelle relative alla crescita demografica. Non fu complicato dimostrare che una progressiva estensione del mercato capitalistico dai paesi industrializzati comprendenti meno di un miliardo di persone ai 7 miliardi previsti per l’inizio del nuovo secolo non era una strategia realistica e perseguibile.


La sfida della Mondialità

Questa nuova conoscenza ha prodotto la percezione della maggiore interdipendenza esistente a livello mondiale tra stati, popoli e comunità. Questo fenomeno è la Mondialità, e diviene un movimento che suscita domande alle quali dare risposte. È opinione diffusa che a questi segnali i paesi ricchi e maggiormente industrializzati non hanno dato adeguata attenzione fino al punto attuale di non ritorno per la salute del pianeta. A mio avviso è vero il contrario: a queste denunce i paesi industrializzati hanno dedicato grande attenzione e questo costituisce la ragione centrale della trasformazione del paradigma capitalistico di modernizzazione in quello della Globalizzazione.
Alla risposta data dal capitalismo con la Globalizzazione, e a volte in conseguenza di questa, si affiancano due altre risposte, conflittuali con la prima: l’Universalizzazione e la Mondializzazione. Le risposte possibili per i paesi capitalistici erano almeno due e alternative tra loro: primo, abbandonare il modello del mercato capitalistico e della sua progressiva estensione nel mondo per rielaborare forme di organizzazione dell’economia e dei mercati compatibili con i criteri di sostenibilità; secondo, riformare il modello di accumulazione capitalistico per garantirne la sopravvivenza e il funzionamento in coerenza con i suoi obiettivi resi compatibili con i limiti delle risorse.
La seconda opzione fu quella adottata con la Globalizzazione, cioè con un modello che restringe l’area della crescita ai paesi capitalistici avanzati (cioè alla Triade costituita da Giappone, Stati Uniti e Unione Europea) e al nucleo ricco dei consumatori (cioè a 700 milioni di individui), e spinge verso la marginalizzazione il “resto del mondo”, cioè 6 miliardi di persone. Questo modello di Apartheid Globale è quindi l’opposto di quello del “Villaggio globale” esposto dalla retorica corrente (Amoroso 1998). Questa scelta non può che produrre situazioni drammatiche di marginalizzazione economica e destabilizzazione politica con il seguito prevedibile di conflitti, migrazioni e guerre. Questi eventi producono la diversa risposta dell’Universalizzazione, cioè della società civile organizzata e degli stati nazionali che cercano di alleviare gli effetti negativi di queste politiche sui propri paesi, sulle popolazioni e sulla stessa natura. Una risposta che si fa carico del benessere degli abitanti del pianeta difendendone le prerogative e le forme di vita sin qui conquistate, e proponendo l’estensione dei risultati raggiunti in Occidente in alcuni settori anche ad altre aree mondiali. L’Universalizzazione non è una proposta alternativa alla Globalizzazione, ma il tentativo di tenere il capitalismo dentro i confini delle sue forme di evoluzione sin qui seguite.
L’alternativa va cercata nella Mondializzazione che, rispetto all’Universalizzazione, contrasta il tentativo della Globalizzazione di ricostruire un livello di sostenibilità del capitalismo mediante l’Apartheid Globale (Figura 1). Come illustrato nella figura 1 la Globalizzazione segna una svolta epocale nella storia del capitalismo giustamente individuata come la “fine dello sviluppo”, che subisce una accelerazione per i paesi del Nord e un regresso nel Sud. Al contrario la Mondializzazione si muove in direzione opposta a quella della Globalizzazione, avvicinando la linea del percorso dei vari paesi verso quella ottimale della ripartizione equa delle risorse. Questa tendenza è oggi rappresentata da paesi e stati che seguono una linea indipendente e originale di emancipazione come la Cina, l’India, il Venezuela, Cuba, l’Iran, ecc.


FIGURA 1 – Forme storiche dell’internazionalizzazione

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La Globalizzazione ha il suo avvio negli anni Settanta e conosce nei decenni successivi fasi diverse (Tabella 1).
La tabella è utile perché consente di collocare fenomeni e concetti spesso usati in ordine sparso e senza apparente connessione in una sequenza logica e storica di eventi che tuttora influenzano il dibattito.


TABELLA 1 – Le fasi della Globalizzazione

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Globalizzazione e povertà 1970-2007

Dai dati sin qui presentati emergono alcune considerazioni sul rapporto esistente tra globalizzazione e povertà. Nelle fasi precedenti dello sviluppo capitalistico la povertà era considerata un residuo del passato, del mondo rurale e preindustriale, che la modernità e l’industria con il loro seguito di benessere avrebbero gradualmente eliminato. I fatti da un lato confermarono questa tendenza, dall’altro indicarono che se il mercato capitalistico era in grado di far evolvere forme di povertà verso un benessere relativo produceva anche un degrado di parte di queste verso la miseria, cioè una nuova forma di povertà condannata all’esclusione sociale.
La Globalizzazione cambia la direzione dello sviluppo. Restringe l’area dello sviluppo capitalistico a un numero ristretto di aree geografiche (i paesi della Triade) e all’interno di questi produce fenomeni di “nuova povertà” a seguito della destabilizzazione dello stato del benessere. Quindi con la Globalizzazione la povertà dei paesi fuori della Triade e il precipitare verso la miseria di strati crescenti della popolazione, sia dei paesi industrializzati sia di quelli fuori della Triade, non è un effetto collaterale da risanare nel corso del tempo, ma l’obiettivo perseguito.
A queste considerazioni deducibili dal quadro teorico e generale sin qui illustrato si aggiungono i fatti registrabili. È ampiamente condivisa la valutazione che le condizioni di vita della parte più povera della popolazione mondiale sono peggiorate nel corso degli ultimi decenni e che gli obiettivi di sviluppo che ci si era posti per il millennio (MDGs) per la lotta alla povertà si rivelano irraggiungibili. La situazione della povertà nel mondo sarebbe ulteriormente peggiorata se nel contempo non si fossero affermati orientamenti diversi che hanno consentito alla Universalizzazione e alla Mondializzazione di generare effetti positivi per la lotta alla povertà, come sta avvenendo in Vietnam, in Cina e in altri paesi poveri.
È interessante constatare che è nei paesi che si sono sottratti alle ricette delle istituzioni della Globalizzazione (il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio), e cioè alle indicazioni del “Consenso di Washington” basate su politiche di liberalizzazione e privatizzazione, che si stanno ottenendo i risultati migliori sia per la crescita economica sia per la povertà. Le politiche della Globalizzazione (aggiustamenti strutturali, gestione del debito estero, liberalizzazione del commercio mondiale, crisi finanziarie, ecc.) portate avanti dalle proprie istituzioni (OMC, FMI e BM) non hanno dato spazio nelle loro iniziative alla riduzione della povertà, con il risultato che la distanza tra ricchi e poveri è in aumento e si registra un continuo incremento del numero dei poveri nel mondo (Stiglitz 2002: xiv). Nel corso dell’ultimo decennio del XX secolo, a fronte di una crescita del reddito totale mondiale annuo del 2,5%, il totale delle persone che vivono in povertà è aumentato di 100 milioni (ivi: 5).
Indagini recenti confermano la continuazione di questi trend. “The Economist” in una sua recente rassegna osserva che: «un mix velenoso di ineguaglianza e bassi salari minaccia la Globalizzazione» (The Economist, January 20th, 2007: 11). Gli studi dedicati alla individuazione dei vincitori e vinti nella “competizione” della Globalizzazione mostrano l’impoverimento dei ceti medi e il peggioramento degli strati più poveri della società in tutti i paesi (Amoroso – Gomez y Paloma: 2007). La reintroduzione su larga scala della povertà nei paesi industrializzati e di alto reddito ha prodotto che all’inizio del decennio in corso negli Stati Uniti 32 milioni di persone avevano una aspettativa di vita alla nascita inferiore ai 60 anni; 40 milioni erano sprovvisti di ogni forma di assicurazione per malattia, 45 milioni viveva in condizioni sotto la “soglia della povertà” e infine 52 milioni erano analfabeti (ivi: 58-59). Nel 1999 il “modello sociale europeo”, così spesso decantato, faceva registrare 50 milioni di poveri e 18 milioni di disoccupati tra i cittadini dell’Unione Europea (Carniti 2001: 20).


Il dibattito sulla povertà

La crescita sia assoluta sia relativa della povertà nel mondo ha alimentato numerosi dibattiti. Un tema tanto più scottante se si pensa che l’introduzione delle nuove tecnologie nel corso degli ultimi trenta anni è stata legittimata con i vantaggi che queste avrebbero apportato, tra l’altro, al miglioramento delle condizioni di vita e all’abolizione della povertà (Zupi, 2003: xi and xxv; Acocella, 2005). Tuttora gli economisti della Banca Mondiale sostengono gli effetti positivi della Globalizzazione sulla povertà (Dollar - Kraay, www.worldbank.org). La loro tesi è che dal 1975 l’ineguaglianza nel mondo è diminuita soprattutto grazie alla rapida crescita economica in India e in Cina, il che dimostrerebbe il vantaggio dei paesi che entrano nella globalizzazione ("globalizers”) rispetto a coloro che vi resistono (“nonglobalizers”) (Dollar - Kraay, 2002).
Il paradosso creato da questa confusione concettuale, che confonde fenomeni tra loro diversi (Globalizzazione e Mondializzazione) e che include nel proprio sistema di calcolo politiche e stati spesso criticati dagli stessi autori neo-liberali per il loro rifiuto si sottomettersi ai dettami della Globalizzazione, è stato efficacemente segnalato da James K. Galbraith:

È incredibile sostenere che l’India, la Cina e il Vietnam dovrebbero costituire tre dei cinque esempi maggiori di successo della Globalizzazione. Il successo relativo dell’India iniziò negli anni Ottanta, grazie sia a un rigido controllo sui capitali sia a misure statali di sostegno di lungo periodo allo sviluppo che hanno protetto il paese dalle crisi del debito che hanno invece colpito l’America Latina e altri paesi. La Cina è cresciuta agli inizi sulla spinta di riforme agricole e in seguito grazie a un programma di industrializzazione finanziato soprattutto dal risparmio interno; tuttora il paese non ha liberalizzato il movimento dei capitali. La Cina e il Vietnam sono tuttora sotto il controllo dei loro partiti comunisti, il che significa che questi paesi non aderiscono in nessun modo al “Consenso di Washington” (Galbraith, 2002).

Al contrario i paesi che sia in Asia sia in altre aree mondiali hanno seguito le raccomandazioni del Fondo Monetario e della Banca Mondiale (Argentina, Russia, ecc.) sono stati colpiti da crisi finanziarie e politiche che ne hanno minato le basi economiche (Galbraith, ibidem).
La crescita delle ineguaglianze alla fine del secolo scorso ha trovato numerosi riscontri. La quota del reddito mondiale del 10% più ricco è aumentata dal 48% al 52% durante il periodo 1988-1993, mentre quella del 10% più povero è diminuita tra il 0,80% e il 0,64% (Wade, 2001). Nel periodo di affermazione della Globalizzazione (1993) il reddito medio annuo dei maggiori paesi industrializzati ammontava a 11.500 USD pro capite, mentre quello della maggioranza della popolazione mondiale era inferiore ai 1.500 USD. Le classi medie sono diminuite e rappresentano una quota minoritaria della popolazione mondiale.
Alle base di questo fenomeno c’è l’ineguaglianza nei rapporti di scambio dei prodotti nel commercio mondiale, che si è accresciuta (Wade, 2001: 82).


Conclusioni

Le previsioni di una riduzione sensibile della povertà poste alla base degli obiettivi di sviluppo del millennio (MDGs) hanno poche possibilità di realizzazione. La povertà è certamente un fenomeno precedente alla Globalizzazione, ma tutte le politiche messe in atto negli ultimi decenni per ridurre il fenomeno si sono rivelate inefficaci. La Globalizzazione ha aggiunto ai fenomeni tradizionali di povertà (dualismo nei paesi industrializzati e arretratezza nei paesi a economia tradizionale del terzo mondo) nuove dimensioni, rappresentate dal precipitare dalla povertà alla miseria di vasti gruppi umani nei secondi e dall’impoverimento dei ceti medi nei primi dovuto alla crisi dei sistemi di welfare. Questo è il prodotto delle nuove strategie di crescita economica nel mondo ricco sviluppate dalla Globalizzazione che incentivando l’innovazione (la Società della Conoscenza), la flessibilità del lavoro (Workfare e Flexicurity), liberalizzando i movimenti di capitale e delle merci, stanno ridisegnando la mappa della povertà e la sua distribuzione.
Le reazioni a queste tendenze non mancano. Già dalla fine del secolo scorso la crescita asiatica, il risveglio dell’America Latina e in Africa, la mobilitazione della società civile in Europa e nel Mondo Arabo, laddove le politiche dei governi si rivelano più deboli, stanno modificando il quadro.
Lo scontro di civiltà iniziato dal 2001 con l’avvio della terza guerra mondiale dei paesi occidentali contro il resto del mondo in difesa dell’Apartheid globale ne è espressione tangibile. La povertà non è più un fenomeno che si può combattere riducendone l’estensione. Il problema non è la povertà ma la ricchezza e l’uso sconsiderato che ne fanno i paesi occidentali e questo porta il livello dello scontro ben oltre i limiti tradizionali delle politiche sociali e degli ammortizzatori sociali.
La varietà e complessità di strutture economiche, di mercato, di consumo e degli attori impegnati sulla scena mondiale è illustrata nella tabella 2.


TABELLA 2 – Sistemi di produzione, mercati e attori

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Questa tabella aiuta a percepire la complessità e molteplicità dei processi in corso e degli attori coinvolti, testimoniando che l’economia mondiale è interpretabile e rappresentabile nel quadro teorico del policentrismo e non in quello della Globalizzazione. La Globalizzazione rappresenta l’anomalia del sistema e la sua incapacità di concepirsi parte di un pluriverso più complesso costituisce oggi il maggiore fattore di conflitto e di scontro a livello mondiale.


Letteratura

— N. ACOCELLA, Globalizzazione, povertà e distribuzione del reddito, “Studi e Note di Economia”, 2005.
— B. AMOROSO – S. GOMEZ Y PALMA, Persone e Comunità Gli attori del cambiamento, Dedalo, Bari 2007.
— D. DOLLAR – A. KRAAY, Growth is good for the poor, www.worldbank.org.
— D. DOLLAR – A. KRAAY, Spreading the Wealth, “Foreign Policy”, January - February 2002.
— P. CARNITI, La società dell’insicurezza. Lavoro, disuguaglianze, globalizzazione, Città Aperta, Troina (En) 2001.
— K. J. GALBRAITH, By the Numbers, “Foreign Affairs”, 2002.
— P. NEL, The Return of Inequality, “Third World Quarterly”, vol. 27, 2006.
— J. STIGLITZ, La Globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002.
Rich Man, poor man, “The Economist” (January 20th, 2007), London.
— R. WADE, Global inequality. Winner and losers, “The Economist” (2001), London.
— M. ZUPI, Si può sconfiggere la povertà?, Laterza, Roma-Bari 2003.



Suggested Reading

— S. AMIN, Imperialism and Globalization, “Monthly Review”, 53 (2), 2001.
— B. AMOROSO, Della Globalizzazione, la meridiana, Molfetta 1998.
— B. AMOROSO, Apartheid Globale, Edizioni Lavoro, Roma 2003.

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