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Il cambiamento climatico come oggetto culturale:
scienza, politica e incertezza

Luigi Pellizzoni

Introduzione

Il cambiamento climatico fa parte della congerie di temi che compongono la “questione ambientale”. Tale area problematica si è andata definendo dopo la seconda guerra mondiale. Non che prima certi fenomeni non esistessero, o nessuno ne fosse consapevole. Ma si trattava di temi circoscritti, di cui discutevano gli specialisti. I problemi ambientali salgono alla ribalta del grande pubblico, gradualmente ma rapidamente, grazie a una varietà di fattori: eventi eclatanti (incidenti, esperimenti nucleari ecc.), libri scientifico-divulgativi (come il celebre Primavera silenziosa [1] che negli anni ’60 attira l’attenzione sugli effetti a lungo termine dei pesticidi), le campagne promosse da un ecologismo che da istanza elitaria si trasforma in movimento di massa.
Un problema sociale è un «oggetto culturale», ossia «un significato condiviso incorporato in una forma, [ossia] una espressione significativa che è udibile, o visibile, o tangibile, o che può essere articolata. Un oggetto culturale, inoltre racconta una storia […] [ed] è il risultato di una decisione analitica che noi compiamo in quanto osservatori; non è qualcosa di intrinseco all’oggetto stesso» [2]. Un problema sociale, dunque, non è semplicemente un accadimento o un oggetto fisico, ma la trasformazione di tale oggetto o accadimento in qualcosa fornito di senso per una data collettività in quanto inscritta in una cornice di idee, valori, istituzioni. In questo prospettiva l’idea di cambiamento climatico come processo dovuto a cause fisiche rilevabili empiricamente è un oggetto culturale.
I problemi sociali hanno una propria carriera: nascono, si sviluppano, declinano, risorgono. L’arena pubblica è teatro di una competizione tra questioni “potenziali”. Essa riguarda sia la definizione di un tema (dunque implicitamente la sua soluzione e, di conseguenza, chi se ne deve occupare) che la cattura dell’attenzione delle istituzioni (media di massa, governo ecc.). Per diventare problemi pubblici i temi devono poter essere drammatizzati, trattare aspetti mitici radicati in una cultura ed essere politicamente vitali in quanto sostenuti da gruppi di interesse (in senso ampio: non solo economico o politico ma anche culturale, ideologico, religioso ecc.) [3].
Pensiamo al caso del clima. Fenomeni atmosferici vissuti come “insoliti” si prestano facilmente a essere drammatizzati, rivitalizzando periodicamente un tema che attraversa fasi di declino legate alla sua percepibilità e alla competizione con altre problematiche, ambientali e non [4]. La mitologia del cataclisma e della fine del mondo è radicata in molte culture; in quella occidentale essa viene spesso tematizzata in termini di effetti della hybris, l’orgoglio, l’arroganza, il desiderio di onnipotenza degli umani. Infine, il ventaglio degli interessi coinvolti va dalla politica al mondo degli affari, dalla scienza all’ambientalismo militante.
Nel presente contributo guardo al problema del cambiamento climatico come oggetto culturale concentrandomi su due aspetti, l’incertezza e il rapporto tra scienza e politica, per concludere sull’interesse di una analisi narrativa della questione.


Clima e incertezza

Uno dei tratti salienti del cambiamento climatico, come di numerosi altri temi ambientali, dal confinamento delle scorie radioattive alle implicazioni delle nanotecnologie, è la notevole incertezza che circonda la questione. Incertezza che alimenta le discussioni, spesso vere e proprie polemiche, a livello scientifico, politico e di opinione pubblica. Essa riguarda l’effettiva esistenza del fenomeno e le sue dinamiche (le variazioni che osserviamo sono frutto di oscillazioni “naturali” o segno di mutamenti strutturali? perché il riscaldamento riscontrato è inferiore a stime considerate attendibili?), le cause (qual è il contributo antropico? quali fenomeni biofisici rivestono la maggiore importanza?), l’entità (si tratta di processi reversibili o si è già superata una soglia di non ritorno?), gli indicatori da utilizzare (conta più la circolazione atmosferica o quella delle acque marine?), le conseguenze dirette e indirette (frequenza e intensità delle precipitazioni, effetti su biodiversità e fertilità, costi economici e sociali ecc.), le strategie di reazione (adattive o reattive? meglio provare ad adeguarsi ai mutamenti riducendone gli effetti negativi e sfruttandone le opportunità oppure tentare contromisure?). Persino la definizione del problema è controversa: «qualsiasi cambiamento climatico nel tempo, sia esso dovuto alla variabilità naturale o il risultato dell’attività umana» [5], o «cambiamento climatico attribuito direttamente o indirettamente all’attività umana […] che si aggiunge alla variabilità climatica naturale osservata lungo periodi di tempo comparabili» [6]?
La parola incertezza può significare varie cose. Possiamo innanzitutto distinguere tra rischio, situazione in cui un evento non è certo ma la sua probabilità può essere calcolata, e incertezza, situazione in cui ciò non è possibile, a causa di una informazione inadeguata: perché mancante, benché disponibile (a un certo costo), perché non disponibile, perché non si riesce a selezionare quella rilevante. Ciò può avvenire in quanto le interazioni tra gli elementi di un sistema hanno proprietà non derivabili direttamente dalla loro combinazione. Per descrivere questa situazione si usa spesso la parola complessità. Il clima sembra rientrare a pieno titolo in questa categoria, tant’è vero che nonostante le risorse investite la modellizzazione delle dinamiche climatiche è tuttora insoddisfacente [7]. Esso si presta a essere descritto anche in termini di “indeterminazione”, situazione in cui le catene causali sono aperte e gli esiti finali sono legati a variabili intervenienti non specificate o non precisate nel loro comportamento. Si pensi al ruolo dell’innovazione tecnologica nel ridurre gli impatti antropici: potenzialmente cruciale ma difficilissimo da prevedere [8]. Ancora, possiamo configurare il cambiamento climatico come qualcosa su cui siamo profondamente ignoranti, nel senso che non solo non ne sappiamo abbastanza ma non sappiamo nemmeno quanto sia vasto il nostro non-sapere e quanto questo cono d’ombra sia rilevante per le decisioni che dobbiamo prendere. Le diatribe sul clima, inoltre, evidenziano l’esistenza di disaccordi sul modo in cui la questione va definita, sui metodi osservativi, sulla scelta e l’interpretazione dei dati, o di vera e propria ambiguità nel senso che la definizione stessa del problema e la descrizione e la salienza dei fatti ad esso relativi non sono del tutto chiari.
Complessità, indeterminazione, ignoranza, disaccordo, ambiguità sono declinazioni dell’incertezza che assumono rilievo a seconda dei momenti e dei punti di vista. È importante tuttavia chiedersi: perché sul clima permane una incertezza profonda? In fondo, noi sappiamo molte più cose di quante ne sapevano gli antichi o i nostri padri, o di quanto ne sapevamo noi stessi tempo fa. Perché quello che sappiamo non basta, né sembra bastare mai?
La cosa pare legarsi innanzitutto al modo in cui ci accostiamo al sapere. Un conto è la conoscenza contemplativa tipica degli antichi; un conto la conoscenza attiva dei moderni. Una conoscenza che connette strettamente scienza e tecnica proprio in quanto mira al dominio del mondo. Il concetto stesso di rischio è di origine recente e dipende dalla maniera moderna di intendere il soggetto del conoscere, quale centro autonomo di volizione. Si corre un rischio (piuttosto che un pericolo) solo quando il verificarsi di un evento è (percepito come) legato a una decisione [9]. La salienza dell’incertezza si lega quindi alle aspettative di controllo e gestione della natura e della società, ossia alla portata delle decisioni. L’incertezza aumenta non nonostante ma a causa dell’incremento del sapere, poiché tale incremento apre (la percezione di) ulteriori spazi di scelta.
Se la salienza dell’incertezza dipende dal modo in cui guardiamo il mondo, essa è comunque nel mondo – o no? Nel dibattito in corso troviamo due posizioni ben distinte. Secondo la prima la salienza dell’incertezza dipende dalle caratteristiche dei problemi di cui la scienza si occupa. Già all’inizio degli anni ’70 si parlava di “trans-scienza” per definire questioni cui il classico metodo sperimentale (prova ed errore confinati in laboratorio, ossia in condizioni di isolamento dal mondo naturale e sociale) non può essere applicato a causa della natura dei fenomeni e della posta in gioco [10]. Nel caso del cambiamento climatico i fenomeni studiati non sono in effetti riproducibili in laboratorio e la posta in gioco nella scelta di una qualsiasi strategia d’azione è elevatissima. Una variante di questa posizione è quella per cui la salienza dell’incertezza dipende dai caratteri dell’impresa scientifica, nella misura in cui il suo avanzare produce disunità, diversificazione dei saperi legittimamente applicabili a un medesimo ambito di indagine. È perché si sa di più e meglio, perché si fa buona e non cattiva scienza, che si è più incerti su quale sia il sapere correttamente applicabile a una questione. Vi è insomma un eccesso e non un difetto di conoscenza obiettiva [11]. L’altra posizione sostiene che incertezza e posta in gioco non sono indipendenti l’una dall’altra ma intimamente legate. Al crescere della prima cresce la seconda, e viceversa [12]. In altre parole, l’incertezza scientifica è connessa all’asprezza delle controversie politiche e le alimenta a sua volta: «Le stime di incertezza sono in parte una misura dello stato psicologico di chi le compie, a sua volta influenzato dal contesto politico» [13]. Che l’aumento delle conoscenze non riduca necessariamente l’incertezza saliente non lo si riscontra solo nel caso del clima. Dopo decenni di studi sul percolamento di agenti inquinanti dai depositi di rifiuti, per esempio, la certezza al riguardo è diminuita invece di aumentare [14]. Al tempo stesso, l’intensità di una controversia spinge verso l’acquisizione di ulteriori conoscenze. L’innalzamento del livello di istruzione e la maggiore circolazione dell’informazione tramite le reti informatiche non fanno poi che accrescere la possibilità che, di fronte a una questione politicamente controversa, il sapere che in altre circostanze sarebbe stato considerato “solido”, adeguato allo scopo, divenga insufficiente e che aumenti la sensibilità verso i modelli prescrittivi tacitamente imposti dagli esperti sotto forma di assunzioni rispetto a ciò che è da considerare normale, buono, giusto, desiderabile, che fanno da sfondo alle valutazioni tecniche.


Scienza e politica

Sul cambiamento climatico pare possibile dire tutto e il contrario di tutto: sostenere l’origine antropica o non antropica del fenomeno; fare previsioni catastrofiche o lamentare l’azione di un danger establishment, composto da scienziati, giornalisti, politici, burocrati, organizzazioni ambientaliste e altri soggetti che hanno interesse a esagerare il problema o sono pregiudizialmente contrari all’innovazione [15]. Le argomentazioni scientifiche non sembrano insomma in grado di sostenere autorevolmente la decisione politica ed è diventato quasi un luogo comune, almeno nella letteratura specialistica, lamentare il calo di credibilità del sapere scientifico. La situazione sembra schizofrenica. Come nota un documento della Commissione Europea, «i cittadini nutrono nei confronti della scienza aspettative sempre più grandi […] [tuttavia] il progresso della conoscenza e delle tecnologie si scontra con un crescente scetticismo, se non addirittura con ostilità» [16]. Nel caso del cambiamento climatico, l’erosione di credibilità del sapere tecnico-scientifico giunge, per così dire, ai massimi livelli. Il protocollo di Kyoto è stato notoriamente rigettato da paesi come gli Stati Uniti sulla base di considerazioni che pertengono tanto alla diagnosi (effettiva portata del problema) quanto alla terapia (efficacia e equità delle misure di contenimento delle emissioni). Da una parte, insomma, pare che la gente si affidi sempre più a quello che dicono gli esperti (in particolare gli scienziati) pur fidandosi sempre meno di loro. Dall’altra pare che neppure i politici prendano per oro colato quello che dicono gli esperti, o meglio prendono per buono quello che dicono i propri esperti contestando quello che dicono gli esperti degli altri. Lo stesso argomento dell’incertezza può essere usato in modo opposto: per chiedere una maggiore apertura dei processi decisionali o proteggere l’autorità della scienza sollecitando ulteriori risorse al fine di conseguire una conoscenza adeguata [17].
In termini sociologici la questione va collocata a mio avviso nel tema della divisione del lavoro, l’attribuzione del diritto a occupare certe posizioni sociali, gestire determinate questioni, accedere a particolari risorse. La crisi della scienza segnala un problema che riguarda la solidarietà sociale, l’insieme di valori e regole condivise che rendono possibili «processi di tipo cooperativo attraverso cui un gruppo sociale si difende da minacce esterne e soddisfa i bisogni sociali fondamentali dei propri membri» [18]. La solidarietà si fonda sul senso di appartenenza e l’assunzione collettiva di responsabilità. Più è forte la solidarietà più la delega è in bianco. Crisi di solidarietà significa che il “noi” su cui si fonda un dato assetto sociale viene avvertito come problematico; la responsabilità (in particolare per eventi indesiderati e infausti) non è più assunta collettivamente ma attribuita esclusivamente o prioritariamente a chi controlla, decide, agisce. Se le cose vanno male non è più (o è sempre meno) nonostante gli sforzi degli esperti, ma per via degli esperti (o degli esperti degli altri).
Per comprendere le ragioni della crisi occorre definirne lo sfondo. L’orientamento di politica scientifica alimentato nel periodo bellico dai grandi progetti per lo sviluppo del radar e della bomba atomica e affermatosi pienamente nel secondo dopoguerra descrive un modello lineare secondo il quale la ricerca di base porta alla ricerca applicata, a sua volta destinata a produrre risultati concreti [19]. L’idea stessa di “ricerca di base” nasce dalla contaminazione tra ideale ottocentesco di “ricerca pura” e necessità di finanziamenti ingenti per sostenere gli apparati tecnici e organizzativi indispensabili al procedere dell’attività scientifica; risorse che tuttavia i governi sono riluttanti a fornire in assenza di prevedibili benefici concreti. La scienza ha sempre più bisogno della politica. Ma pure la politica ha sempre più bisogno della scienza, sia per ragioni strategiche, sia in relazione a obiettivi di policy (energia, sanità, trasporti ecc.), sia ancora per l’impatto sociale dell’innovazione tecnologica, che richiede continui interventi regolativi [20].
Terzo elemento dell’intreccio, e con un ruolo di crescente importanza, è il mondo dell’industria e degli affari, cosa facilmente comprensibile dato il valore riconosciuto all’avanzamento tecnico-scientifico per la crescita economica e la necessità di reperire risorse sempre più cospicue per la ricerca. Quella che alcuni chiamano «seconda rivoluzione scientifica», con riferimento alla diffusione di una concezione privatistica e economica della proprietà intellettuale (si pensi all’estensione della normativa sui brevetti industriali al settore delle biotecnologie) e l’affermarsi della cosiddetta «tripla elica», espressione che si riferisce alle relazioni sempre più strette tra governi, industria e università [21], costituiscono gli esiti più recenti di tale processo. La politicizzazione della scienza va quindi al di là del suo coinvolgimento nelle dinamiche del conflitto politico (politics) estendendosi all’ambito delle politiche (policies), le azioni concrete poste in essere da attori pubblici e privati. La «doppia retorica» [22] della scienza, per cui si reclama l’indipendenza del lavoro scientifico dagli umori sociali pur affermandone le primarie implicazioni per l’economia e la vita dei cittadini, cela un viluppo di interessi scientifici, politici e economici che si supportano a vicenda.
Se questa è la cornice, si comprendono le ragioni della crisi di credibilità del sapere tecnico-scientifico. Da un lato l’intreccio sempre più stretto tra politica, affari e scienza mette in dubbio una delle basi della legittimazione di quest’ultima: il disinteresse. «La scienza era accettata come fonte indipendente di conoscenza e benefici pubblici, ma ora viene vista sempre più come uno strumento di profitto e di potere» [23]. Dall’altro l’intensificarsi, per numero e portata, di effetti perversi e imprevisti dell’uso delle tecnologie in relazione all’estensione delle pretese di controllo del mondo incrina la credibilità della promessa di efficacia e efficienza da cui pure l’expertise tecnico-scientifica trae legittimazione. Da un lato, quindi, la scienza appare “partigiana”, dall’altro non all’altezza delle promesse o delle attese. Quali soluzioni vengono prospettate? Nel dibattito in corso si colgono a mio avviso due linee principali. La prima ritiene che si possa e si debba perseguire l’ideale di una sound science, che si occupa di fatti lasciando i valori alla politica. La versione tradizionale di questa posizione è che la “vera” scienza non abbia nulla a che fare con la politica. La politicizzazione della scienza è una deriva negativa cui occorre reagire. A istituzioni come l’IPCC si chiedono “fatti”, non valutazioni o programmi politici. Una versione di questa posizione, più aggiornata rispetto a ciò che storici e sociologi hanno mostrato sul modo in cui la scienza effettivamente funziona, ammette che quest’ultima, come tutte le attività umane, non è aliena dalla politica. Il problema sta nel modello lineare sopra citato, che vede nell’accertamento di fatti incontrovertibili il presupposto di decisioni politiche altrettanto incontrovertibili. In tal modo «i dibattiti scientifici si rivelano in realtà come dibattiti politici, perché la conclusione del dibattito scientifico comporterà la soluzione del conflitto politico» [24]. La scienza diviene così una maniera per fare politica, celando dietro ai “dati” ciò che in realtà è un conflitto di valori, motivando con argomenti di fatto scelte di principio. Nel caso del clima, gli studi che indicano un legame tra gas serra e mutamento climatico vengono spesso letti dagli oppositori del protocollo di Kyoto come un sostegno a quest’ultimo e viceversa per gli studi che mettono in dubbio tale legame. Il punto è che «il dissenso sulla scienza non esclude un consenso sull’azione, come l’accordo sulla scienza non esclude divergenze di vedute sull’azione» [25]. In altri termini, l’incertezza non impedisce la decisione politica né la certezza la facilita. Obiettivo della scienza non è dirimere controversie politiche, ma ampliare la gamma delle alternative di policy, distinguendo quelle compatibili da quelle incompatibili con i risultati scientifici. Gli scienziati devono agire da “onesti mediatori” mettendo in luce «il maggior numero possibile di alternative di policy fra cui i decisori politici e la comunità sociale possano scegliere» [26]. Detto altrimenti, “la politica ci aiuta a decidere la direzione da prendere; la scienza a focalizzare lo sguardo” [27].
Perno di questa posizione è, come si vede, la distinzione tra politics, area del conflitto politico in cui lo scienziato interviene con le proprie opzioni di valore come qualunque altro cittadino, e policy, area della decisione sugli affari pubblici dove l’analisi dello scienziato può fornire elementi oggettivi di valutazione. Ma è realmente possibile tale distinzione? Se è vero che «ogni policy contiene elementi di politica perché le trattative e il compromesso finale hanno come oggetto uno specifico complesso di azioni» [28], in che modo si può distinguere l’una dall’altra se non ricorrendo ai vecchi buoni “fatti incontrovertibili” della visione tradizionale della scienza, con gli inconvenienti del caso (tecnocrazia o occultamento delle scelte politiche dietro alle opzioni tecniche)?
La visione alternativa che emerge dal dibattito sostiene infatti che ciò non è possibile, o lo è tanto meno quanto più la scienza si addentra nel terreno della policy, diventando regulatory o corporate science. Ciò, se non altro, perché i tempi del policy-making non coincidono con quelli della ricerca: quanto più l’azione è impellente tanto più è facile che il consenso scientifico verta su elementi più simili alle evidenze indiziarie di un processo che a fatti conclusivi [29]. Soprattutto, se incertezza e posta in gioco sono l’una in funzione dell’altra; se ordine naturale e ordine sociale sono “co-prodotti” nel senso che «il modo in cui conosciamo e rappresentiamo il mondo (sia la natura che la società) è inseparabile dal modo in cui decidiamo di viverci» [30]; se, come sostenevano più di cento anni fa i filosofi pragmatisti, conoscere è agire e dunque il sapere non è indipendente dagli obiettivi per cui si vuole sapere; allora la possibilità di distinguere in modo nitido politics e policy è relegata a temi su cui le controversie politiche sono di minor conto. E questo non è il caso del clima. Naturalmente in questo modo si ripropongono per intero gli inconvenienti della politicizzazione della scienza e delle relative dinamiche di potere. Il disvelamento della politicità della scienza corrisponde, in qualche misura, alla perdita dell’ombrello protettivo fornito agli interessi “deboli” dalla produzione di un sapere temporaneamente accettato come solido e indiscusso. Se tutte le voci sono egualmente partigiane allora quella che grida di più è facilmente in grado di avere la meglio.


Clima e narrazioni

L’«eccesso di obiettività» [31], l’impiego dei dati a sostegno di tesi contrapposte, sembra produrre in definitiva gli stessi risultati che la sua carenza, la negazione che esistano dati oggettivi in quanto tali. Non ho risposte a un dilemma che nel caso del cambiamento climatico si profila in tutta evidenza e che, nei termini suggeriti, più che una deriva scientifica segnala un problema relativo alla divisione del lavoro, un indebolimento dei fondamenti della solidarietà nella società odierna.
Ho accennato all’inizio che il problema del cambiamento climatico costituisce un oggetto culturale nella misura in cui esso non si dà spontaneamente ma implica assunzioni di partenza (per esempio è una questione naturale piuttosto che soprannaturale) e richiede attribuzioni di senso a eventi e processi. Negli ultimi anni è emersa con chiarezza l’importanza della discorsività, quale insieme di risorse (argomenti, immagini, testi ecc.) cui si ricorre per negoziare definizioni della realtà e dei problemi (problem-framing) e la conseguente utilità di una analisi narrativa delle policy: un’analisi, cioè, delle storie che gli attori usano per fronteggiare incertezza e polarizzazione delle posizioni e dare un senso al proprio agire [32].
Se testi o enunciati linguistici sono narrativi nella misura in cui includono una storia e una storia è una serie di eventi legati assieme da un ordinamento cronologico e da un principio di coerenza logica [33], vale la pena di chiedersi quali siano le narrazioni nei riguardi del cambiamento climatico. Anche restando nell’ambito di quelle che riconoscono la sussistenza e la serietà del problema, il panorama si presenta alquanto variegato e include narrazioni legate direttamente e indirettamente al tema. Tra le seconde vi è quella per cui se la scienza moderna «si è sviluppata sulla base di un contratto tacito tra, da un lato, scienza e istituzioni responsabili di essa, e dall’altro la società e il pubblico», la situazione odierna indica come sia necessario un nuovo contratto, capace di stabilire «nuove relazioni, adeguate ai nuovi caratteri di scienza, tecnologia e società» [34]. Tra le prime troviamo quella per cui occorre puntare su un miglioramento della tecnologia per ridurre l’impatto sul clima delle attività umane. Vi è poi quella per cui il clima costituisce prima di tutto un problema morale: bisogna valutare l’impatto differenziato del cambiamento climatico definendo appropriati regimi compensativi per le popolazioni. Vi è anche un problem-framing culturale, in base al quale il global warming richiede in primo luogo un cambiamento degli stili di vita. Vi è una narrazione che insiste sulla mancanza di strutture di governance globale; un’altra ancora si focalizza sul significato e le implicazioni dell’espansione dell’economia.
Ciascuna narrazione dà voce a conflitti. Si pensi, nel caso della narrazione economica, a quello tra misurazioni tradizionali e “alternative” della crescita: a differenza delle prime, che impiegano solo grandezze monetarie e possono così attribuire valore positivo al deterioramento dell’ambiente nella misura in cui le azioni di ripristino espandono il volume delle attività, le seconde includono grandezze fisiche (inquinamento, salute ecc.) [35]. Narrazioni diverse, inoltre, designano ruoli diversi (la responsabilità è primariamente del singolo cittadino o delle istituzioni? come si collegano responsabilità individuali e collettive?) e insistono su diversi tipi di strategie (investire sulla ricerca? cambiare le abitudini? puntare sulla mitigazione o sull’adattamento?). Le narrazioni, infine, vengono adottate o meno per varie ragioni: il lessico utilizzato, la percezione della propria identità, funzione, interesse, credibilità e così via. L’IPCC, per fare solo un esempio, ha finora evitato di affrontare gli aspetti morali della questione.
Se l’agenda del dibattito include un ventaglio di narrazioni, vi è una meta-narrazione in grado di includere o collegare tutte le altre? La mia impressione è che tale ruolo sia al momento svolto in certa misura dalla narrazione economica, la cui importanza è ampiamente riconosciuta e il cui lessico è altrettanto ampiamente condiviso. Pur nel dissenso su questioni di merito, il discorso dei danni economici che il peggioramento del clima è destinato ad arrecare sembra infatti suonare convincente per tutti: cittadini, gruppi ecologisti e religiosi, governi del Nord e del Sud del mondo, industria, sistema bancario e assicurativo. Che sia questa la via che conduce a un’azione più incisiva, e in quale direzione essa porti, è tuttavia presto per dirlo.

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[1] R. CARSON, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1990 (ed. or. 1962).
[2] W. GRISWOLD, Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 26-27.
[3] S. HILGARTNER – C. BOSK, The Rise and Fall of Social Problems: A Public Arenas Model, in “American Journal of Sociology”, 77, 1988, pp. 639-659.
[4] S. UNGAR, The Rise and (Relative) Decline of Global Warming as a Social Problem, in “Sociological Quarterly”, 33, 1992, pp. 483-501.
[5] IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), Climate Change 2001: Synthesis Report. A Contribution of Working Groups I, II and III to the Third Assessment Report, Working Group I, technical summary, p. 22, http://unfccc.int/2860.php.
[6] UNFCC, United Nations Framework Convention on Climate Change,
http://unfccc.int/2860.php, p. 3.
[7] «Le proiezioni di impatto si basano su una serie di modelli in cui ogni modello successivo usa come input gli output sempre più incerti del modello precedente», osserva I.M. GOKLANY, The Precautionary Principle, Cato Institute, Washington (DC) 2001, p. 60. Non è possibile né derivare dalle stime di riscaldamento in un dato momento per ciascuna specifica area geografica una valutazione del cambiamento globale, né procedere in senso inverso partendo da una stima del cambiamento climatico complessivo per giungere a una previsione sugli impatti locali.
[8] È solo a posteriori che si può dire che previsioni catastrofiche quali quelle del Club di Roma (cfr. D.H. MEADOWS et al., I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972) hanno sottostimato il ruolo dell’innovazione tecnologica.
[9] N. LUHMANN, Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano 1996.
[10] S. FUNTOWICZ - J. RAVETZ, Science for the Post-Normal Age, in “Futures”, 25, 1993, pp.739-755.
[11] D. SAREWITZ, How Science Makes Environmental Controversies Worse, in “Environmental Science & Policy”, 7, 2004, pp. 385-403.
[12] B. WYNNE, Uncertainty and Environmental Learning, in “Global Environmental Change”, 2, 1992, pp. 111-127.
[13] D. SAREWITZ, How Science Makes Environmental Controversies Worse, cit., p. 393.
[14] D. METLAY, From Tin Roof to Torn Wet Blanket: Predicting and Observing Groundwater Movement at a Proposed Nuclear Waste Site, in D. SAREWITZ (a cura di), Prediction: Science, Decision Making, and the Future of Nature, Island Press, Covelo (CA) 2000, pp. 199-228.
[15] Cfr. per es. il noto B. LOMBORG, L’ambientalista scettico. Non è vero che la terra è in pericolo, Mondadori, Milano 2003.
[16] COMMISSIONE EUROPEA, Scienza, società e cittadini in Europa, Documento di lavoro dei Servizi della Commissione, SEC (2000)1973, Bruxelles 2000. Cfr. al riguardo sondaggi di opinione come The Europeans, Science and Technology, Eurobarometer 55.2, Bruxelles 2001.
[17] S. ZEHR, Public Representations of Scientific Uncertainty about Global Climate Change, in “Public Understanding of Science”, 9, 2000, pp. 85-103.
[18] C. RANCI, Solidarietà, in A. MELUCCI (a cura di), Parole chiave, Carocci, Roma 2000, p. 195.
[19] R. PIELKE JR., Scienza e politica, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 90 ss. La prima enunciazione di questo modello è contenuta in un saggio di V. BUSH, Science – The Endless Frontier, Government Printing Office, Washington (DC) 1945.
[20] S. JASANOFF, The Fifth Branch. Science Advisers as Policy Makers, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1990.
[21] H. ETZKOWITZ - A. WEBSTER, Science as Intellectual Property, in S. JASANOFF et al. (a cura di), Handbook of Science and Technology Studies, Sage, London 1995, pp. 480-505; L. LEYDESDORFF - H. ETZKOWITZ, The Triple Helix as a Model for Innovation Studies, in “Science and Public Policy”, 25, 1998, pp. 195-203.
[22] B. BIMBER - D. GUSTON, Politics by the Same Means: Government and Science in the United States, in S. JASANOFF et al. (a cura di), Handbook of Science and Technology Studies, cit., pp. 554-571.
[23] J. RAVETZ, Safety in the Globalising Knowledge Economy: An Analysis by Paradoxes, in “Journal of Hazardous Materials”, 86, p. 7.
[24] R. PIELKE JR., Scienza e politica, cit., p. 72.
[25] Ivi, p. 77.
[26] Ivi, p. 108.
[27] D. SAREWITZ et al.(a cura di), Handbook of Science and Technology Studies, cit., p. 400.
[28] R. PIELKE JR., Scienza e politica, cit., p. 106.
[29] S. FUNTOWICZ et al., Science and Governance in the European Union: A Contribution to the Debate, in “Science and Public Policy”, 27, 2000, pp. 327-336.
[30] S. JASANOFF, The Idiom of Co-production, in ID. (a cura di), States of Knowledge, Routledge, London 2004, p. 2.
[31] D. SAREWITZ, Science and Environmental Policy: An Excess of Objectivity, in R. FRODERMAN (a cura di), Earth Matters: The Earth Sciences, Philosophy, and the Claims of Community, Prentice Hall, Upper Saddle River 2000, pp. 79-98.
[32] D. SCHÖN - M. REIN, Frame Reflection, Basic Books, New York 1994; E. ROE, Narrative Policy Analysis, Duke University Press, Durham 1994; V. BELOHRADSKY, Tra il vapore e il ghiaccio. Sulle antinomie della globalizzazione, “Quaderni di Futuribili” 3, ISIG, Gorizia 2002.
[33] R. FRANZOSI, Narrative Analysis – Or Why (and How) Sociologists Should Be Interested in Narrative, in “Annual Review of Sociology”, 24, 1998, pp. 517-554.
[34] COMMISSIONE EUROPEA, Scienza, società e cittadini in Europa, cit., p. 5.
[35] Cfr. H. DALY, Oltre la crescita. L’economia dello sviluppo sostenibile, Edizioni di Comunità, Torino 2001.

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