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Aspetti morali, politici e cognitivi del riscaldamento globale

Dimitri D’Andrea

Il riscaldamento globale è un mutamento antropogenico del clima che consiste nell’innalzamento della temperatura media terrestre. Il fenomeno è dovuto ad un aumento della concentrazione in atmosfera di alcuni dei gas – essenzialmente anidride carbonica, metano, protossido di azoto e gas fluorurati – che consentono al sistema-terra di trattenere una parte del calore che il nostro pianeta riceve dal sole (effetto-serra). A questo incremento della temperatura sono collegate alcune trasformazioni dell’ambiente in grado di danneggiare pesantemente la salute e le attività dell’uomo: dall’innalzamento del livello medio del mare per l’assottigliamento delle calotte polari all’incremento degli eventi atmosferici estremi, dalla polarizzazione del clima nelle fasce temperate alla perdita di biodiversità, dalla diffusione di agenti patogeni e malattie endemiche alla desertificazione di intere regioni [1]. Siamo di fronte a mutamenti climatici che minacciano seriamente gli interessi e la salute dell’uomo e che in prospettiva potrebbero cancellare le risorse essenziali alla vita umana sul pianeta [2].
Il cambiamento climatico è un rischio potenzialmente globale, un rischio globale per le generazioni future [3]. Nei prossimi decenni gli effetti del cambiamento climatico sulla salute e sulle attività dell’uomo non saranno gli stessi per natura e per consistenza su tutto il pianeta. Entro la fine di questo secolo, gli abitanti del pianeta non saranno colpiti tutti nello stesso modo o con la stessa intensità: gli effetti del riscaldamento globale non produrranno, cioè, una convergenza/unanimità di interessi e di valutazioni [4]. Almeno fino alla fine di questo secolo, gli effetti del cambiamento climatico non saranno tali da configurare un interesse “egoistico” di tutti gli individui in vita sul pianeta al contenimento del fenomeno. In tempi più lunghi, al contrario, il surriscaldamento globale arriverà a costituire una minaccia per la sopravvivenza stessa del genere umano. Sarà soltanto in un futuro non ravvicinato che i danni causati dal riscaldamento globale alla salute e alle attività dell’uomo avranno una consistenza e una diffusione tali da fare dell’umanità una “comunità di rischio”. Se i danni per gli individui saranno effettivamente globali soltanto in un futuro non immediato, un’efficace strategia di contrasto del cambiamento climatico presuppone, tuttavia, già adesso il concorso di ogni soggetto politico del pianeta: cittadini, Stati, istituzioni sovranazionali, organizzazioni internazionali.
Malgrado il carattere non imminente delle sue conseguenze estreme, il riscaldamento globale presenta alcune caratteristiche che impongono una pre-occupazione presente.
In primo luogo, un andamento non lineare. La consistenza dei danni per l’uomo e per le sue attività dipenderà in gran parte dall’entità del riscaldamento e dalla sua rapidità. Più veloce è l’andamento del fenomeno, maggiori saranno i danni. Inoltre, il modo in cui il riscaldamento globale progredisce può essere profondamente accelerato dal potenziale effetto-dòmino, tipico dei sistemi complessi. Il surriscaldamento dell’atmosfera può comportare, cioè, l’alterazione di processi essenziali all’equilibrio dell’ecosfera che possono a loro volta determinare un’accelerazione del riscaldamento o una esasperazione dei suoi effetti. In termini generali, dunque, la nostra conoscenza del fenomeno associa la certezza dell’entità del danno – nel lungo periodo e in assenza di efficaci contromisure – con il carattere incerto, relativamente indeterminato e impreciso delle previsioni relative al “come”, al “chi” e al “quando” verrà danneggiato nel breve-medio periodo.
Il riscaldamento globale è, in secondo luogo, un fenomeno che possiede una forte inerzialità. Le conseguenze sia dei comportamenti che determinano il cambiamento climatico, sia delle eventuali contromisure che saremo in grado di adottare si faranno sentire fra qualche decennio. Le nostre scelte in materia di emissioni di gas serra influenzeranno significativamente lo stato della nostra atmosfera alla fine di questo secolo e nel successivo. L’inerzialità del fenomeno determina una divaricazione costitutiva fra chi agisce e chi sperimenta le conseguenze, fra chi danneggia e chi è danneggiato, fra chi paga i costi e chi ne trae eventualmente beneficio. Ciò che le generazioni presenti faranno nei prossimi decenni produrrà scarsissimi benefici per loro, ma avrà grandissima influenza su ciò che accadrà fra cinquanta anni e soprattutto sulla condizione del pianeta alla fine di questo secolo e nel prossimo [5]. Mentre i costi delle politiche volte a limitare il riscaldamento globale dovranno essere pagati dalle generazioni presenti, i benefici in termini di danni evitati saranno esclusivamente per le generazioni future.
In terzo luogo, si tratta di un fenomeno di cui conosciamo con certezza la nocività, ma di cui non siamo in grado di stabilire il punto di non ritorno. Non siamo in grado, cioè, di determinare con precisione il momento in cui il fenomeno diverrà incontrollabile e irreversibile, in cui non sarà più razionale continuare ad agire “come al solito” ed occorrerà prendere le necessarie contromisure. Non è possibile adottare una strategia razionale che rinvii all’ultimo momento utile l’adozione delle inevitabili contromisure semplicemente perché non sappiamo dove sia collocato temporalmente questo momento, perché le nostre decisioni devono scontare l’assenza di informazioni precise sul momento in cui qualsiasi nostra azione sarà ormai inutile a contrastare il degrado dell’atmosfera.
Siamo, dunque, di fronte ad un fenomeno contro il quale è necessario già adesso prendere le opportune contromisure, ma che non produce nel presente effetti tali da giustificare in termini di razionalità egoistica l’effettiva adozione di misure di limitazione delle emissioni di gas serra. La motivazione su cui può riposare la scelta di combattere il riscaldamento globale non può essere la paura delle conseguenze, il calcolo razionale dei costi e dei benefici che le differenti strategie comportano per un medesimo soggetto. Il carattere temporalmente differito degli effetti dannosi del consumo presente, la non coincidenza temporale fra chi è responsabile (causa) dell’alterazione del clima e chi ne sperimenta i danni non consente l’attivazione di questo dispositivo, mette fuori gioco qualsiasi strategia basata sull’ipotesi di un soggetto egoista-razionale come quello ipotizzato dalla tradizione del realismo moderno a partire da Hobbes. Non può essere la paura a motivare la lotta contro il cambiamento climatico: chi deve scegliere di limitare le emissioni non è chi ne sperimenterà i vantaggi, e chi dovrebbe pagare i costi non sarà danneggiato in maniera tale da giustificare egoisticamente questa scelta. Quando la paura egoistica potrà essere un fondamento adeguato alle dimensioni dell’impegno perché gli eventi dannosi saranno ravvicinati, radicali e generalizzati, sarà, con tutta probabilità, troppo tardi. Per avere una qualche speranza di successo nel contrasto al riscaldamento globale dobbiamo ipotizzare una soggettività moralmente migliore di quella che viene indotta dalla paura alla scelta della convivenza pacifica. La paura (egoistica) per i danni futuri non può avere per adesso un fondamento oggettivo, e potrà verosimilmente averlo soltanto quando sarà ormai troppo tardi per evitare il peggio. Poiché danni e benefici della lotta ai rischi ambientali potenzialmente globali sono distribuiti fra generazioni diverse, non è possibile sperare nell’aiuto di motivazioni realisticamente egoistiche. Non la paura dei danni futuri, ma la cura e la responsabilità per le generazioni future sembrano, dunque, essere gli unici fondamenti possibili per politiche di contrasto dei rischi ambientali potenzialmente globali [6].
La lotta contro il riscaldamento globale è, dunque, una lotta che le generazioni presenti devono sostenere a tutto vantaggio di quelle future. Siamo di fronte ad un problema che può essere affrontato soltanto a partire da un’esigenza di tipo morale, in virtù di un’assunzione di responsabilità: sia essa verso le condizioni di vita delle generazioni future prossime a noi (figli, nipoti), oppure verso quelle delle generazioni future più lontane (generazioni future in senso proprio). I danni che possono colpire le attività e la salute degli individui attualmente in vita non sono, infatti, così radicali e cosi generalizzati da configurare un interesse universale al contrasto del cambiamento climatico. Nella quasi totalità dei casi, i danni per le attività e la salute degli esseri umani prodotti dal riscaldamento globale non colpiranno gli individui che oggi sono chiamati a prendere le decisioni, o non li colpiranno con eventi la cui entità sia tale da giustificare un impegno egoisticamente motivato. La chance di trovare una soluzione ai problemi è legata alla capacità degli individui di agire nel rispetto del diritto delle generazioni future ad avere le stesse opportunità di benessere di quelle presenti.
Allo stato attuale le considerazioni che si possono formulare in relazione alla possibilità di una effettiva e generalizzata assunzione di responsabilità verso le opportunità di benessere delle generazioni future sembrano essere di tenore piuttosto negativo. Nel 2005 – anno di entrata in vigore del protocollo di Kyoto – la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto le 430 ppm contro le 280 ppm dell’era pre-industriale. Il tasso di incremento della concentrazione di CO2 è stato nell’ultimo decennio più consistente (1.9 ppm all’anno) di quanto lo sia mai stato da quando sono iniziate rilevazioni sistematiche. Rispetto a questo scenario, le scelte e le decisioni politiche finora adottate sembrano essere assolutamente inadeguate. Stati Uniti e Australia, come è noto, non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, mentre Brasile, India e Cina non avevano obblighi di riduzione. La stessa Unione europea, che rappresenta uno degli attori internazionali più virtuosi in questo campo, farà fatica a raggiungere il proprio obiettivo di riduzione (-8,5%).
Quali sono le ragioni della difficoltà di un’assunzione di responsabilità in questo campo? Per quale motivo è così difficile che le generazioni presenti si assumano la cura di quelle future e delle loro uguali opportunità di benessere? In primo luogo, una sorta di inettitudine cognitiva. Il riscaldamento globale sembra, infatti, rappresentare una versione aggravata del “dislivello prometeico” con cui G. Anders ha voluto tematizzare il rapporto fra l’umanità tardo-moderna, la tecnica e il mondo. Lo scarto fra «il massimo di ciò che possiamo produrre e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò che possiamo immaginare» [7], denunciato da Anders in relazione alla difficoltà di immaginare le conseguenze di una tecnica – la bomba atomica – che per «la prima volta ha messo l’umanità in condizione di produrre la propria distruzione» [8], viene amplificato quando si tratta di immaginare non le conseguenze, sia pure perverse, di un’arma di distruzione di massa, ma quelle di una tecnologia banale, inoffensiva e quotidiana. Beck ha restituito efficacemente questa caratteristica dei rischi contemporanei definendoli come i «passeggeri clandestini del consumo di tutti i giorni» [9]. La radice dei rischi ambientali globali nell’«innocenza economica del consumo quotidiano» [10] rende doppiamente impensabile la catastrofe che ci minaccia: impensabile perché troppo grande per quello che riusciamo a immaginare come conseguenza del nostro agire; impensabile perché immaginativamente non riconducibile alla normale quotidianità.
Malgrado l’indubbia rilevanza di questo tipo di argomentazione, l’inettitudine cognitiva non sembra in grado di spiegare l’incapacità di reagire in modo adeguato al riscaldamento globale. Per una migliore comprensione delle ragioni che rendono così problematico un consenso globale sul contrasto al riscaldamento globale, può essere utile confrontare le attuali difficoltà nella costruzione di un regime globale di controllo delle emissioni di gas serra con la soluzione positiva che, invece, è stata data ad un’altra crisi ambientale potenzialmente globale: il deperimento della fascia di ozono.
Con l’applicazione delle misure previste dal Protocollo di Montreal del 1987 e le successive integrazioni, il deperimento della fascia di ozono può essere ormai considerato sotto controllo. Con il bando dei clorofluorocarburi (CFC) e la loro sostituzione con gli idrofluorocarburi (HFC) e gli idroclorofluorocarburi (HCFC), le cause del deperimento della fascia di ozono sono, infatti, state rimosse, anche se – per l’inerzia del fenomeno – una ricostituzione completa della fascia di ozono non è prevista prima di cinquanta anni. Ciò che ha reso possibile questa success story è stata la credibilità che una strategia di contrasto del fenomeno possedeva per alcune ragioni di fondo: in primo luogo, la dipendenza del fenomeno dall’immissione in atmosfera di una singola sostanza (i CFC) e il numero relativamente limitato di prodotti industriali nei quali tale sostanza era utilizzata; in secondo luogo, la disponibilità di una tecnologia sostitutiva a parità di prestazioni e di costi. Semplicità delle cause, fattibilità tecnica della sostituzione, limitatezza dei costi, compatibilità con il normale funzionamento dell’economia e con lo stile di vita acquisito hanno contribuito a determinare la credibilità di una soluzione del problema che è stata condizione di possibilità della soluzione stessa. La credibilità della soluzione era condizione per quella garanzia di non inutilità degli sforzi che rendeva razionale un impegno eticamente motivato.
Niente di tutto questo si verifica per il riscaldamento globale. L’anidride carbonica è un prodotto collaterale della civiltà industriale moderna e non una sostanza impiegata nella produzione industriale. L’impennata delle emissioni di CO2 si verifica a partire dalla rivoluzione industriale e dall’uso massiccio dei combustibili fossili (carbone prima e petrolio poi) che l’hanno resa possibile. Tuttavia, emissioni consistenti di CO2 provengono anche da settori non necessariamente collegati alla produzione industriale come il traffico aereo e la mobilità privata. Per contenere entro i 2 gradi Celsius l’aumento della temperatura terrestre rispetto al periodo preindustriale sarebbero necessari entro il 2050 tagli del 50% alle emissioni di CO2 su scala globale. Questo implicherebbe una riduzione del 60-80% delle emissioni dei paesi industrializzati. In tempi più brevi, stime dell’Unione europea fissano in una riduzione del 30% entro il 2020 l’obiettivo che i paesi industrializzati dovrebbero conseguire. Nelle attuali condizioni tecnologiche, combattere il riscaldamento globale significa, dunque, riduzione dei consumi e della mobilità, significa in una parola superamento di quell’autentico imperativo economico che è la crescita. Nessun governo di nessun paese industrializzato – occidentale e non – sembra in grado di mettere in discussione questo imperativo. L’aumento del Pil e la crescita economica sono anche in Europa il primo obiettivo sia dell’Unione, sia dei singoli Stati membri: riduzione dei consumi significa riduzione della produzione e conseguente riduzione dell’occupazione. Ridurre i consumi non confligge soltanto con un’idea diffusa di benessere, confligge anche con un modo di produrre in cui l’espansione dei consumi è condizione – necessaria, ma non sufficiente – di un funzionamento socialmente sostenibile dell’economia di mercato. Riduzione dei consumi in un’economia in cui si produce per vendere significa ridurre il bisogno di lavoro, significa ridurre l’occupazione. Per di più, nelle condizioni di esasperata competizione economica a livello globale, l’aumento dei costi di produzione legati al prezzo dell’energia si traduce immediatamente in un vantaggio competitivo per altri attori economici e diviene un fattore rilevante di penalizzazione dell’economia nazionale.
I costi in termini economici e di cambiamento degli stili di vita sembrano, dunque, essere enormi. Recentemente il rapporto Stern ha costituito il più significativo tentativo di dimostrare non soltanto la vantaggiosità economica di un’azione immediata di contrasto al cambiamento climatico, ma anche la sua scarsa onerosità dal punto di vista economico: un punto percentuale di Pil all’anno a condizione di iniziare ad agire subito. Al di là della questione relativa alla rilevanza di un calcolo che si pretende esclusivamente economico quando i soggetti che pagano i costi e quelli che ne beneficiano sono appartenenti a generazioni differenti, il punto che qui mi preme sottolineare è che l’intera valutazione dei costi è condotta su un obiettivo di stabilizzazione della concentrazione di CO2 in atmosfera a 500-550 ppm [11]. Stime ufficiali recepite dalle stesse istituzioni europee ritengono incoerente questo livello di concentrazione con il conseguimento dell’obiettivo di un riscaldamento dell’atmosfera uguale o inferiore ai 2 gradi Celsius rispetto all’era preindustriale. Se ipotizziamo di stabilizzare la concentrazione di CO2 e in atmosfera ad un livello che dia maggiore sicurezza di raggiungere l’obiettivo dei 2 gradi Celsius, i costi risultano di gran lunga più consistenti sia dal punto di vista economico, sia, più in generale, della sostenibilità sociale [12].
In Europa e nelle società industrializzate in genere si assiste ad una consapevolezza “intermittente” della gravità del problema spesso legata a fattori occasionali o emotivi, e la mobilitazione si scontra di frequente con l’incapacità di individuare, prima ancora che praticare, una strategia realistica di assunzione di responsabilità da parte delle generazioni presenti nei confronti di quelle future. La complessità delle condizioni per la soluzione del problema – dipendenza da un accordo generalizzato su scala planetaria di cui non si intravedono segnali – e la consistenza dei costi economici e sociali di una lotta efficace al riscaldamento globale – ridimensionamento dei consumi e cambiamento radicale negli assetti economici e sociali delle società industrializzate – convergono nel rendere scarsamente credibile, in-verosimile una strategia efficace di contenimento del fenomeno. Questa mancanza di fede/fiducia nel prodursi delle condizioni necessarie alla soluzione del problema è uno dei fattori decisivi che favorisce il rifiuto della responsabilità.
Il problema non è, dunque, una costitutiva incapacità degli individui e degli attori politici di assumere decisioni eticamente orientate, ma l’esistenza delle condizioni alle quali questo possa avvenire, l’esistenza, cioè, di risorse di senso adeguate ad un’assunzione generalizzata di responsabilità verso le generazioni future. La soggettività occidentale moderna non possiede, cioè, più le risorse di senso per dar vita ad uno sforzo i cui costi siano elevati e le cui chances di successo siano minime se non addirittura inesistenti. Consistenza dei costi e improbabilità dell’efficacia finiscono per affossare qualsiasi appello alla responsabilità. La mancanza di un piano sovraindividuale – la fede nel progresso, nella provvidenza, in un senso oggettivo del mondo o della storia – che garantisca la non inutilità degli sforzi individuali rende impraticabili comportamenti che non siano sostenuti da una credenza di efficacia. Se la storia si trasforma nell’accadere, e la presenza di leggi che ne governano il corso lascia spazio al dominio della contingenza, la capacità morale degli individui generalmente intesi si riduce, diminuisce la capacità di resistere al mondo. Diviene generalizzatamente impraticabile un’etica dell’intenzione, e al suo posto s’impone un’etica della responsabilità, una valutazione delle conseguenze che si nutre del possibile/plausibile, e che si arresta di fronte ad un imperativo su cui grava l’alone dell’inefficacia.
Il dovere morale di garantire alle generazioni future le stesse opportunità di benessere di cui hanno goduto le generazioni presenti non viene messo in questione dai costi che è necessario pagare e neppure dal fatto che molti non sembrano intenzionati a pagarli. Quello che viene meno è la capacità generalizzata di agire moralmente in un contesto in cui l’adempimento di un dovere si associa alla sua prevedibile inefficacia e a rinunce individuali e collettive percepite come inutili. L’impossibilità di rinvenire argomenti che ci diano la fondata speranza che il nostro sforzo e le nostre rinunce contribuiscano a risolvere il problema rende onerosa la nostra esperienza etica, e favorisce il suo abbandono associato ad una rimozione del problema.
La fine delle grandi narrazioni ha indebolito la soggettività, lasciandola inerme di fronte allo strapotere del mondo: ha indebolito la capacità degli individui di opporsi da un punto di vista etico al funzionamento del mondo. Costi e rinunce – in termini di benessere, felicità e libertà – appaiono difficilmente accettabili in un contesto in cui è venuta meno qualsiasi garanzia della loro efficacia. La conseguenza di questa difficoltà è una generalizzata tendenza all’adattamento al mondo, all’accettazione della logica delle cose in funzione della massimizzazione delle chances di benessere e di felicità. È l’assolutizzazione della vita e delle sue esigenze come criterio unico di valutazione delle scelte politiche: il trionfo di quella che è stata definita biopolitica.
Diviene più chiaramente comprensibile su questo sfondo non soltanto la resistenza di alcuni paesi industrializzati (Australia e USA) ad una politica di contenimento delle emissioni di gas serra, ma anche lo scarto fra la consistenza degli impegni assunti dall’Unione europea (ultimo, in ordine di tempo, la riduzione unilaterale del 20% entro il 2020 delle proprie emissioni) e, da un lato, le difficoltà nel raggiungimento dei ben più modesti obiettivi di Kyoto, dall’altro la scarsa disponibilità degli europei a pagare anche soltanto i costi economici che tali impegni comportano. La maggioranza dei cittadini europei (54%) si dichiara, infatti, indisponibile a pagare di più per energia e mobilità al fine di ridurre le emissioni. Il venir meno di un orizzonte di senso per un ridimensionamento del benessere individuale rende inverosimile che gli europei abbiano la capacità di quell’impegno unilaterale di riduzione delle proprie emissioni che sembrerebbe tipico di un’etica dell’intenzione.
Grandezza dei costi e scarsa plausibilità delle condizioni economiche sociali e politiche – consenso interno e internazionale – sembrano, così, favorire la rimozione del problema e l’abbandono della responsabilità. La situazione in cui si trovano gli individui della tarda modernità occidentale è, dunque, quella di un’impasse fra paura inesistente/inefficace, responsabilità insostenibile e rimozione del rischio. L’unica paura che gli individui possono provare per gli effetti del riscaldamento globale è quella non egoistica per le sue conseguenze sulle generazioni future, quella morale per i danni che stiamo provocando alle generazioni future. Tuttavia, l’assunzione di responsabilità che sembrerebbe derivarne viene disattesa dalla sua onerosità: l’impraticabilità della soluzione finisce per rimuovere la percezione sia del danno che stiamo arrecando, sia del problema che dovremmo fronteggiare.
Se questa impasse restituisce, a mio avviso, il vicolo cieco a cui è approdata una civiltà che ha assolutizzato benessere e felicità, fuori dall’Occidente non sembrano esistere condizioni più favorevoli ad una assunzione di responsabilità nei confronti delle generazioni future. La tarda modernità globale è, infatti, anche l’epoca della disseminazione della modernità oltre l’Occidente. Il moderno cosmo tecnico-economico, la cui genesi ha avuto bisogno del contributo di una particolare tipologia di soggettività, si è diffuso su tutto il pianeta, ha dimostrato una “universalità” che lo ha portato ad affermarsi anche con forme di soggettività che erano e rimangono irriducibili a quella occidentale moderna. Capitalismo e tecnica hanno imposto la loro logica e il loro dinamismo anche a popolazioni che avevano e continuano ad avere un’immagine del mondo profondamente diversa da quella tipicamente occidentale e in molti casi dissonante da quella implicita nel capitalismo e nell’universo tecnico-scientifico. Laddove questa perdurante diversità delle forme di soggettività non ha costituito un elemento favorevole all’adozione del cosmo tecnico-economico moderno, la persistenza di immagini del mondo non occidentali non sembra in grado di ostacolare o di frenare la logica quantitativo-incrementale propria dell’economia e della tecnica. La modernità fuori dell’Occidente non sembra, in conclusione, poter fare affidamento su risorse di senso più consistenti di quelle occidentali per reintrodurre una cultura del limite.

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[1] Gli ultimi dati disponibili (IPCC, Climate Change 2007: The Physical Science Basis, p. 11) prevedono entro la fine di questo secolo un aumento della temperatura terrestre fra 1,8 e 4 gradi Celsius e un innalzamento del livello del mare fra 18 e 59 cm a seconda degli scenari.
[2] IPCC, Climate Change 2001: Synthesis Report, pp. 8-13, e B. DE MARCHI – L. PELLIZZONI – D. UNGANO, Il rischio ambientale, il Mulino, Bologna 2001, pp. 50-51.
[3] Sulla nozione di rischio potenzialmente globale cfr. D. D’ANDREA, Rischi ambientali globali e aporie della modernità. Responsabilità e cura per il mondo comune, in D. BELLITI, (a cura di) Epimeteo e il Golem. Riflessioni su uomo, natura e tecnica nell’età globale, ETS, Pisa 2004, pp. 32-38. Per la definizione di rischio globale cfr. F. CERUTTI, Le sfide globali e l’esito della modernità, in D. D’ANDREA – E. PULCINI (a cura di), Filosofie della globalizzazione, ETS, Pisa 2001.
[4] Cfr. N. STERN, Review on the Economics of Climate Change, 2006, p. VIII.
[5] Cfr. ivi, p. 1
[6] Sulle nozioni di cura e responsabilità per un’etica dell’età globale cfr. E. PULCINI, Conservazione della vita e cura del mondo, in L. BAZZICALUPO – R. ESPOSITO (a cura di), Politica della vita, Laterza, Roma-Bari 2003 e ID., Paura globale. Trasformazioni della paura nell’età della globalizzazione, in S. MAFFETTONE – G. PELLEGRINO (a cura di), Etica delle relazioni internazionali, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2004, pp. 91-110.
[7] G. ANDERS, Die Antiquiertheit des Menschen, Bd. II, C.H. Beck, München 1980; tr. it. L’uomo è antiquato II, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 12.
[8] Ivi, p. 13.
[9] U. BECK, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986; tr. it. La società del rischio, Carocci, Roma 2000, p. 53.
[10] Sull’impensabilità del rischio nucleare cfr. E. PULCINI, Distruttività e autoconservazione in età nucleare, in E. PULCINI – P. MESSERI (a cura di), Immagini dell’impensabile. Ricerche interdisciplinari sulla guerra nucleare, Marietti, Genova 1991, pp. 19-35.
[11] Cfr. N. STERN, Review on the Economics of Climate Change, p. VII.
[12] Cfr. ibidem.
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