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La sfida della sobrietà nella società dei consumi

Francesco Gesualdi

Il mondo siede su due bombe: quella sociale e quella ambientale. Mentre le risorse si fanno sempre più scarse, alcuni segnali, come il cambiamento del clima, ci mandano a dire che gli equilibri naturali si stanno alterando. Nel contempo sappiamo che la maggior parte della popolazione terrestre non riesce a soddisfare neanche i bisogni fondamentali: il cibo, l’acqua potabile, il vestiario, l’alloggio, l’istruzione di base. In tutto il mondo circa tre miliardi di persone vivono in condizione di povertà assoluta, o quasi povertà assoluta. Così ci troviamo di fronte ad un dilemma angosciante: più crescita economica per uscire dalla povertà o meno crescita economica per salvare il pianeta? Eppure c’è un modo per coniugare equità e sostenibilità. La soluzione è che i ricchi si convertano alla sobrietà. Ossia che accettino uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali, in modo da lasciare ai poveri le risorse e gli spazi ambientali di cui hanno bisogno.
Di fronte all’idea di dovere ridurre i nostri consumi, la prima reazione è di panico. Nella nostra fantasia si affacciano immagini di privazioni e di sofferenze, ma nessuno propone di tornare alla candela o alla morte per tetano. Chiediamo di imboccare la strada della sobrietà che è più un modo di essere che di avere. È uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli imposti, che si organizza a livello collettivo per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni umani con il minor dispendio di energia, che dà alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare le esigenze spirituali, affettive, intellettuali, sociali della persona.
La sobrietà impone una scelta di qualità e di quantità. Se selezioniamo i prodotti in base alla qualità ci rendiamo conto che molti vanno scartati perché sono dannosi. Altri invece vanno scartati perché sono inutili. Perciò, ogni volta che ci viene voglia di comprare qualcosa dobbiamo chiederci se cerchiamo di soddisfare un bisogno vero o un bisogno indotto dalla pubblicità o da altre forme di condizionamento. Rispetto ai prodotti utili, si pone un problema di quantità. Mangiamo troppo e buttiamo via troppi avanzi; accumuliamo troppi vestiti e ne diamo troppi allo straccivendolo; usiamo l’automobile anche quando potremmo andare a piedi o in bicicletta.
Naturalmente non dobbiamo limitarci a rivedere i nostri consumi privati, ma anche quelli collettivi perché anche fra questi ce ne sono di dannosi e di superflui. Di sicuro dovremmo eliminare gli armamenti, ma dovremmo anche sprecare meno energia per l’illuminazione delle città, dovremmo accontentarci di treni meno veloci e meno lussuosi, dovremmo costruire meno strade. Perfino in ambito sanitario dovremmo diventare più sobri affrontando la malattia non solo con la scienza, ma anche con una diversa concezione della vita e della morte.
Il presupposto della sobrietà è il recupero del senso di “sufficienza”, cioè di “sazietà”. Oggi viviamo in un sistema che ci invita a consumare sempre di più e a forza di ingozzarci abbiamo sforzato, fino a romperli, i meccanismi che ci danno il senso di sazietà. In altre parole, ci pare di avere sempre “fame” e consumiamo in maniera scandalosa contro ogni logica igienica e del buon senso comune. Dunque, se vogliamo riportare i nostri consumi entro i limiti della ragionevolezza, dobbiamo ripristinare i meccanismi che ci consentono di riconoscere quali sono i nostri bisogni e che ci fanno capire quando abbiamo consumato abbastanza da averli soddisfatti. Il concetto di sufficienza allude proprio a questo.
Certo, dobbiamo ammettere che il discorso sui bisogni non è facile, perché non esiste un criterio scientifico per definirne la misura. In effetti, il concetto di bisogno varia molto da gruppo a gruppo e, addirittura, da individuo ad individuo, perché dipende dalla disponibilità di risorse e dalla concezione culturale. Nella nostra società, la concezione culturale è di tipo consumista, perché così fa comodo a questo sistema, che si basa sull’espansione. In noi la proposta consumista ha attecchito particolarmente bene perché il potere ci fa credere che la nostra felicità passa solo attraverso l’avere. Così abbiamo ignorato le altre dimensioni dell’essere umano: la spiritualità, la socialità, l’affettività, la gratuità. Ormai queste necessità non le riconosciamo neanche più, ma sono sempre là e poiché sono inappagate, ci danno un profondo senso di insoddisfazione, che tentiamo di mettere a tacere col solo metodo che conosciamo: la corsa agli acquisti.
Ed eccoci arrivati al nocciolo della questione: noi non troveremo la misura nei consumi finché non riusciremo a guardare all’avere con distanza e ciò non avverrà finché non avremo riempito il nostro cuore e la nostra mente con altri principi ed altri valori di riferimento. Se riuscissimo a guardare ai consumi come persone libere, ci renderemmo conto che il benessere si raggiunge solo in parte con la disponibilità di beni e molto di più organizzando il tempo in modo da lasciare più spazio alle relazioni familiari e sociali, costruendo le città in modo da favorire l’incontro fra le persone, garantendo un bagaglio culturale che consenta a ciascuno di realizzare tutto se stesso.
Una delle parole d’ordine per vivere bene disponendo di meno è “consumare con rispetto”, ossia trattare bene gli oggetti affinché possano funzionare a lungo. La società dei consumi ci ha abituati a buttare via la roba quando è ancora utilizzabile solo perché non è più di moda o perché non è più all’avanguardia tecnologica. Ma per battere la strada della sobrietà dobbiamo liberarci da questi condizionamenti, imparando a tenerci la stessa roba finché è buona e imparando a ricorrere di più al mercato dell’usato.
Un’altra parola d’ordine del futuro dovrà essere “efficienza”, ma non come la intendiamo oggi. Oggi l’efficienza si misura col denaro e, se per una ragione qualsiasi una risorsa viene fatta pagare poco, essa viene sprecata anche se è rara. Un caso concreto è quello del petrolio. Poiché costa poco si é sviluppato un sistema di trasporti assurdo che ci obbliga a consumare merci che vengono da migliaia di chilometri di distanza mentre potrebbero essere prodotte nella propria regione.
L’efficienza vera è quella che riesce a garantire il massimo sevizio col minimo impiego di risorse e con la minor produzione di rifiuti. Nel settore dei trasporti su breve distanza, il simbolo dell’efficienza è la bicicletta. Piccola, robusta, semplice, moltiplica la nostra velocità senza utilizzare carburante e senza produrre rifiuti. Un altro simbolo di efficienza è l’uso collettivo dei beni. Quello dei trasporti è un esempio classico ed è interessante che in molte città si vadano delineando delle associazioni denominate “car-sharing” per utilizzare l’automobile in comune. Molti altri servizi, che oggi sono soddisfatti in casa propria in forma privata, potrebbero essere organizzati in maniera collettiva. Invece di avere una lavatrice per casa si potrebbero avere delle lavatrici di condominio. Invece di avere ognuno il nostro ferro da stiro, il nostro computer, i nostri libri si potrebbe immaginare di avere una stireria di condominio, una piccola biblioteca di condominio, una sala giochi e di ritrovo di condominio. Oltre a risparmiare risorse ci guadagneremmo in rapporti umani. Finalmente la gente smetterebbe di vivere rintanata come topi e potrebbe incontrarsi.
Varie esperienze personali e di gruppo dimostrano che la sobrietà è possibile ed è liberante. Ma la sobrietà preoccupa per i suoi risvolti sociali. In primo luogo l’occupazione. Se consumiamo di meno, come creeremo nuovi posti di lavoro? Parallelamente siamo preoccupati per i servizi pubblici. Se produciamo di meno, e quindi guadagniamo di meno, chi fornirà allo stato i soldi per garantirci istruzione, sanità, viabilità, trasporti pubblici?
In conclusione, è possibile coniugare sobrietà con piena occupazione e garanzia dei bisogni fondamentali per tutti? È possibile passare dall’economia della crescita all’economia del limite, facendo vivere tutti in maniera sicura? La risposta è sì. Ma oltre alla rivoluzione degli stili di vita, bisogna essere capaci di metterne in atto altre tre: la rivoluzione della produzione e della tecnologia, la rivoluzione del lavoro, la rivoluzione dell’economia pubblica.
Verrebbe fatto di pensare che un’economia che produce meno, crea meno posti di lavoro. Ma la relazione non è così automatica, perché l’occupazione non dipende solo da quanto si produce, ma anche da come si produce. Ad esempio, se adottassimo un serio programma di riciclaggio, potremmo creare centinaia di migliaia di posti di lavoro. Come ben sanno le cooperative che si dedicano a questa attività, il riciclaggio assorbe molto tempo. Comincia a domicilio col prelievo di lavatrici, frigoriferi, armadi, computer, e prosegue in magazzino con la verifica dello stato di salute degli oggetti per dividere ciò che è riparabile da ciò che è inutilizzabile. Dopo di che bisogna smontare tutto ciò che è destinato alla rottamazione per separare la plastica, i metalli, il legname e ogni altro tipo di materiale. Infine bisogna trasportare i singoli componenti alle aziende di recupero. Sommato tutto assieme fa tanto lavoro che richiede molta manodopera. Anche il sistema sa che una maggiore attenzione per l’ambiente crea occupazione ed ha coniato il termine “occupati verdi” per indicare tutti quei lavoratori che operano nei settori di rispetto ambientale. La lista è molto lunga e va ben oltre il riciclaggio. Comprende la depurazione delle acque, la consulenza alle aziende per il risparmio energetico e dei materiali, lo sviluppo delle energie alternative, l’agricoltura biologica, la protezione dei boschi e del territorio.
Lester Brown nel suo libro Eco-economy cita nove settori produttivi che dovranno essere potenziati nell’economia solare: la costruzione di turbine eoliche e di impianti eolici, la produzione di celle solari, l’industria della bicicletta, la produzione di idrogeno e di celle a combustibile, la costruzione di metropolitane leggere, l’agricoltura biologica e la riforestazione. Parimenti afferma che si dovranno sviluppare nuove professioni come quella dei meteorologi, per valutare le potenzialità eoliche delle diverse zone, degli eco-architetti per la costruzione di case ecologiche, degli esperti forestali per la cura dei boschi, degli ingegneri del riciclo per progettare prodotti di lunga durata e riciclabili.
Il riciclaggio, la cooperazione internazionale e lo sviluppo dell’economia locale dimostrano che l’economia sobria e solidale è capace di creare più posti di lavoro del sistema capitalista. Ma perché continuare ad angosciarci per il lavoro? I prìncipi non se ne danno certo pensiero. Per loro il lavoro è degradante e preferiscono passare il loro tempo nello studio, nei salotti, a cavallo. Non se ne danno pensiero neanche gli indios della foresta Amazzonica. Nella loro lingua la parola lavoro non esiste. Il tempo è fatto per ridere, parlare, coccolarsi, fare festa. Poi, certo, se serve una capanna la si costruisce. Quando il cibo è finito si va a caccia. Ma non gli si dedica né un minuto di più, né un minuto di meno.
Dobbiamo chiederci perché i prìncipi e gli indios, pur essendo così diversi, hanno lo stesso atteggiamento di noncuranza verso il lavoro. La risposta è che il lavoro è un falso problema. Il problema vero sono le sicurezze: il mangiare, il bere, il vestire, la salute. I prìncipi le hanno in virtù del loro privilegio sociale. Gli indios le hanno in virtù della solidarietà tribale e della fortuna di trovarsi in un ambiente pieno di frutti e di cacciagione. Chi invece non le ha proprio siamo noi, cittadini del mondo opulento. Non le abbiamo perché viviamo su tante isolette di solitudine e l’unico modo per garantirci ciò che ci serve è comprarlo. Dopo due secoli di individualismo ne siamo usciti deformati. Abbiamo cambiato il nostro concetto di sicurezza e abbiamo cambiato il nostro atteggiamento rispetto al lavoro. Dal momento che il denaro è la chiave per accedere a tutto, abbiamo smesso di pensare concreto. La sicurezza non si configura più col cibo, con la casa, con gli affetti. La sicurezza ha un solo nome: i soldi. E poiché il modo per entrare in possesso dei soldi è il lavoro, abbiamo smesso di considerare il lavoro come un mezzo e lo abbiamo trasformato in fine. Un fine ossessivo, che ci fa arrivare al suicidio.
L’economia di sobrietà ci riporta alla normalità. Torna a dare all’economia, al lavoro, ai soldi, la loro giusta funzione. Non più dèi, non più tiranni, non più padroni della vita, ma strumenti. Banali strumenti al servizio della gente. Allora la domanda giusta da porci non è se l’economia di sobrietà garantirà lavoro a tutti, ma se garantirà sicurezze a tutti. Quanto e come lavoreremo è secondario. Anzi meno lavoreremo meglio staremo.
Tutto sembra confermare che per avere il massimo della soddisfazione dei bisogni, e quindi dell’occupazione, mantenendo l’economia a basso regime, dovremo essere disponibili a rivedere il nostro tempo lavorativo. Non dovremo più pensare ad un’unica attività, ma a varie, di cui alcune retribuite, altre no. Grosso modo il nostro tempo lavorativo dovrà essere suddiviso in tre parti, tante quante sono le gambe su cui funzionerà l’economia di sobrietà: l’economia del bene comune, l’economia di mercato e l’economia del fai da te. Ognuna per una funzione diversa e quindi con un’organizzazione diversa.
Delle tre economie, quella che dovremo riformare di più è sicuramente quella pubblica. Cominciamo col precisare che quando le risorse si fanno scarse bisogna scegliere che uso ne facciamo. In altre parole dobbiamo fissare delle priorità. Di sicuro non possiamo lasciare che le arraffino i più ricchi per i loro lussi. Prima di tutto dobbiamo garantire il soddisfacimento dei bisogni fondamentali per tutti. Poi, se c’è la possibilità, lasceremo spazio alle voglie. Detta in un’altra maniera, prima vengono i diritti, poi i desideri.
Solo l’economia pubblica può garantire i diritti a tutti, perché funziona sul principio della solidarietà. Ecco perché deve essere molto sviluppata e deve essere capace di svolgere la sua funzione in maniera indipendente dal resto dell’economia. Oggi succede esattamente il contrario. L’economia pubblica è come un feto nutrito dall’economia generale attraverso il fisco. Se l’economia generale si espande, anche l’economia pubblica cresce. Se l’economia generale si contrae anche l’economia pubblica deperisce. Il che ci porta a situazioni paradossali. In Italia il pubblico garantisce ancora molti servizi e lo fa attraverso migliaia di dipendenti che sono pagati con i soldi raccolti tramite le tasse. Se lo stato ha un buon gettito, le nostre strade sono pulite, le scuole funzionano e gli ospedali danno un buon servizio. Ma se i soldi cominciano a scarseggiare, lo stato assume meno e si arriva all’assurdo di avere le città sporche, mentre in giro c’è un sacco di gente disoccupata. Insomma il risultato è disagio su disagio. E allora con quale coraggio possiamo proporre di rallentare l’economia? Eppure una via d’uscita c’è ed è quella di smettere di chiedere soldi alla gente, ma lavoro, perché il lavoro è la fonte originaria della ricchezza ed è la risorsa più abbondante che abbiamo. Non tutti hanno del denaro da dare, ma tutti sanno fare qualcosa che può essere messo al servizio della comunità. Dunque non più tasse sul reddito, ma tasse sul tempo.
Potrebbe essere qualche giorno al mese trascorso in un servizio pubblico o in una fabbrica pubblica. Ognuno dove preferisce di più, nella mansione che gli piace di più. Chi a fare l’autista, chi l’infermiere, chi l’impiegato, chi il poliziotto, chi il pompiere, chi il meccanico, chi il programmatore, chi il muratore. Al limite quelle scartate da tutti potrebbero essere svolte a rotazione. In ogni caso le mansioni sono tante e ognuno troverebbe la sua collocazione. Magari un po’ in un servizio, un po’ in un altro, con periodi di riqualificazione per poter cambiare lavoro.
Il patto fra comunità e cittadini potrebbe essere semplice. Ogni adulto mette a disposizione 10 giorni al mese, o quello che sarà, e in cambio si aggiudica il diritto, per sé e i propri familiari, ad accedere, gratis, a tutti i servizi pubblici. Non più ticket sulla sanità. Non più tasse di iscrizione a scuola. Non più biglietti per gli autobus di città e per i treni interregionali considerati trasporti essenziali. Ma un’economia pubblica che si rispetti dovrebbe produrre anche energia elettrica, dovrebbe gestire acquedotti e fogne, dovrebbe produrre alimenti di base, dovrebbe produrre vestiario essenziale e molti altri prodotti di prima necessità. Dunque il patto dovrebbe anche includere il pagamento, ad ogni membro della comunità, di un assegno mensile per l’acquisto dei beni e servizi essenziali acquistabili in quantità variabili. Una sorta di reddito di esistenza, di reddito di cittadinanza garantito a tutti, abili e inabili, uomini e donne, ricchi e poveri, dalla culla alla tomba.
Come il pesce non riesce a concepire altre forme di vita al di fuori di quella marina, allo stesso modo noi stentiamo a immaginare altri modi di organizzare la società e l’economia al di fuori della logica della crescita e conseguentemente del mercato e del denaro. Ma se riuscissimo di liberarci delle nostre gabbie mentali, scopriremmo che oltre al vendere e comprare esiste la gratuità, la solidarietà, il bene comune, il fai da te, lo scambio interpersonale, tutti mattoni indispensabili per la costruzione di un’altra economia pensata non per servire i mercanti, ma la gente nel rispetto dell’equità, delle generazioni future e del pianeta.

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