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Note dalla periferia: le mille voci residuali delle favelas

Roberto Vecchi - Martina Mancini

A chi si fosse accorto delle periferie delle metropoli del sud del mondo soltanto dopo avere letto il libro, bello e apocalittico, di Mike Davis (Il pianeta degli slums) va ricordato che la periferia esiste e resiste, nella sua storia di esclusione rispetto alla città moderna, ed è un contenitore che, pur nel silenzio di rappresentazione che la fonda, costituisce oggi, in alcuni lembi di mondo, un magmatico spazio di creazione ed azione variegate. Si può anzi osservare, a proposito della cultura brasiliana degli ultimi anni, che proprio le produzioni culturali delle periferie hanno assunto dimensioni e visibilità tali da costituire probabilmente il fenomeno nuovo più rilevante nella storia culturale degli ultimi 10 o 15 anni. Non perché prima non esistessero i miseri sobborghi del degrado. In Brasile, come è noto, bidonvilles e slums hanno assunto un designativo proprio, favelas, così forte da diventare poi anzi un prodotto nominale di esportazione planetaria. Non molti tuttavia conoscono la storia affatto particolare – e da un punto di vista tragico – di questo termine. Nella città resistente di Canudos, nello stato della Bahia nel Nordest brasiliano, distrutta nel 1897 dall’esercito della Repubblica dopo oltre un anno di sanguinosi e inutili assalti, perché ritenuta il covo di una comunità messianica di sertanejos insorti, guidata dal leader carismatico, Antônio Conselheiro, una baraccopoli si annidava su una collina. Vista da lontano, appariva come il favo labirintico di un alveare di api e dunque alla collina venne dato il nome di Morro da Favela. Dopo il massacro – perché di questo si trattò come denunciò lo scrittore Euclides da Cunha, testimone oculare della carneficina, poi anatomizzata nei suoi molteplici risvolti nella grandiosa opera di Os Sertões – i reduci vittoriosi e poveri dalla battaglia già ritornati a Rio de Janeiro si stabilirono su un morro di periferia che ridenominarono, per somiglianza, Morro da Favela. La nascita nominale del termine dunque si collega ad uno dei bagni di sangue lustrali della storia moderna del Brasile.
E la favela è stata per molto, opposta sociologicamente all’“asfalto”, una specie di altrove musaico della cultura alta brasiliana, soprattutto a partire dagli anni ’30 con la stagione di impegno che segue l’affermarsi pieno dei valori del Modernismo, il luogo dell’andersdenken inafferrabile e indecifrabile della nazione “moderna” del quale, attraverso la mediazione estetica dell’intellettuale modernista, si è tentata la rappresentazione più acconcia. Ma il subalterno, appunto, non parla o se lo fa la sua è sempre una voce estremamente problematica, che presuppone un ascolto complesso. E in effetti il progetto dello scrittore modernista di dare voce, di farsi portavoce e testimone della esclusione, rimane su un piano di pura idealità utopica o, come avviene nei casi migliori, si pensi alla prosa di Graciliano Ramos, esibisce il profilo di una impossibilità tragica. Intorno ai primi anni ’60, però, all’epoca in cui la bossa nova, in campo musicale, è ancora la “promessa di futuro” che incarna l’ottimismo ingenuo e non ancora disilluso dai rovesci della storia delle mitologie del nazionalismo integrazionista, vi sono i primi timidi accenni di una presa diretta della parola da parte dell’altro del “morro”, come nel caso del diario di una favelada, Carolina de Jesus, la cui pubblicazione non a caso conosce uno straordinario successo. Ma è negli anni ’90, nel cuore dunque di una crisi delle più profonde del progetto di nazione, che la periferia si prende la parola, che il subalterno inizia a parlare. Le nuove tecnologie di masterizzazione a basso costo, le radio libere, l’Hip Hop come controcultura della fratellanza nera (le favelas, per il fenomeno storico della stretta correlazione tra razza e classe, sono popolate prevalentemente da popolazione nera o nordestina o comunque si direbbe, col paradossale eufemismo, di colore) diventano il primo segnale di un cambiamento di paradigma negli ordini della rappresentazione: l’altro fa sentire la sua voce e anzi rovescia la direzione del funzionamento del circuito culturale. Alla musica si affianca poi una contropartita letteraria, cinematografica, figurativa, non meno interessante, se pensiamo anche al successo che Paulo Lins riscuote con Cidade de Deus (dal quale si ricava anche una originale versione cinematografica) o la nascita anche dottrinaria di una “literatura marginal” con esponenti di straordinario vigore e dal forte taglio stilistico, come Ferréz (Capão pecado, tr. it. Manuale pratico dell’odio). La favela dunque si rappresenta e soprattutto mostra nel campo della produzione culturale che il massacro di Canudos non si è fermato ma si consuma quotidianamente, nel sordo silenzio della periferia oscurata dai media.
Ma che cultura è la cultura di periferia? È possibile, sempre che questo sia un atto legittimo oltre che praticabile, codificarla non tanto per museificarne le forme e confinarle nell’ambito comunque degradato della cultura di consumo, ma per interagire ed imparare da essa? Si tratta di una cultura che, se vista in modo meno estemporaneo, mostra la sua connessione con il cuore della modernità culturale brasiliana. Una cultura del resto, una cultura che fa del riciclaggio di tutte le altre culture – basse o alte, codificate o pure, elitarie o di massa – le parti di un tutto che attraverso la pratica del bricolage, del montaggio, dà luogo a nuove, impensabili creazioni. Del resto, la favela è anche una discarica della città dell’“asfalto”, dunque il riuso diventa una forma di resistenza e attacco dei valori fondanti la società escludente che la produce come sacca o deposito dei suoi rifiuti.
Di seguito si racconta la storia di questo processo dai molteplici snodi, ricostruendone l’inizio e il punto, sia pure temporaneo, di approdo. Si tratta di due storie di marginalità che conoscono tuttavia una esposizione massima. Il punto di partenza è il Diario di Carolina de Jesus che, appunto, inaugura un modo immediato (nel senso di diretto) di rappresentazione del periferico. Il secondo punto di comparazione è il recentissimo e ancora inedito in Italia documentario di Marcos Prado, Estamira, che descrive la vita di una catadora di immondizia nella maggiore discarica di rifiuti della America Latina, a Rio de Janeiro. Dietro l’analisi delle due opere, la cui combinazione in sé già offre un punto di vista straordinario su una storia esclusa che altrimenti non si potrebbe raccontare, vi è la elaborazione di un progetto dedicato alla cultura del resto dove la pratica creativa del riciclaggio viene studiata come il tratto fondante di una nuova storia culturale, scritta però dal punto di vista periferico dell’escluso. Ciò non solo ne permette il raccordo con una tradizione culturale “alta” che la riconnette a stagioni fondamentali come il Modernismo, ma ne definisce anche risvolti nuovi e concreti che si svilupperanno in azioni e progetti sul riciclaggio in grado di valorizzare il potenziale innovativo, insieme originale e critico, delle culture prodotte dalle periferie brasiliane.
Non è facile raccontare la storia di un paese grande come il Brasile. Gigantesco, come i suoi conflitti. Soprattutto se la narrativa vuole raccontare storie non egemoni, ma si sforza al contrario di dare cittadinanza culturale a coloro che forse una cittadinanza reale non la hanno mai posseduta. In questo senso, la letteratura prodotta e consumata delle élites ha contribuito storicamente, con le sue forme esclusive, ad aumentare la distanza tra sé e una popolazione segnata in modo rilevante dall’analfabetismo. D’altra parte, va anche detto, in una generalizzazione storica, che la letteratura ha esercitato non solo una funzione, in certi casi, di esclusione ma ha cercato di rappresentare il portato e le espressioni della cultura popolare, fornendo un contributo anche politico alla costruzione di un progetto di nazione inclusivo. In alcune fasi, pensiamo ad esempio al ’900, gli scrittori hanno tentato anche con una ludica coscienza critica di dare voce a tutta la realtà polimorfa e contraddittoria del Brasile. Si pensi al romanzo “rapsodia” di Mário de Andrade, Macunaíma. O herói sem nenhum caráter, il cui protagonista, emblema di una identità che si fonda su una mancanza, come quella brasiliana, favorisce un incontro autentico con il Brasile, dove il protagonista è soggetto a una metamorfosi multirazziale incessante, a cui corrisponde un movimento orizzontale e verticale nella realtà sociale e linguistica. Un vero e proprio “libro-Brasile” insomma. Con gli autori dei romanzi del cosiddetto post-modernismo, tra cui spunta João Guimarães Rosa con il monologo fiume del jagunço in Grande sertão Veredas - ma si potrebbe citare anche Quarup di Antônio Callado - la letteratura diviene il luogo privilegiato di costruzione di una memoria anche dei subalterni.
Ma per venire all’oggi, dentro la vita, una quiete apparente maschera la disgregazione sociale e la violenza nelle città, soprattutto nelle periferie dove si assembrano i conflitti più acuti. Ma nella letteratura – meglio, nella cultura come un insieme complesso, mobile e moderno in cui le topologie di alto e basso della cultura europea vengono fatte saltare dalla immensa energia della cultura popolare – la voce dell’escluso è ciò che di più originale si possa udire, poiché ha trovato la via per potersi fare sentire. Gli esclusi, questa è la novità, prendono la parola direttamente, senza più dipendere dalla mediazione di un artista o di un intellettuale come poteva avvenire nel Modernismo anche di più forte impegno ideologico. Se a tale fenomeno si vuole trovare un inizio, si può osservare che già negli anni ’60 la favelada e scrittrice nera Carolina Maria de Jesus rappresenta un antecedente importante, tanto che può essere considerata il ponte di unione tra gli intellettuali e gli artisti da cui dipendeva la mediazione, dunque la possibilità di rappresentazione, degli esclusi. Questi ultimi continuano a dar voce a ciò che non è ancora cambiato dai tempi dell’autrice, nell’eterno presente della trasformazione sociale che ancora stenta a venire. Lei, una donna, indifesa nella favela, aveva compreso che, dominando i codici linguistici, gettandosi col suo corpo emarginato nella letteratura, irrompendo insomma nel mondo della cultura letteraria, avrebbe avuto la possibilità di migliorare la propria condizione e di accedere ad un’altra dimensione di conoscenza. La comparsa di Carolina Maria de Jesus nel mondo dei bianchi e la sua fama si collocano in un’epoca compresa tra due dittature, quella dello Estado Novo, che si era conclusa nel 1945, e l’altra nascente a partire dal 1964 col colpo di stato militare che instaurerà una ventennale dittatura. Fino a quel momento esisteva poco o niente che rivelasse direttamente l’intimità degli emarginati. Il successo ottenuto dalla pubblicazione del diario Quarto de Despejo (Stanza dei rifiuti), fu l’espressione di un momento di ottimismo di una democrazia neonata, che per istaurarsi, implicava critiche che in quel momento dovevano preparare il terreno della storia per la costruzione della nazione. Sono gli anni della bossa nova e della costruzione di Brasília. La sua esperienza nella favela si collocava nello sviluppo economico del programma sociale. In quel periodo, la stampa era molto attenta a registrare ed analizzare le molteplici problematiche politiche, economiche, culturali e sociali che emergevano dalla realtà nazionale in continuo fermento. Uno tra i primi ad addentrarsi in questo lavoro di scavo giornalistico fu Audálio Dantas, militante attivista di sinistra, attento osservatore dei fenomeni sociali, che gettò molto più di un occhio interessato ai substrati urbani, alla situazione di miseria che stava ampliando le aree di favelas.
Era il 1960 quando il libro di Carolina M. de Jesus venne pubblicato dalla libreria Francisco Alves, all’epoca una delle più importanti editrici brasiliane. È l’anno, come si diceva, della inaugurazione della nuova capitale, Brasília, e come la nuova città per il Brasile, anche il diario della scrittrice nasceva all’insegna della speranza. Costantemente biografico, funzionò come documento di esperienze fino allora mai comunicate da chi pativa una vita miserabile. L’autrice conquistò una fama internazionale sorprendente (l’edizione italiana ha una prefazione di Alberto Moravia). Quarto de Despejo è un diario in apparenza scritto in modo semplice eppure molto difficile da leggere e da interpretare. In esso la scrittrice rappresenta se stessa attraverso una scrittura circostanziale propria del diario, che dà un’impressione molto forte della realtà da lei vissuta nel presente, fornendo una testimonianza significativa su aspetti della storia e della cultura di quegli anni. Si ha come l’impressione che l’invenzione di una storia, o di più storie, siano scandite dalle giornate in un cui i momenti sono talmente circoscritti e limitati a livello spazio-temporale da far apparire le descrizioni come delle istantanee. La scrittura per Carolina Maria de Jesus assume una funzione vitale. È una dimensione del suo vissuto, una traccia della sua personale esperienza. Attraverso le storie che racconta, esamina se stessa, mette a nudo ciò che prima era invisibile agli occhi della élite. Nella sua condizione di donna nera, catadora de lixo (raccoglitrice di spazzatura), abitante della favela, fa ciò che nessuno ha mai fatto in una simile condizione: si racconta in un diario.

«Quando sono in città ho come l’impressione di stare in un salone con i suoi lampadari di cristallo, i suoi tappeti di velluto, cuscini di seta. E quando sono nella favela ho l’impressione di essere un oggetto fuori uso, degno di stare in una stanza dei rifiuti. Devo includermi, perché anch’io sono favelada. Sono uno scarto. Sono nella stanza dei rifiuti, e ciò che si trova nella stanza dei rifiuti o si brucia o si butta via».

Ella parla alla coscienza con un linguaggio universale capace di agire nel profondo. Affronta numerose tematiche che riflettono una comprensione sempre più profonda della propria e dell’altrui condizione umana. È su questo piano che prendono vita le sue riflessioni su giustizia, solidarietà, amore, patimenti quotidiani, politica, condizione della donna, senso di responsabilità, importanza della cultura, speranza, rassegnazione, suicidio, pace interiore, contemplazione, fiducia nel prossimo, avidità, invidia. Consapevole di un’umanità che ignora chi è povero la giudica con severità: «Ma l’umanità è così. Preferisce veder rovinare, sprecare, piuttosto che lasciare che i suoi simili possano trarre profitto». La ripetitività dei fatti, inesorabilmente desolanti, dà forza al racconto e ne chiarisce l’intensità poiché, riproponendosi in maniera ciclica, mettono in evidenza una realtà che sembra non poter mutare, nonostante gli sforzi. La preoccupazione e la paura di non trovare ogni giorno il denaro per il cibo quotidiano sono le costanti che troviamo nel diario. Il lavoro di Carolina M. de Jesus riscatta la sua esistenza, rendendola dignitosa e, pur trattandosi di un lavoro molto umile, ne è orgogliosa: «Faccio tutto quello che bisogna fare senza ritenerlo un sacrificio». Nel diario emerge l’oscillazione tra la forte convinzione dell’autrice di vivere in un inferno dal quale non è possibile uscire e il senso di responsabilità verso i figli, nonché la forza interiore, che la sostengono e la spingono a trovare le risorse, a non rassegnarsi mantenendo viva la speranza di cambiare vita.
Le considerazioni su ogni aspetto dell’esistenza riportano il lettore a riflettere sulla propria condizione di uomo al quale la vita chiede responsabilità.

«La vita è come un libro. Solo dopo averlo letto sappiamo cosa racchiude. E noi quando saremo alla fine della nostra vita verremo a conoscenza del suo decorso. La mia, fin qui, è stata nera. Nera è la mia pelle. Nero è il luogo dove vivo».

Quello fu l’inizio.
Attualmente, in Brasile, molte delle manifestazioni culturali sono associate alla popolazione nera. Il samba, il maracatu, il caboclinho, la capoeira e molte altre sono ricordate come parte dell’ingente contributo dei neri alla cultura nazionale. Il governo Lula ha sancito il debito sociale che il Brasile ha, ancora oggi, con la popolazione nera, deportata in schiavitù dall’Africa. Nella diversità culturale, il movimento Hip Hop occupa una posizione di rilievo e attrae molti giovani, soprattutto quelli che vivono nelle periferie. È un Hip Hop cosciente, un movimento radicato nelle esperienze di giovani che vivono nella periferia e sperano in un miglioramento delle condizioni di vita, è una forma culturale di resistenza e di trasformazione della realtà. Oltre a ricercare la costruzione di una identità nera, che si schiera contro il preconcetto di colore, viene data enfasi anche all’emarginato che vive nella periferia. E oggi, appunto, la “letteratura marginale”, che testimonia ancora una volta il degrado delle periferie, incontra l’interesse delle classi colte in opere come Cabeça de porco, Capão Decado; ma di questo impegno si avverte l’eco anche in romanzi più noti come Cidade de Deus.
Il Brasile comincia ad ascoltare i subalterni e sembrerebbero accorciarsi le distanze tra le classi. Il problema della periferia però è ancora aperto e lacerante. In essa ancora troppe “Caroline” vivono la loro drammatica condizione esistenziale. Nulla sembra essere cambiato. Non a caso, il documentario diretto da Marcos Prado, Estamira, che ha ricevuto premi nazionali e internazionali, ci riporta ai quaderni della scrittrice che sembrano tradotti in immagini cinematografiche, confermando in modo indiretto ancora una volta l’efficacia della scrittura del diario, poiché abbiamo la prova che esso ha suscitato nel lettore immagini molto forti e riconoscibili della realtà di cui ci ha parlato. Il confronto con il film fa risaltare ancora l’aspetto psicologico, particolarmente interessante, che sta alla base delle sue opere letterarie (oltre a Quarto de Despejo Carolina scrisse anche altri diari, un romanzo e poesie), attraverso il quale conduce il lettore a immaginare gli spazi, i luoghi, le situazioni fino a farlo calare e immedesimare nella sua stessa realtà, suscitando la possibilità di riflettere sui valori esistenziali in gioco.
Il film Estamira racconta la storia di una donna mulatta di 63 anni che da 20 lavora nel “lixão do Rio”, la discarica municipale che ogni giorno riceve più di otto mila tonnellate di rifiuti. Dopo essere passata attraverso molteplici esperienze traumatiche, Estamira trova nel “lixão” il rispetto e l’amicizia che non ha mai avuto nella vita. Marcos Prado riferisce che incontrò Estamira nel 2000 mentre stava lavorando al suo progetto di realizzare un servizio fotografico sui catadores de lixo; Estamira gli rivelò di «abitare in un castello tutto infettato di oggetti raccolti nei rifiuti e di vivere in funzione della sua missione: rivelare e esigere la verità», quella verità che lui, a sua volta, avrebbe dovuto rivelare. La storia di Estamira è raccontata attraverso i suoi ricordi, i racconti dei figli, fotografie, ma soprattutto lo scenario che il documentario pone sempre davanti ai nostri occhi rappresenta l’immagine del degrado che la civilizzazione ha prodotto. Ciò porta lo spettatore a riflettere, a indagare il mondo fuori dalla discarica e ad interrogarsi con spavento sul confine fra “normalità” e follia. In quel vissuto raccontato attraverso immagini schiaccianti e allo stesso tempo rivelatrici di una verità altrimenti sfuggente, si coglie la portata della grande tensione emotiva a cui Estamira è stata esposta durante la sua vita. Anche per lei, come per Carolina Maria de Jesus, la vita è stata la principale maestra. È “catadora de lixo”, con la differenza di svolgere il lavoro in una discarica anziché per le vie della città. Svolge il lavoro umile, ma tutt’altro che inutile, di chi raccoglie, ricicla e riutilizza. La sua voce è quella interdetta degli esclusi. Citando le sue stesse parole, Estamira non è “comune”. Parla con saggezza; non è solo testimone di una realtà, ma di valori molte volte dimenticati dalla società che rimandano a questioni di interesse più generale. Dà voce ad un concetto di grande importanza che ci chiama tutti in causa; è come un grido di denuncia:

«Questo è un deposito di resti. A volte è solo resto, altre volte è anche menefreghismo […]. Economizzare le cose è meraviglioso, chi economizza le cose le possiede. Chi non le ha, soffre».

Alle montagne di rifiuti fanno da sfondo i tramonti stupendi; il vento, il fuoco e la pioggia sembrano voler spazzare via quei cumuli che contrastano con la bellezza della natura. Con Estamira l’immondizia si trasforma in una metafora dove coloro che mantengono in se stessi l’originaria soggettività si presentano come rifiuti, ma al contrario dei rifiuti, come la natura, appaiono poetici nella loro inesorabile dignità. Nel documentario si trattano due problemi sociali fondamentali: la miseria e la questione della pazzia che ci conducono a riflettere su una realtà comprensibile soltanto attraverso l’ascolto dell’Altro che si costituisce come escluso dalla società e dalla idea di “ragione”, insomma da tutto l’universo della razionalità dominante. Estamira afferma di essere nata così e di non voler mutare se stessa. A lei non piacciono gli errori, i sospetti, i tradimenti, la perversità, l’umiliazione, l’immoralità e così vuole rimanere, coerente col proprio essere. Considera la sua unica fortuna, paradossalmente, aver conosciuto la discarica del Giardino Gramacho, che ama e adora come vuole bene ai suoi figli e ai suoi amici.
Non si tratta di un soggetto da analizzare solamente dal punto di vista “scientifico” della psichiatria, poiché i suoi discorsi appaiono poetici e filosofici, offrendo intuizioni che aprono squarci ad intuizioni geniali. Quarto de Despejo e Estamira ci illuminano sulla reale condizione dell’uomo nel mondo mostrandoci una realtà dimentica dei valori fondamentali che lo allontanano dalla propria essenza. La discarica sta per essere trasferita ed è significativo che, nonostante i disagi ambientali, la tossicità derivante dai rifiuti e le condizioni insalubri e disumane dei lavoratori, pochi vorrebbero andarsene di là.

«Io Estamira sono la visione di ognuno. Nessuno può vivere senza Estamira. Provo orgoglio e tristezza per questo».

Il successo di Carolina ed Estamira rafforza l’idea che la cultura del resto è un’occasione creativa superiore alla cultura del consumo. Mostrandoci una realtà che nel suo modo è straordinaria e straordinariamente causata dall’uomo, ci toccano nel profondo poiché, raccontando se stesse, raccontano la storia dell’umanità. Tutti i catadores sono, in un certo senso, il simbolo di una cultura residuale. La stessa cultura brasiliana moderna si costruisce a partire dalla centralità che in essa occupa la pratica del riuso, ma al di là del presupposto culturale, va osservato che il riciclaggio implica una cultura del recupero che possiede molteplici valori, in particolare nel contesto delle periferie. Il primo e più immediato è quello ecologico, che si collega ad una idea alternativa di sviluppo e di consumo sostenibili. Non meno importante è il valore sociale del riciclaggio che, promosso da associazioni pubbliche o non governative svolge una funzione di integrazione della cittadinanza; il valore economico che può derivarne producendo reddito in aree disagiate. Non ultimo, il valore culturale nell’ambito di un contesto come quello brasiliano abituato a pensarsi come prodotto composito di molteplici riusi di culture, proprie ed esterne. Senza trascurare anche il valore artistico dell’artigianato di riuso. A questo progetto stiamo lavorando. Anche grazie a Carolina ed Estamira.

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