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Il capitalismo e la pulsione alla crescita illimitata

Pietro Barcellona

Il pianeta in pericolo

L’ecosistema della Terra è in pericolo. I segnali che ogni giorno il nostro pianeta ci invia lasciano presagire un’imminente crisi. Come osserva Castoriadis, tali risultati ricordano all’uomo in ogni caso, e sotto pena di morte, il suo inserimento insuperabile in una natura che ha una sottigliezza e una profondità, con la quale le sue attività coscienti non arriveranno mai a misurarsi [1].
Il deserto sembra avanzare impietosamente provocando un progressivo depauperamento della flora e della fauna terrestri. Le foreste pluviali, che per millenni hanno rappresentato i polmoni del pianeta, stanno scomparendo sotto la minaccia dell’urbanizzazione e delle industrie del legno. L’utilizzo delle sementi transgeniche sta accelerando in modo irreversibile il processo di perdita del patrimonio di biodiversità delle colture agricole. L’ecoscienziata Vandana Shiva, a questo proposito, ha scritto che «quel che oggi viene chiamato cibo non è cibo. È il sottoprodotto di un’economia di guerra. Mangiamo gli scarti della Seconda Guerra Mondiale. I fertilizzanti al nitrogeno che servivano per fare gli esplosivi vengono ora utilizzati come fertilizzanti, ma anziché fertilizzare, essi uccidono il nostro suolo. I prodotti chimici di guerra sono stati usati come pesticidi ed erbicidi. L’agricoltura è stata ridotta al consumo e al riciclaggio dei rifiuti di guerra» [2]. Le falde di acqua potabile sono sempre più a rischio a causa della siccità e dell’inquinamento; il ricorso all’autoapprovigionamento per sfuggire ai costi sempre più elevati delle risorse idriche porta al rischio di salinizzazione di estesi territori.
La nostra epoca è ormai profondamente segnata dalla crisi del regno vivente, anzi possiamo affermare di vivere proprio nell’epoca della “crisi del vivente”. Per far fronte a questa situazione e cercare di uscire da questa prospettiva, non è sufficiente provare a formulare delle soluzioni che mantengano inalterato il ritmo frenetico del progresso tecnologico, economico e consumistico che attualmente segna la vita dell’uomo occidentale e che sembra essere la meta dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Lo sforzo serio, rimasto ancora quasi incompiuto, anzi potremmo dire del tutto intentato, deve essere invece quello di prendere realmente coscienza della gravità della situazione verso cui ci stiamo dirigendo. Il mito del progresso infinito ha fatto sì che la presenza del genere umano sulla terra venisse vista come una giustificazione del diritto di disporre illimitatamente della natura. Svendendo il senso del limite all’utopia del progresso senza fine, l’uomo ha smarrito quelle coordinate che gli permettevano di trovare un posto nell’equilibrio armonico dell’ecosistema terrestre.


Modernità e perdita del senso del limite

Non basta riflettere esclusivamente sulla natura del sistema capitalistico e dell’economia del mercato globale per individuare il punto in cui l’uomo ha smarrito il senso dei suoi limiti e la percezione del suo posto nel mondo, e per comprendere le origini della profonda crisi in corso. La riflessione deve essere più profonda e deve coinvolgere l’intero statuto della Modernità e l’idea di progresso che l’accompagna sin dalle origini. Se è vero che la propensione a superarsi sembra, in qualche modo, essere strettamente connaturata all’uomo, è altrettanto vero che solo nella Modernità la corsa verso il progresso ha perso qualsiasi freno e inibizione e sembra, anzi, esser divenuta il motore unico della vita dell’uomo. La vittoria economica e sociale del capitalismo e il suo matrimonio con la tecnica e con la scienza hanno dato luogo a una catena di “sistemi complementari”, che alimentano il motore del produttivismo industriale, della frenesia dei consumi e della febbre dei desideri. La Modernità, iniziata nella prospettiva illuministica dell’emancipazione delle potenzialità dell’uomo, ha finito per implodere in un’overdose di progresso e di consumi.
Superattività, sovrasviluppo, superproduzione, sovrabbondanza, sovralimentazione, superindebitamento, consumi sfrenati, tecnologie senza limiti, sono gli standard che dominano e regolano le condotte di vita quotidiana dei pochi eletti che partecipano alla festa dell’iperconsumo occidentale. Sembra ormai che sia l’eccesso a scandire i ritmi di vita della famiglia umana, e che la crescita economica, determinata dall’aumento dei consumi e dal successivo aumento della produzione e quindi della ricchezza, sia diventata la potenza universale. Sotto il ritmo martellante del “produci, consuma, crepa” il genere umano inizia, però, a perdere quei tratti che lo caratterizzavano: il tessuto sociale è in continua lacerazione, e di conseguenza anche i legami sociali più elementari, come i rapporti familiari, le relazioni affettive, i rapporti di vicinato si deteriorano giorno dopo giorno. L’individualismo più sfrenato sembra essere, ormai, la direttrice che segna i rapporti umani, mentre tentativi di ricreare una socialità artificiale (chat, community, ecc.) sembrano condurre ancor più l’uomo verso l’alienazione.
L’idea del limite è andata perduta. Ed è un’idea essenziale, perché privi di limiti, perdiamo il rapporto con le generazioni, perché stentiamo a formulare una responsabilità verso il futuro. Tutto attorno sembra dirci che ciò che è tecnicamente realizzabile, è automaticamente autorizzato; tutto si esaurisce nel consumo immediato, nell’immediato appagamento di ogni desiderio, che poi ne è la distruzione, se il desiderio è tensione. La Modernità nasce per esaltare la vita, la libertà individuale, la gioia di vivere, e finisce in un tragico rovesciamento: la vita come mezzo per riprodurre ricchezza. Sarò forse antimoderno, ma mi pare che, con questo, siamo giunti al fallimento della Modernità.


Una crisi di civiltà

La libera soggettività dell’individuo era il progetto della Modernità, ma l’astrazione cui è affidato lo consegna al condizionamento totale dei rapporti economici e lo condanna all’assorbimento progressivo nel meccanismo di circolazione delle merci. Il compimento del progetto è, dunque, la negazione della premessa: la generale producibilità e appropriabilità dei beni economici si risolve in individualismo di massa senza qualità. Come Marx ha capito, l’astrazione indeterminata, priva dei vincoli contenutistici, è reale, funziona come effettivo principio di organizzazione della società. L’astrazione non è un modo per descrivere concettualmente la realtà, ma di costruire astrattamente la realtà. Possiamo capire questo risultato, ad esempio, considerando l’attuale enfasi sulla tutela del consumatore come categoria sostitutiva della vecchia categoria del capitale e del lavoro. Il consumatore-cittadino è una figura fra le più astratte che si possano immaginare, giacché mette sullo stesso piano sia il padre e la madre di una famiglia monoreddito, sia una magnate dell’industria e della finanza. E tuttavia, l’uso di questo concetto modifica la percezione della realtà e la propria autorappresentazione. Il lavoratore non è più l’antagonista del capitale, ma un qualsiasi cittadino che si trova a entrare nel mercato per soddisfare un proprio bisogno. Il mondo è ridotto a “consumo” e tutto il resto diventa antiquato.
Si è poco riflettuto sulla potenza reale dell’astrazione come principio effettivo di regolazione dei rapporti fra uomini, per poter capire fino a che punto questi “concetti” conformino la realtà umana. Più ciascuno di noi si percepisce astrattamente, più si esauriscono le relazioni vitali con gli altri individui e con il mondo, producendo una vera e propria crisi di civiltà. La crisi di civiltà è una profonda crisi dello statuto antropologico; quello che la frantumazione ci consegna non è un semplice alternarsi di caos e ordine, né una pura metamorfosi dei problemi dell’umanità globalizzata, è qualcosa che incide profondamente nello statuto antropologico. Il tentativo dell’uomo di produrre le proprie condizioni di esistenza si è capovolto nella produzione dell’esistenza senza cooperazione umana. Le narrazioni evoluzionistiche, scientiste e tecnologiche sono la rappresentazione del nuovo scenario in cui viene cancellata ogni specificità dell’esistenza umana, e con essa le dinamiche degli affetti, l’amore e l’odio, la dipendenza e la libertà. Il matrimonio fra tecnica e scienza è la nuova metafisica che sostituisce ad ogni finalismo umano il finalismo dell’evoluzione biologica. La nostra epoca è una specie di autorealizzazione della biologia (bios + logos), in cui il logos immanente del bios ha neutralizzato la casualità del vivente e la specificità dell’umano. Un logo-capitalismo, una logo-economia senza uomini e donne: l’artificio e la natura coincidono.
Se la filosofia è, come ha scritto Michel Foucault, diagnosi dell’attualità [3], allora, oggi, la filosofia deve interrogare il significato di quella occidentalizzazione del mondo che si è realizzata sotto l’egida della razionalità moderna del Diritto Universale e della Tecnica dispiegata. Il potere della Tecnica, il suo dominio, hanno atrofizzato la consapevolezza e la responsabilità dei singoli individui. Dobbiamo ricostruire un senso comune sul grande problema del controllo della vita e della sua riproduzione, cominciando con il ridefinire radicalmente i termini in campo. Occorre riprendere la strada del pensiero, abbandonando la fiducia illimitata nelle possibilità della Scienza, l’idea salvifica del Progresso e della Tecnica, come solo criterio di verità, ricominciando dall’interrogazione, per riuscire a modificare alla radice la visione del mondo, con un profondo ripensamento delle pratiche di vita.
Ci sono, nella storia dell’Occidente, momenti magici, in cui è parsa aprirsi una nuova via per dare alla nostra breve permanenza sul pianeta il significato di un rapporto non effimero con le infinite possibilità di questo universo, momenti in cui anche la singola esistenza ha potuto sperimentare il senso della bellezza e dell’amore e sentito battere dentro di sé la forza della vita. Proprio dal Mediterraneo, dove hanno avuto inizio le grandi trasformazioni dell’umano, è possibile che riemerga il filo interrotto della grande sfida all’indifferenza del mondo contemporaneo.


Mediterraneo: il mare “multirisonante”

Ho sempre dichiarato di avere un debito viscerale verso la cultura mediterranea; penso che le categorie attraverso le quali, a partire dai Greci, essa si è formata, restino di assoluta attualità. «Essere vasto e diverso, e insieme fisso»: sono i versi di Eugenio Montale con cui Massimo Cacciari apre il suo L’Arcipelago [4]. Questi versi fanno parte di una poesia che si chiama “Mediterraneo”. È dunque la vastità e la diversità a caratterizzare la cultura mediterranea; essa guarda all’ambivalenza, alla scissione, non come elementi negativi, ma come un movimento, come un andare e venire; consente, in questo modo, che le diverse polarità non vengano conciliate, ma vengano agite produttivamente. L’uomo è destinato all’aporia, non può vivere se non aporeticamente, non può che ospitare dentro di sé elementi irriducibili; mentre il tentativo messo in atto dallo scientismo, dall’evoluzionismo, dal relativismo, tende a rendere tutto omogeneo, rinuncia a ogni tipo di conflitto produttivo. Ma il problema è non ridurre a unità. Lo scientismo, invece, unifica, promuove l’univocità.
Voglio precisare, il Mediterraneo non è un archetipo. Non amo gli archetipi. Penso soltanto che uomini e donne siano eventi di un accadere, e questo si articola e si sviluppa in pratiche e in tradizioni diverse. Queste pratiche e queste tradizioni canalizzano energie e pulsioni. Questo, e niente altro, è il Mediterraneo, la cultura mediterranea: tradizioni e pratiche attraverso le quali si sviluppano i rapporti fra mito e coscienza, fra ragione e passioni, fra ragione e istinti. Ed è in questa cornice originaria che dobbiamo leggere la nostra stessa vicenda, la vicenda dell’Occidente: nascono di lì i nostri conflitti e il loro nome, le nostre proiezioni mentali. Quella mediterranea è, insomma, una cultura della contraddizione, del conflitto, dove i diversi elementi arrivano però a coesistere, ad occupare insieme il fondo dell’animo umano. Gli opposti, invece di elidersi, sembrano coesistere. Ma la gestione produttiva del conflitto è tale se dà luogo a quello che chiamo la “produzione del terzo”: il terzo risolve la polarità senza arrivare a distruggere i poli. Vediamo di chiarirlo appoggiandoci a una metafora. Da quando l’uomo è consapevole della differenza sessuale è consapevole anche – come diceva un grande psicanalista, Andrèe Green – di non concepirsi eterno, perché la sua riproduzione sarà sempre parziale. Le due parti di una coppia, l’uomo o la donna, non si possono mai riprodurre per intero. Il terzo sarà allora il figlio, che comunque non è né la copia della madre né quella del padre. Dunque la produttività del conflitto fra i sessi, o la loro differenza, equivale a far nascere un figlio. Questo va inteso naturalmente in senso del tutto metaforico. Possiamo parlare anche del conflitto fra due differenti idee che può dare produttivamente luogo a una terza idea. Come si può capire, è una logica del tutto diversa da quella puramente scientifica, una logica del tutto lineare, dove premessa e risultato tendono a corrispondersi. Pensiamo, invece, alla grande scoperta dell’inconscio, o alla messa in scena dalla tragedia greca. Cosa ci fa vedere la tragedia greca? Un pensiero non lineare, che si muove con le stesse fluttuazioni manifestate dall’inconscio. Essere contemporaneamente più cose: essere figlio, e, al tempo stesso, essere padre. La logica scientifica c’impone che A non può essere B, e B non può essere A. Qui, invece, siamo di fronte a una logica, assolutamente paradossale, propria delle associazioni che si fanno in psicanalisi: A e B sono C. La tragedia greca è la più grande teatralizzazione delle passioni che la storia dell’Occidente abbia mai realizzato. Ha rappresentato l’ambivalenza strutturale degli esseri umani, ha dato voce al conflitto, alla scissione, e, al tempo stesso, ne ha indicato il movimento.
Castoriadis commenta una poesia di Saffo, che dice «era l’ora in cui le pleiadi si tuffano nelle isole [...]. È l’ora della mia solitudine». Castoriadis si mette a discutere sulla traduzione corretta di “ora” e la ricollega al contesto della poesia di Saffo. I poeti antichi, e non solo, guardavano il cielo e vedevano le Pleiadi che si tuffavano davvero nel mare. Rispetto a questa visione, il concetto di ora usato da Saffo – secondo Castoriadis – non è il minuto, non è l’ora dell’orologio, è la stagione del mondo, è l’epoca della vita, è il momento degli astri. L’ora dovrebbe tradursi con mille e mille parole, perché le parole degli uomini non sono segni che automaticamente hanno un significato, sono aperture di universi simbolici, dove noi abitiamo [5]. Questo è il linguaggio dell’Occidente e, in questo senso l’identità dell’Europa è il suo non avere un’identità rigida, il suo essere a partire dalla storia del Mediterraneo un’identità di accoglienza, cioè un’identità in cui una volta l’Europa e l’Asia erano due “sorelle”. Nei Persiani, la madre di Serse, sogna le due donne, la donna dorica e la donna asiatica, che rappresentano due mondi: il mondo della libertà e quello del vincolo. Allora, lo spazio europeo può essere pensato come lo spazio di una cultura aperta, non legata a una rigidità territoriale, a una difesa parossistica dell’etnia o della razza, può essere pensato come il linguaggio di un’assenza che non sarà mai colmata da una presenza. L’Europa può essere un’alternativa alla catastrofe, se non si riduce alla difesa di una globalizzazione soft come promessa di progresso tecnologico, ma si candida ad essere uno spazio “pubblico” in cui ciascun popolo possa esprimere un’appartenenza culturale compatibile con l’appartenenza geografica a una dimensione transnazionale.

[1] C. CASTORIADIS, Gli incroci del labirinto, Hopeful Monster, Firenze 1988.
[2] V. SHIVA, relazione all’incontro “Terra Madre”, Torino, 2005.
[3] M. FOUCAULT, L’archeologia del Sapere, Rizzoli, Milano 1971.
[4] M. CACCIARI, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997.
[5] C. CASTORIADIS, Gli incroci del labirinto, cit.

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