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L’identità dell’Occidente agli occhi dei suoi nemici

Rosanna Camerlingo


In una celebre pagina de La cena delle Ceneri, Giordano Bruno tuonava contro l’Europa che s’imbarcava per le terre d’oltreoceano per ritrovare, scriveva, «il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quello che la provida natura distinse, per il commercio raddoppiar i difetti e giungere vizii a vizii de l’una e de l’altra generazione». «Tempo verrà» continua, che, «avendo quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggiori frutti di sì perniciose invenzioni». La profezia, peraltro amaramente pronunciata anche nella denuncia di Las Casas delle atrocità spagnole commesse nel Nuovo Mondo, si sarebbe tristemente avverata nel giro di qualche secolo. A vendicarsi dell’invasione europea, però, non sarebbero state le popolazioni americane, sterminate, prima ancora che dagli eserciti europei, dai “proiettili invisibili”, come gli abitanti delle terre d’oltreoceano chiamavano le malattie portate dal Vecchio Mondo. Contro l’Europa sarebbero insorte altre popolazioni che dell’Occidente avrebbero assorbito i vizi e i difetti, aggiungendoli ai loro, come aveva acutamente previsto Bruno.
Si sa che la “scoperta” dell’America è l’evento che divide in due la storia d’Europa. Dal cuore dell’Europa nasceva, insieme alla sua espansione nel mondo, il sospetto che quella scoperta e quella invasione sanguinaria e ingiusta avrebbero messo in seria questione il primato morale e religioso che essa si era attribuita e in nome del quale essa perpetrava inimmaginabili orrori («inaudite pazzie» scriveva Bruno), fuori e dentro casa. Nascevano proprio allora anche due modi di riflettere sulla “modernità”, che l’esplorazione di nuove “civiltà” (non sempre era questo il termine che si concedeva alle popolazioni americane) o la riscoperta di vecchie imponevano all’Europa. La prima si fonda essenzialmente su una sfocata proiezione ideologica dell’Occidente sulle popolazioni non europee. Essa ha meno a che fare con una seria indagine dei costumi e della cultura dei popoli non occidentali, che con una verifica dell’identità europea. Ne è un esempio il famoso e glorioso saggio di Montaigne sulle popolazioni del Nuovo Mondo, Les Cannibales. L’altra, più lucida, cerca di scoprire i danni ideologici e politici che l’esportazione violenta dei “vizi” dell’Occidente avrebbe causato alle civiltà non-europee, e, di conseguenza, a quelle europee.
Le cose oggi sono ovviamente molto cambiate e si sono enormemente complicate, ma questo è più o meno il presupposto storico-filosofico da cui parte un agile ma denso libro scritto a due mani da Ian Buruma, professore presso il Bard College di New York e assiduo collaboratore del New York Review of Books, e Avishai Margalit, stimato professore di filosofia presso la Hebrew University di Gerusalemme, oggi chiamato come professore permanente presso il prestigioso istituto di ricerca di Princeton. Due voci attentamente ascoltate nel mondo anglo-americano. È già nel titolo il piano del libro: Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici (così tradotto in italiano per Einaudi nel 2004). Esso fa eco e si contrappone al titolo e al contenuto dell’influente libro del palestinese Edward Said, Orientalismi, scritto nel 1975. Il libro di Said, celebrato professore alla Columbia University, morto pochi anni fa, è una critica serrata a quella immagine dell’Oriente che il mondo occidentale ha inventato ad hoc e proiettato sul mondo non-occidentale per giustificare la sua impresa coloniale. L’Occidente, scrive in sintesi Said, ha escogitato e propagandato l’immagine di un Oriente abitato da una popolazione infantile, ingenua, “differente”, irrazionale e arretrata, così da facilitare ideologicamente la sua occupazione commerciale e culturale, riaffermando, per contrasto, l’identità della civiltà occidentale come “matura”, adulta, “normale”, “razionale”, in breve, superiore. Incurante delle infinite differenze storiche, culturali e linguistiche, l’Occidente ha messo insieme Asia e Africa, ha loro attribuito grossolanamente un immaginario comune, abbassando entrambi i continenti al rango di civiltà “minori”.
Ora, Occidentalismo parte da una prospettiva del tutto opposta. Se questa è l’idea che l’Occidente si è fatta dell’Oriente, qual è l’idea che l’Oriente si è fatta dell’Occidente? Un’immagine altrettanto riduttiva e distruttiva, scrivono gli autori, a cui essi danno il nome di Occidentalismo, “odiosa caricatura” della civiltà occidentale. Di che cosa si tratta lo vedremo tra breve; tanto per cominciare, gli autori chiariscono tre punti. Il primo è che essi non intendono emettere giudizi sulla disastrosa situazione politica internazionale di oggi, e danno per scontata la critica all’arroganza e ai disastri umani e sociali provocati dalle politiche estere degli stati europei e degli Stati Uniti. Il loro libro, invece, vuole raccontare la storia e la circolazione di alcune idee, idee cattive («bad ideas»), che il mondo non occidentale ha elaborato sull’Occidente; infine, gli autori tengono a sottolineare che queste idee non sono nate in “Oriente”, bensì proprio in Occidente.
Ne consegue che il libro non punta subito ed esclusivamente sul Medio Oriente, regione del mondo ora sotto i riflettori, ma parte da lontano e segue il percorso di «idee cattive» sull’Occidente che dall’Occidente stesso si sono propagate in Giappone, in Russia, in Cina, in Africa, e infine sono state strumentalizzate politicamente da una parte del mondo islamico.
Le cattive idee sull’Occidente coincidono sostanzialmente con cattive idee sulla “modernità”, concetti e realtà entrambi assai elusivi, aggiungono gli autori, da cui tutto il mondo non occidentale, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, ha, a un certo punto, creduto di doversi fieramente difendere. Scienza, capitalismo, democrazia, libertà individuali, tecnologia furono per esempio considerati come malattie infettive, che avevano contagiato lo spirito giapponese e da cui bisognava guarire al più presto perché si potesse realizzare il programma di nazionalizzazione del Giappone, auspicato da un gruppo di intellettuali riuniti a Kyoto nel 1942, all’indomani dell’attacco di Pearl Harbor. Il Giappone faceva marcia indietro di fronte alla più massiccia e radicale opera di occidentalizzazione mai avvenuta nella storia tra il 1850 e il 1910. Fu in quel periodo che la classe dirigente decise di studiare ed emulare minuziosamente l’Occidente, percepito come nemico temibile, ma anche come potente detentore di una cultura e di una tecnologia vincenti, come mostrava la sua espansione nel mondo. Dal realismo letterario alle scienze naturali, dalla filosofia tedesca al cinema americano, dai vestiti europei alle strategie navali inglesi, tutto dell’Occidente fu avidamente copiato e assimilato. Troppo rapidamente. Certo il Giappone è riuscito così a evitare di essere colonizzato dall’Occidente e a imporsi come potenza mondiale, ma la velocità con cui esso ha ingoiato la cultura e la tecnologia occidentali ha prodotto effetti simili a quelli di una indigestione. La reazione anti-occidentale e soprattutto antiamericana fu inevitabile. Il materialismo americano, dicevano gli intellettuali riuniti a Kyoto nel 1942, aveva gravemente danneggiato la tradizione spirituale giapponese. L’obiettivo della rivolta anti-occidentale non era, come ci si potrebbe aspettare, una specifica politica estera americana, ma l’idea stessa dell’America: una civiltà sradicata, superficiale, volgare, cosmopolita. Ma il modello a cui essi si rivolsero per il loro programma nazionale fu quello di una ipotetica Europa pre-rinascimentale e pre-riformata, quando, si immaginava, stato e chiesa erano uniti da una unica spiritualità cristiana. Quando cioè lo spirito comandava sulla carne e la città degli uomini, pensavano, era modellata sulla città di Dio. Qualcosa di simile sarebbe accaduto in Iran negli anni Settanta. Gli esiti opposti di tali rivolgimenti nell’uno e nell’altro paese sono noti a tutti.
Una simile resistenza alla modernizzazione non è esclusiva del Giappone degli anni Quaranta, né dell’Iran degli anni Settanta. Anzi. L’anti-americanismo è stato una parte decisiva del programma ideologico della sinistra occidentale, quanto di quello della destra dell’inizio del ventesimo secolo. Fu adottato da Stalin così come da Hitler e Mussolini. Heidegger, scrivono gli autori, in modo simile agli intellettuali di Kyoto, pensava che l’Amerikanertum (l’“americanità”) avesse prosciugato l’anima europea. E benché marxisti, fascisti e nazisti non abbiano sicuramente gli stessi valori o gli stessi obiettivi sociali, la critica alla modernità li accomuna inaspettatamente. I primi occidentalisti furono europei.
Un esempio indubitabile dell’esportazione di idee occidentali nel mondo non occidentale è quella della grande città. Quando, nel 2001, Al Qaeda prese di mira le due torri di New York, essa rendeva reale una fantasia radicata profondamente nella civiltà occidentale. La storia della città corrotta e senza anima è antica quanto la Babilonia biblica. La grande città cosmopolita, dove si concentrano uomini di ogni religione, lingua, nazione e razza alla smaniosa ricerca di fama e ricchezza è sempre stata vista, dalla Bibbia a Teocrito, da Agostino a Dickens, da Giovenale a Tolstoj, come una realtà torbida e impura. Nella grande città non c’è posto per le aspirazioni dello spirito. Tutto è in vendita. Non a caso la metafora più diffusa per descriverla è quella della prostituta, corpo senz’anima. Su di essa grava perciò la minaccia della vendetta divina, che prima o poi arriverà a purificarla dei suoi peccati. Fu in nome di Allah che Mohammed Atta diresse il volo dell’aereo dirottato sulle torri di Manhattan, gremite di gente di ogni razza e nazionalità, con l’intento di purificare la corrotta Città degli uomini, emblema supremo del capitalismo occidentale. Eppure l’odio per le grandi città non appartiene alla cultura musulmana né a quella dell’Estremo Oriente. Anzi. La urbanizzazione di Baghdad e Costantinopoli fu fortemente incoraggiata dai governi mediorientali, che videro le due città come un’alternativa vitale al nomadismo arabo. Pechino è stata sempre rappresentata come luogo di vibrante fermento e raffinata cultura. E certo il mercato non è un’invenzione dell’Occidente. Ma l’ingegnere Mohammed Atta, come molti occidentalisti musulmani, era tra quelli che in Occidente avevano vissuto a lungo. Era tra quei Musulmani in cui conviveva una letale “sintesi di zelo religioso e di ideologia moderna”.
Come la rivalità, nata in Occidente, tra la corruzione della città cosmopolita e la purezza del nazionalismo etnico ha permeato tutte le ideologie totalitarie di destra e di sinistra del primo Novecento, da Hitler a Mao, anche l’idea della rivalità tra mercanti ed eroi ha prodotto mali incalcolabili. Non ultimo il culto della morte. Ad opporre la vita quotidiana e confortevole del mercante alla vita eroica dell’uomo dotato di talento eccezionale furono per primi, anche in questo caso, gli europei. Ian Buruma e Avishai Margalit addebitano l’origine di questa opposizione al romanticismo tedesco (ma aggiungerei che questo mito ha origine platonica), esso stesso reazione alla sofisticata cultura francese. Una cattiva interpretazione del culto dell’eroicità, contrapposto a una presunta mediocrità materialista del mercantilismo liberista dell’Occidente, ha sorretto l’ideologia dei piloti suicidi giapponesi della II Guerra Mondiale i quali, lungi dal provenire dagli strati bassi della scala sociale, erano generalmente colti e raffinati studenti che avevano letto Socrate, Nietzsche, Hegel, Kierkegaard, e che impiantarono i “vizi” di quelle letture nella tradizione dei suicidi rituali dei samurai. Così come colti e occidentalizzati sono i kamikaze islamici, istigati dalla retorica tutta occidentale di Osama Bin Laden. Nella cultura islamica, concludono gli autori, non c’è traccia di culto della morte.
L’Occidentalismo non è prerogativa di una speciale regione dell’Occidente o del non Occidente. Esso, come dimostrano gli autori, con la sua pretesa di purificare il mondo dal materialismo e dalla mediocrità della democrazia in nome di Dio, pervade l’una e l’altra civiltà. La reazione a una modernità così concepita è ovviamente visibile ovunque nel mondo, nel mondo islamico come nell’America fondamentalista, rinverdita dall’attuale amministrazione.
Ho incontrato recentemente a Roma Avishai Margalit e gli ho chiesto se tra Orientalismo e Occidentalismo non ci fosse una asimmetria concettuale. Il primo mi sembra del tutto inventato dall’Occidente, una proiezione a tutto tondo. L’altro, invece, inventato non è. L’idea che l’Occidente sia materialista, superficiale, cosmopolita, senz’anima ecc., non è inventata. L’Occidente è anche così. Il meccanismo proiettivo dell’Occidentalismo, gli ho obiettato, segue criteri diversi: esso isola una parte di una civiltà, facendola diventare il tutto. È un processo psicologico tipico del fanatismo. Con questo procedimento, i puritani europei del sedicesimo secolo leggevano la Bibbia, piegandola violentemente alla loro ideologia radicale. La parte estrapolata diviene, proprio perché svincolata dalla rete complessa del tutto, enormemente potente. Margalit mi ha risposto che sono entrambe visioni disumanizzanti e distruttive. Nella loro brutale semplificazione, entrambe le ideologie tendono ad annullare l’altro. Entrambe sono insensibili al dolore e alla umanità dell’altro. Con una differenza: la prima, l’Orientalismo, esprime, salvo che in rarissimi casi (Said cita l’esempio di Goethe) il profondo disinteresse dell’Occidente per le altre culture: si tratta dell’indifferenza del più forte verso il più debole. Nell’Occidentalismo invece, possono incanalarsi il risentimento e la rabbia del più debole per il più forte. L’Occidentalismo contiene un potenziale esplosivo formidabile: esso riesce a convogliare su di sé forze rivoluzionarie distruttrici. Una cosa è criticare l’Occidente, un’altra è tentare di distruggerlo. Una cosa è Godzilla arrampicato sui grattacieli di New York, un’altra sono gli aerei che sfondano le torri di Manhattan. Soluzioni? Più facile dire cosa non fare. Non rispondere alla sfida del fondamentalismo islamico fomentando il nostro stesso fondamentalismo. Non opporre il Dio cristiano ad Allah. Non cedere alla tentazione del conflitto di civiltà.
Nella prefazione all’ultima edizione del suo libro nel 2003, prima di morire, ma dopo aver assistito allo spaventoso crollo delle torri gemelle nel 2001, Edward Said auspicava l’avvento di un nuovo umanesimo, che dell’umanesimo europeo ereditasse la pazienza filologica, l’interpretazione critica e accurata delle fonti, della storia. Solo un nuovo umanesimo potrebbe sottrarre l’umanità all’autodistruzione. Solo un nuovo umanesimo, che ricominci a cercare un dialogo tra culture distanti, e il rispetto reciproco fondato su una conoscenza intima l’una delle altre, ci può salvare.

camerlin@unipg.it

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