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Il prezzo dell’identità: fra integrazione e misconoscimento

Alberto Pirni


Quale identità?


Gli ambiti problematici legati al tema dell’identità hanno in questi ultimi anni rapidamente salito la scala delle priorità sull’agenda politica delle società contemporanee. Per quanto ad ogni latitudine differenti, le linee di coesione e quelle di conflitto che attraversano e segnano le nostre società sembrano infatti non poter più rinunciare al vocabolario semantico-valoriale sotteso al concetto di “identità” per giungere alla propria esplicitazione, sempre più chiaramente cercata, all’interno della sfera pubblica. È questo un fatto di cui si sta gradualmente diventando consapevoli e che, ben lungi dal rappresentare solo il punto di avvio di discussioni accademiche, sta sempre più informando la riflessione che presiede all’implementazione di concrete decisioni politiche[1].
Provando ad addentrarsi nel plesso tematico ora evocato, ci si imbatte in una distinzione, ovvia nella forma ma forse meritevole di rinnovata attenzione rispetto alle sue conseguenze sul piano politico e sociale. Quando si parla di identità, si intende comunemente riferirsi alla duplice determinazione di identità personale e identità di gruppo. Mentre la prima rimanderebbe ad una dimensione individuale e quindi, esclusivamente, alla sfera intima del singolo, la seconda condurrebbe ad una dimensione di chiaro significato sociale che, per sua stessa natura, andrebbe ad interessare la cosiddetta sfera pubblica. In maniera conseguente a tale distinzione, si è soliti ritenere che solo la seconda determinazione o declinazione dell’identità possieda rilevanza dal punto di vista politico (basti pensare all’insieme di questioni legate all’autodeterminazione e al riconoscimento di minoranze culturali all’interno di uno Stato), mentre la prima si collocherebbe in un ambito di indecidibilità e, quindi, di sostanziale indifferenza politica.
Sarebbe tuttavia decisamente parziale pensare che le acquisizioni che vanno a comporre la risposta alla domanda sull’identità personale possano trovarsi solo all’interno della cosiddetta “sfera privata”: di fatto – e ciò costituisce un’evidenza difficilmente contestabile – esse sono individuate in entrambi gli ambiti. Quella legata all’identità personale non è questione che si distende e si risolve sul piano esclusivamente individuale o, meglio, interiore. Essa si nutre anzi di una serie virtualmente interminabile di riferimenti e rapporti intersoggettivi, che solo con indubbie forzature riusciremmo a racchiudere nella dimensione del privato e che costituiscono altrettanti banchi di prova dai quali ognuno di noi riceve istanze di conferma, ma anche di smentita, rispetto all’immagine di sé che ha più o meno consapevolmente elaborato.
Sotto questo profilo sembra dunque opportuno riconsiderare entrambe le dimensioni della prospettiva identitaria rispetto alla loro rilevanza politica. Se la risposta alla questione dell’identità personale comprende sia la sfera privata sia la sfera pubblica, allora anche quest’ultima dovrà considerarne le modalità e le conseguenze.


Quale prezzo?

Per cercare di esplicitare tale plesso tematico può forse essere utile richiamare una celebre distinzione, quella tra prezzo e dignità, che Kant sviluppa nelle pagine centrali della Fondazione della metafisica dei costumi[2]. Se, dal punto di vista della ragione pratica, ogni cosa esistente ha un “prezzo”, ovvero può essere sostituita da qualcosa di equivalente, solo l’uomo – ed ogni uomo –, in quanto persona (essere capace di moralità), non può essere scambiato con nulla di equivalente – e per questo ha “dignità.
Tuttavia, se la persona, per così dire, non ha prezzo, per l’identità personale sembra esistere qualcosa che si avvicina al concetto di prezzo. Quest’ultimo deve intendersi non tanto nei termini di utilizzabilità o acquisto dell’identità di una persona (ma anche questo versante, stanti i recenti sviluppi tecnologici ed informatici, ha acquisito una complessità problematica notevole), quanto in quelli, non meno rilevanti, di conciliazione di ogni individuo con se stesso e con ogni altro. Per “conciliazione” si intende qui, innanzitutto, una forma di (consapevole) integrazione, coerente e coesa, fra le diverse parti che compongono la risposta alla domanda sull’identità individuale. Ma si tratta anche di una conciliazione che, nel suo farsi, si allarga ad ogni altro soggetto con il quale il singolo entra in contatto, e che sfocia dunque in una più ampia integrazione, intesa come una dimensione di relazionalità stabile, liberamente condotta ma reciprocamente apprezzata.
Il riferimento è qui alla complessa e costitutivamente inesauribile dinamica di auto ed etero-riconoscimento del sé, che impegna e coinvolge ogni singolo uomo in una rete relazionale virtualmente infinita e indistricabile, nella quale ognuno è più o meno coscientemente costretto a mettere in campo una porzione significativa del proprio sé, insieme all’impegno a “negoziare” il proprio riconoscimento di fronte a se stesso e ad altri. In tale dimensione ognuno è consapevole di poter essere “invitato” a rinunciare a quella porzione di sé (per lui) significativa, in favore di un’altra, significativa (innanzitutto) per quegli altri dai quali richiede di essere riconosciuto. Si ha qui a che fare con “porzioni”, ovvero con immagini di sé, che possono essere scambiate – e, di fatto, lo sono regolarmente – con altre, che possono però essere credute equivalenti solo da un punto di vista estrinseco, esterno al sé al quale si riferiscono.
L’elaborazione della risposta alla domanda su “chi sono io?”, che si configura eminentemente nella forma di un racconto identitario (io posso raccontare chi sono), si costituisce sulla base di immagini di sé articolate dal sé medesimo, ma anche più o meno imposte da quella dimensione che potremmo chiamare “dell’altro da sé” e che comprende l’insieme dei contesti, dei tempi e delle persone con le quali il sé viene in contatto. La contemporaneità, attraverso percorsi storico-sociali qui neppure riassumibili, ha incrementato sempre più a chiare tinte la consapevolezza, per l’individuo, di essere inserito in un rapporto di scambio, in una dinamica di dare/avere che costantemente si ripropone e dalla quale, rispetto a quella fondamentale domanda, nessuno può dirsi immune o chiamarsi fuori. Quel rapporto e quella dinamica comportano indubbi costi in termini di auto-presentazione e auto-limitazione; costi finalizzati appunto ad una sempre auspicata – ma non sempre raggiunta – conciliazione ed integrazione del singolo con se stesso ma anche, al tempo stesso, con gli “altri da sé”.
Siamo qui condotti ad un punto cruciale rispetto all’elaborazione del problema identitario. L’identità individuale coincide con la comprensione di sé che il soggetto elabora nel contesto del proprio agire. Si tratta di una comprensione che si struttura in forma narrativa ed in termini eminentemente linguistici, intendendo per linguaggio non solo il medium di interlocuzione ma, soprattutto, il mezzo di trasmissione di contenuti valoriali tra diversi soggetti che agiscono in uno stesso contesto. E’ un linguaggio innanzitutto interiore che, tuttavia, sorge e si incrementa anche dalle e nelle concrete occasioni di dialogo tra parlanti.
Dialogare è centrale per comprendere la realtà che ci circonda ma, innanzitutto, per comprendere noi stessi ed elaborare quel “racconto di sé”, irriducibilmente individuale, che costituisce la nostra identità. Peraltro, la dimensione del dialogo implica che i dialoganti siano riconosciuti in quanto tali ovvero che siano considerati, tutti, con identico rispetto. Emerge in questo contesto la tematica del riconoscimento e la sua decisività rispetto alla dimensione etica e politica del vivere associato. Devo poter essere riconosciuto e potermi (continuare a) riconoscere in questo “dialogo aperto”: l’elemento di novità di questo processo, che la modernità ha imposto e l’epoca contemporanea ha radicalizzato, è che è possibile fallire nella propria lotta per il riconoscimento. Il rifiuto di riconoscimento, ovvero il misconoscimento, che si configura laddove «le persone o la società che circondano l’individuo gli restituiscono, al pari di uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia»[3], resta un rischio patente a tutti i livelli. È questo, per chi lo subisce, innanzitutto un danno morale e psicologico, ma anche, sul piano politico, una forma di oppressione.
Se si torna al tema del prezzo dell’identità, finalizzato, nelle intenzioni del singolo, ad una conciliazione con se stesso e con gli altri, ovvero ad una integrazione del proprio racconto identitario con quello altrui, ci si trova a questo punto proiettati entro una duplice polarità: la totale integrazione da un lato e il totale misconoscimento dall’altro, a partire dalla quale è forse possibile gettare una luce in parte differente sulle forme di interazione sociale e politica che connotano il nostro presente. Si tratta di un’alternativa tra due estremi, virtualmente irraggiungibili, lungo i quali il nostro racconto identitario è chiamato a prendere posizione, animato, da un lato, dal desiderio di una collocazione il più possibile stabile, e consapevole, dall’altro, di essere consegnato ad un compito costitutivamente inesauribile.
Rispetto a entrambe le polarità è possibile ravvisare almeno tre livelli, ovvero tre contesti entro i quali si misura sia l’integrazione sia il misconoscimento: quello familiare, quello che si distende nella comunità d’origine o nel gruppo sociale di più immediato riferimento e, infine, quello legato alla società di appartenenza, intesa in senso complessivo[4]. Com’è ovvio, in ognuno di tali livelli ad una maggiore integrazione corrisponde un minore misconoscimento e viceversa. Tendendo fermo il punto di vista individuale, risulta però interessante notare l’evolversi della situazione al variare della pregnanza con la quale la dimensione culturale e la tradizione valoriale di provenienza entrano a far parte del racconto identitario individuale. Più forti, importanti e chiari saranno i riferimenti e le connotazioni culturali che l’individuo inserisce all’interno del proprio racconto identitario, più intensa sarà l’integrazione al livello familiare e a quello della comunità di riferimento e minore, a quegli stessi livelli, sarà il misconoscimento. Il rapporto tuttavia muta significativamente se ci si riferisce al contesto della società di appartenenza. Dove essa si riconosca, per la stragrande maggioranza dei suoi membri, in quella medesima dimensione culturale, andrà riproponendosi anche a questo livello il risultato appena ravvisato. È peraltro possibile che la società non riconosca nella dimensione culturale rivendicata dal singolo individuo il proprio orizzonte di riferimento, ovvero quello più largamente e comunemente condiviso tra i suoi membri. In questo caso, il rapporto tra integrazione e misconoscimento risulterà semplicemente rovesciato, a svantaggio dell’integrazione. Siamo di fronte a  un caso, anzi a un fatto quotidianamente esperibile nelle società occidentali contemporanee, che risultano sempre più caratterizzate dalla presenza di individui (spesso organizzati in comunità più o meno coese) appartenenti a culture diverse da quella autoctona. L’insistenza, da parte di tali individui, sulle proprie radici culturali se, da un lato, consente loro di sentirsi ed essere integrati all’interno delle proprie famiglie di origine e dei gruppi sociali che si richiamano alle medesime radici, rischia, dall’altro, di sortire una dinamica di misconoscimento o, quantomeno, di patente non integrazione con la maggior parte degli insiemi di relazioni che costituiscono la società in cui si trovano a vivere.
Tuttavia, rispetto alla risposta individuale alla questione identitaria, la dimensione culturale non è un riferimento qualsiasi, del quale possiamo sbarazzarci al pari di un abito che non ci va più di indossare; essa costituisce una dimensione di riferimento primo, un orizzonte di senso da cui risulta pressoché impossibile prendere congedo in forma definitiva, ovvero relativizzare al punto da poter risultare integrati con chi non si riconosce nella nostra cultura e, al tempo stesso, continuare ad essere accettati da chi scorge in quei tentativi di relativizzazione (più o meno impacciati) altrettante forme di tradimento delle proprie origini.
Facile a questo punto immaginare le conseguenze sul piano politico: mentre l’integrazione, intesa fondamentalmente al livello della società nella quale siamo collocati, favorirà la crescita di membri attivi della società, ovvero di individui efficacemente e dinamicamente inseriti in ampie e coese reti di relazionalità, l’avvicinarsi, più o meno indotto, del singolo alla polarità del misconoscimento comporterà l’instaurazione di una serie di atteggiamenti di passività, di chiusura, quand’anche non di contrasto nei confronti della società o, comunque, del livello relazionale dal quale egli risulta o si sente misconosciuto.
Sviluppando le implicazioni connesse a questa presentazione schematica, si rischia così di trovarsi di fronte ad un’insieme di costi sul piano relazionale che risultano spesso troppo alti per poter essere pagati dal singolo e che, peraltro, non possono in alcun modo essere demandati alla società. Ci si trova, insomma, in mezzo ad un guado che appare impossibile percorrere completamente in un senso o in un altro.


Esiste un’alternativa all’alternativa?

Si è in questo modo condotti ad un’alternativa dalla quale non pare agevole districarsi, né sul piano teorico né, tanto meno, su quello della concreta prassi politico-sociale. Quella appena presentata costituisce insomma una delle molteplici figure nelle quali si presenta, oggi, la sfida della condivisione di uno stesso spazio e di uno stesso tempo da parte più individui dotati di particolarità culturali pressoché irriducibili. Rispetto ad essa, è opportuno non tanto provare a trovare una via d’uscita o una risposta che, più o meno forzatamente, si presumerebbe riproponibile in ogni contesto, quanto, piuttosto, cercare di offrire la prospettazione di una direzione che appaia, per lo meno, non da subito votata allo scacco. Si tratta, in altri termini, di abbozzare un inizio di riflessione che consenta di trasformare quel deciso aut aut in un almeno parziale et et.
Per avviarsi lungo questo cammino non deve innanzitutto essere trascurato il contributo che può provenire dal singolo individuo, in termini di recupero di una più chiara e profonda consapevolezza di sé, volta a ricostruire e a comprendere le dinamiche di auto-presentazione ed auto-limitazione di cui ognuno è stato testimone e, insieme, attore. Si tratta, in altri termini, di incentivare l’impegno a ricostruire gli sviluppi che presiedono all’articolazione della risposta alla domanda sull’identità individuale. È questo un compito costitutivamente demandato al singolo e che, peraltro, non è detto conduca a risultati analoghi a quelli che si è ora cercato di proporre: non solo il contenuto della risposta, ma anche le modalità di posizione della domanda sull’identità restano qualcosa di irriducibilmente individuale.
In tale compito si racchiude l’occasione di una rinnovata comprensione della propria particolarità, irriducibile a quella altrui, ma, proprio per questo, anche della comprensione dell’esistenza di tante particolarità quanti sono gli altri con i quali siamo in una qualche forma di rapporto. La finalità complessiva di tale esercizio non è però costituita dalla radicalizzazione del particolarismo o di un assoluto relativismo identitario, bensì dal tentativo di innescare un lento ma costante riposizionamento dell’individuo lungo la direzione che conduce ad una ipotetica piena integrazione sociale.
Per fare ciò risulta forse non inutile cercare di delineare una sorta di (apparentemente paradossale) dis-integrazione dell’identità personale, provando a relativizzare l’importanza della porzione di risposta riconducibile alla cultura di origine del singolo individuo, a partire da una riconsiderazione dello stesso concetto di cultura. È infatti necessario abituarsi a comprendere la cultura non alla stregua di un monolite, un insieme statico di norme e modelli comportamentali che non possiamo rifiutarci di introiettare. Appare invece più produttivo inquadrarla per quello che, in realtà, è: un insieme decisamente mobile e costantemente rinnovantesi di significati valoriali, «un processo dialogico di costruzione di senso con gli altri e attraverso gli altri»[5], ovvero un qualcosa che viene costantemente messo in gioco, infinitamente smontato e rimontato dai molteplici attori sociali (individuali e collettivi) che ad essa, più o meno consapevolmente, si riferiscono.
Sotto questo profilo, diviene allora necessario tornare a riflettere sulla dialogicità della costruzione identitaria e sul circuito di reciproco riconoscimento tra interlocutori che la sottende, al fine di innescare una rinnovata posizione del problema. Quest’ultima si sviluppa intorno all’impegno di articolare una fenomenologia della condivisione, volta a comprendere come condividere ma, al tempo stesso, cosa condividere tra ciò che ci viene proposto/imposto dalla società o dalle persone che ci circondano. Sarà questa una fenomenologia in grado di rilevare cosa possiamo o dobbiamo e cosa non possiamo e non dobbiamo accettare ai fini dell’integrazione, ovvero quali prezzi possono/debbono essere pagati e quali no. Come ormai possiamo attenderci, tenendo fermo il rispetto che ognuno deve innanzitutto a se stesso, anche in questo caso le risposte in termini contenutistici saranno demandate al singolo e dipendenti dal contesto in cui egli si trova ad agire[6].
È questo un processo che delinea un’apertura, la quale, in forma quasi paradossale, si distende in due direzioni: verso noi stessi – ovvero verso ciò che siamo e siamo diventati – e verso tutto ciò che intuitivamente rubrichiamo come “altro da noi”, in termini morali, sociali, culturali, ecc. Tale duplice apertura si trova così a descrivere un circolo ermeneutico, una dinamica virtuosa che non dimentica la precedente proporzionalità tra costi e benefici sul piano dell’integrazione, ma la indirizza nella direzione di un superamento o, quantomeno, di una riduzione tendenziale delle sue imbarazzanti alternative e dei suoi esiti socialmente distorti e politicamente nefasti. Se si avrà il coraggio di percorrerla sino in fondo, è forse questa una direzione nella quale, ad un più profondo ascolto e rispetto che ognuno rivolge a se stesso, potrà corrispondere un più profondo ascolto e rispetto dell’altro.

pirni@nous.unige.it


[1] Sul tema rimando a B. HENRY – A. PIRNI, La via identitaria al multiculturalismo. Charles Taylor e oltre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

[2] I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 103.

[3] C. TAYLOR, La politica del riconoscimento, in J. HABERMAS – C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 20056, p. 9.

[4] Si fa qui riferimento ad un modello necessariamente idealtipico e volutamente semplificato, che parte da un’idea di società intesa come un insieme di sistemi di relazioni temporalmente stabili e spazialmente riconducibili alla dimensione statuale, senza analizzare le trasformazioni subite da ognuno dei tre luoghi individuati come ospitanti altrettanti livelli di integrazione e misconoscimento. Il focus problematico ricade infatti sulla differenza di contesti entro i quali si struttura la risposta alla domanda sull’identità e non tanto sull’articolazione specifica di essi.

[5] G. BAUMANN, L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, il Mulino, Bologna 2003, p. 123.

[6] Ho provato ad articolare l’abbozzo di tale fenomenologia nel paper «Dire comunità, oggi?» (Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme, 12-14 ottobre 2005, di prossima pubblicazione).

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