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L’immagine del nemico nel cinema americano
dopo l’11 settembre

Intervista a Edoardo Bruno e Daniele Dottorini
a cura di Andrea Fioravanti


Il cinema può rappresentare un ottimo fattore di documentazione storica, sia per quanto riguarda l’impronta che ogni film porta della propria epoca, sia per l’importanza che la settima arte ha avuto in funzione propagandistica o come elemento attivo dei processi storici. Spesso il rapporto tra cinema e storia lascia intravedere una vera collusione, un accordo tra il potere politico e l’industria cinematografica; in particolare, per ciò che riguarda l’America, tra le autorità di Washington e Hollywood. Così, mentre non è ancora stata fatta chiarezza sugli attentati dell’11 settembre (in particolare su quello al Pentagono, ma anche sulla ricostruzione degli altri esistono punti oscuri), due guerre sono già state mosse in risposta a questi (e probabilmente non saranno le ultime) e il genere terroristico-catastrofico ne ha ricavato nuova linfa. L’attacco sferrato da un nemico invisibile ha provocato, come era ampiamente prevedibile, una pronta risposta militare da parte dell’“impero” ferito e, intimamente connessa, la pronta risposta da parte di Hollywood. I film che seguono all’11 settembre 2001, hanno l’effetto di mobilizzare, di allarmare, far credere e convincere del pericolo reale. Così l'insieme delle produzioni ha legittimato inconsciamente una guerra futura. Ha veicolato una visione manichea dei rapporti internazionali, ignorando la complessità geopolitica. Tale visione filmica del mondo oppone i Buoni e i Perfidi. Sembra provare che la «crociata del Bene contro il Male», «contro il terrorismo» (G.W. Bush), é largamente trasponibile in fiction. Non si può dubitare dell'influenza del cinema sull'opinione pubblica. Il cinema é sempre più visto come lo specchio della società (soprattutto della società americana): la riflette, la mette in scena, ne dà una rappresentazione. Ma la Settima Arte è anche una spugna: s'impregna di questa società ed è infine il prodotto delle rappresentazioni sociali statunitensi.

Tutto ciò ormai è un assunto, è già stato metabolizzato e riprodotto, ed è sulle conseguenze della mobilitazione dell’industria cinematografica Hollywoodiana dopo l’11 settembre e sull’immagine del nemico che essa ha prodotto, che abbiamo proposto una discussione al critico cinematografico Edoardo Bruno, coadiuvato nella conversazione da Daniele Dottorini, anch’egli critico cinematografico e docente di cinema. Ma la discussione ha riguardato anche altri aspetti del cinema americano, come la nostalgia dell’immagine delle due torri, il lutto della skyline newyorkese che era radicato nell’intimo di ognuno di noi, sedimentata nell’immaginario collettivo; l’umana-disumanità del nemico; infine il discorso del cinema come pratica di pensiero proposta da alcuni autori in opposizione alla produzione industriale hollywoodiana. Edoardo Bruno ci accoglie nella sede storica di Filmcritica dove, tra tanti volumi sul cinema, campeggia una foto di Roberto Rossellini; decano dei critici cinematografici, direttore di Filmcritica (rivista fondata da Umberto Barbaro, Roberto Rossellini e Galvano della Volpe), Bruno è autore tra gli altri di diversi volumi sul cinema, in particolare di teoriche dello sguardo[1].

Andrea Fioravanti: Parlare del cinema americano dopo l’11 settembre equivale ad individuare un prima e un dopo l’attacco terroristico alle due torri, cioè un momento di rottura all’interno della produzione cinematografica statunitense? E quale impatto ha eventualmente prodotto sulla filmografia americana tale evento?

Edoardo Bruno: Da un certo punto di vista l’11 settembre, che tutti reclamano come punto di rottura tra un mondo ed un altro, segna l’inizio del nuovo secolo. Si deve prendere atto che l’11 settembre è stato un’indicazione precisa della vulnerabilità di quello che si chiama il grande “impero”, un segno di vulnerabilità che ha creato un grosso problema negli Stati Uniti: una nuova presa di coscienza. Gli Stati Uniti non hanno mai subito degli attacchi diretti, tranne durante la Seconda Guerra Mondiale il famoso attacco di Pearl Harbor (che comunque era localizzato in un porto ed è servito, probabilmente, secondo alcune interpretazioni storiche, a smuovere le acque, a rimuovere una certa ritrosia o per lo meno una certa incertezza del mondo americano nei confronti della guerra). Nel caso dell’attacco alle torri di New York, da una parte ancora si discute sul terzo aereo che si è schiantato contro il Pentagono per ricostruire in modo abbastanza veridico i fatti, dall’altra si sono diffuse diverse interpretazioni dell’evento, tra cui una corrente di pensiero, che trova in Gore Vidal il suo esponente principale, secondo la quale si tratterebbe di qualcosa, non dico assolutamente di voluto, ma di una sorta di alibi che si andava ricercando per poter meglio cavalcare un certo allarmismo e diffondere una presa di coscienza guerrafondaia che ancora sembrava debole. Su questi stati d’animo di sdegno si è sviluppato tutto un movimento di pensiero che, oltre ad influenzare la situazione politica e a generare una situazione di guerra permanente – decisa come teoria e applicata come pratica attraverso prove provate nella loro falsità –, ha dato una mano forte all’“impero” che si è scoperto vulnerato, ottenendo la mobilitazione civile. Per ciò che concerne il campo dell’arte, in particolare nel cinema, il discorso è più semplice e più complesso al tempo stesso, nel senso che è difficile stabilire un prima ed un dopo l’11 settembre. Partiamo dalle Twin Towers: nel cinema americano l’immagine delle due torri è sempre stato presente; dopo di che è sparita. Ma il discorso diventa complesso se si pensa ad autori importanti come Scorsese, e al suo film Gangs of New York (2002) o a Spike Lee con il suo La 25a Ora (2003); in entrambi, anche se in maniera diversa, vi è l’ingresso poetico di un discorso nostalgico.
Partiamo dal secondo: La 25a Ora è un film che si presenta forse come il più amaro e difficile di Spike Lee, e che, nonostante il taglio profondamente introspettivo, propone l’immagine, dalla finestra di un edificio su Ground Zero, del buco nero, che diventa riflessione amara e furiosa al tempo stesso: vi è un baratro a pochi passi dal protagonista, una gigantesca ferita, che non guarisce, non si rimargina.
Nel film Gangs of New York Scorsese ci ricorda la ciclicità della storia, mostrandoci gang che si uccidono in duelli per spartirsi le fette del sogno americano e dare corpo alla nascita violenta di una nazione. Nella sequenza finale, nonostante Scorsese ci narri per tutto il film come una nazione nasca dalle viscere di quartieri violenti e da lutti insanguinati, emblematicamente si scorge il profilo di Manhattan con le due torri ancora in piedi. Nel montaggio avrebbe potuto anche evitare di mettere questa immagine, ma lui l’ha voluta inserire, come se l’11 settembre fosse una memoria ancora da venire, come segno di premonizione, e allo stesso tempo di nostalgia. Un’oscillazione lirica tra passato e presente.
Tra gli altri film c’è 11' 09” 01 – September (2002). Undici cortometraggi di altrettanti registi lunghi ognuno undici minuti, nove secondi e un fotogramma , per ricordare gli eventi tragici dell'11 settembre 2001, tra i quali spicca l’episodio di Sean Penn. Si tratta dell’episodio più blasfemo perché, attraverso l’ironia, elimina la retorica e offre invece un momento di grande poesia e tenerezza. Un uomo semplice vedrà coronato il suo sogno, proprio grazie al crollo delle Torri che porterà di nuovo il sole nella sua casetta. Tutto ciò, ovviamente, non vuol dire che il popolo di Manhattan o di New York sia contento del crollo delle due torri, tutt’altro; si tratta di una scelta dissacrante del regista, che rilancia, attraverso l’atteggiamento pragmatico tipico della filosofia americana, l’idea che proprio dal crollo di ciò che simboleggia l’“impero”, possano crescere nuove “piante”. Per cui questo dolore post-11 settembre, questa depressione molto rarefatta che trasforma New York in una metropoli disperata ed agonizzante, serve ad indicare una situazione poetica di elaborazione del lutto. Anche perché il discorso dell’arte – e noi quando parliamo di cinema parliamo di arte – essendo qualcosa che si sedimenta, non si manifesta nel giro di quattro, cinque o sei anni; si deve parlare di atmosfera inquieta indistinguibile.
C’è certamente più spregiudicatezza; anche nello stesso Steven Spielberg di Munich (2006), che pure racconta una storia accaduta anni prima, traspare una nostalgia delle due Torri, che appaiono alla fine. Era importante per l’Autore testimoniare in coda un senso di vuoto e di nostalgia. Inoltre, l’aver riletto la tragedia di Monaco attraverso la chiave della vendetta è un mettere a fuoco il senso del tragico della guerra.
Spielberg è sempre stato il regista della Shoah, dell’ebraismo americano, della presa d’atto di una condizione di diversità, ed invece qui sembra in qualche modo rovesciare la sua posizione e dire che la guerra, soprattutto dopo anni, diventa vendetta, diventa rappresaglia che non ha più senso. E siccome proprio sull’«occhio per occhio» si basa la legge ebraica, l’atto cinematografico di Spielberg acquista ancor di più valore di testimonianza. Ed è per questo che molti ebrei americani hanno fatto grande fatica, una certa dolorosa fatica, ad accettare questo discorso, o addirittura hanno rifiutato questa presa di posizione. Una posizione che indubbiamente lavora nel pensiero, nella coscienza nella filosofia.

Andrea Fioravanti: quest’ultima considerazione sul film di Spielberg, direi, è centrale nella discussione che stiamo portando avanti, non solo per ciò che concerne la cinematografia, ma tanto da coinvolgere la filosofia. Mentre lei parlava di Munich mi è venuta in mente la riflessione di Hannah Arendt sulla «banalità del male». Mi spiego: dopo l’11 settembre sembrava, anche nel cinema, che si fosse identificato il nemico attraverso un’immagine luciferina, satanica, con il male assoluto. Hannah Arendt nel famoso Eichmann a Gerusalemme scatenò una polemica molto aspra con il popolo ebraico. Il cuore dello scandalo era racchiuso nel concetto di «banalità del male», che oggi a noi pare un cliché depotenziato dall’abuso, ma che invece lo stesso Spielberg torna a far valere. Per Hannah Arendt, Eichmann, durante il processo – e sebbene l’accusa si prodighi nel dimostrare la sua perfidia satanica – si dimostra un nemico non all’altezza, perché è semplicemente un vecchio. Non è il male assoluto. Forse Spielberg in questo film torna su quelle posizioni, il male non è mai assoluto, è banale, e, di conseguenza, anche la rappresaglia non diventa nient’altro che vendetta.

Edoardo Bruno: sicuramente… anche Spielberg dimostra che il male è banale.

Daniele Dottorini: riguardo a quello che diceva prima Edoardo, il senso di fragilità, di vulnerabilità dell’“impero” è qualcosa che in alcuni autori effettivamente è trasversale all’11 settembre. In fondo tutti i film che noi abbiamo amato sono film politici, dove l’aggettivo è inteso in un senso più profondo e forte, non nel senso di film che trattano di politica. Penso alla raffinatezza di Jonathan  Demme, che da Philadelphia (1993) arriva a The Manchurian Candidate (2004) o il grande Clint Eastwood che da Potere assoluto (1997) arriva fino a Mystic River (2003) e Million dollar Baby (2004) o a Terrence Malick che da La Sottile Linea Rossa (1998) arriva a The New World (2005). Bene, ciò che viene messo in discussione in questi autori, trasversalmente all’evento apocalittico dell’11 settembre, è l’idea di fondazione forte, l’idea di una struttura, l’idea di una sicurezza, di una certezza…

Edoardo Bruno: …l’idea di “impero”!

Daniele Dottorini: …Esatto! L’idea di “impero” ...vivere, cioè, sotto un impero che può essere violento, può essere prevaricatore, però è comunque qualcosa di forte, una struttura forte. Si ha come l’impressione che, secondo gli sguardi più sensibili che abbiamo citato, in realtà tutto questa forza ha delle fondamenta molto fragili e soprattutto piene di sangue. E l’11 settembre non ha fatto altro che confermare questa loro poetica, che comunque era nata già prima di questo evento.

Edoardo Bruno: …se ne sentiva già l’afflato. Il cinema di questi autori è stato in un certo senso una conferma; e non vorrei usare parole che possono suonare come violente, o prestarsi ad ambiguità, ma in un certo senso è stata una conferma di come l’epoca della costruzione di un “impero” che si basa sull’intoccabilità, che si costruisce sull’invulnerabilità, sia finita. Questa poetica ora non riguarda tanto il pensiero di questi autori, che già la individuavano, ma riguarda il pensiero e l’immaginario della gente comune. È un orizzonte nuovo quello che si affaccia allo sguardo dei cittadini americani. E i frutti di questa situazione, che ancora non sono stati analizzati come dovrebbero perché è passato troppo poco tempo, saranno importanti soprattutto per le generazioni del futuro. L’americano era un abitante del mondo diverso, era una sorta di cittadino di serie A. Oggi questo sentire comune sta cambiando. Se tra gli intellettuali, e tra questi anche i registi, questa fine dell’intoccabilità era già stata preconizzata, ora anche per il cittadino comune sta avvenendo una metamorfosi di pensiero.

Andrea Fioravanti: giustamente tu hai richiamato l’attenzione al cittadino comune americano e in un certo senso questo lo si può fare anche con il cinema comune o di cassetta. Dopo l’11 settembre 2001, più di un terzo dei film arrivati alla vetta del box-office americano sono stati film di guerra. L’attacco sferrato ha provocato una pronta risposta da parte di Hollywood e di tutta l’industria cinematografica. Dalla sua nascita, infatti, Hollywood è stata sempre (e non pretendo certo di scoprirlo io) una delle più efficaci armi propagandistiche al servizio della politica statunitense, seguendo di pari passo e contribuendo attivamente all’affermazione e all’imposizione dell’egemonia durante le varie fasi storiche. Ed ora vorrei spostare la riflessione proprio sull’immagine del nemico che questo tipo di cinema industriale offre dopo l’11 settembre. Negli anni Trenta, dopo la crisi economica, la supremazia da difendere e legittimare era anzitutto quella di un paese che doveva rialzare la testa dopo la grande depressione, e il nemico da sottomettere anche culturalmente era prima di tutto interno: attraverso il Western, gli indiani d’America. Successivamente, durante la Guerra Fredda, la supremazia statunitense era ormai ampiamente consolidata, ma si esercitava solo su una parte di mondo, avendo un antagonista altrettanto (o quasi) potente: il blocco comunista. Anche qui il nemico era ben individuato, ma stavolta era esterno. È  certo che i due generi che negli Stati Uniti hanno ospitato più frequentemente l’immagine del nemico sono in primo luogo la fantascienza (uno degli aspetti più intriganti del fantastico, ovvero la figura dell’alieno, prodotto culturale tipico del dopoguerra statunitense, offre spunti numerosissimi); in secondo luogo, l’altro genere che più di frequente ha ospitato tra le sue immagini-movimento la rappresentazione del nemico è il film di guerra, nel quale l’immagine del nemico segue, tutto sommato, ciò che l’opinione pubblica pensa. Negli ultimi anni, invece, e soprattutto dopo l’11 settembre, la situazione è notevolmente cambiata. Gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare un nemico inedito, almeno nelle dimensioni attuali (il terrorismo non è certo nato l’11 settembre), la cui qualità più importante è anche quella più pericolosa: l’invisibilità.

Edoardo Bruno: certo, è verissimo, c’è sempre stata negli americani una sensibilità verso l’“invisibile”, verso il nemico “estraneo”. Oggi come ieri. Ma questo dar forma ideologica ad un potenziale nemico per il cittadino americano può essere riletto in chiave diversa: quando si parla di nemici, oggi la violenza di questi non è disumana, come nell’alieno o parimenti nel nazista, sia nei film del terrore che nei film di guerra. Una cosa che colpisce oggi l’immaginario comune del cittadino americano è l’umanità del nemico, il suo essere simili a noi. La violenza non proviene dagli UFO ma da uomini. D’altro canto, se ci si pensa, il tipo di attacco che ha subito New York ha rivelato una capacità di guida degli aerei a bassa quota non extraterrestre, ma tutta umana, terrestre. Le difficoltà tecniche per colpire in quel modo le Torri non permettono di trasferire all’inumano, o al tecnologicamente alieno, l’immagine del nemico presente in film come Guerre stellari o L’invasione degli ultracorpi. Queste cose determinano una nuova presa d’atto nel tessuto sociale e si conferma perciò che l’immagine del nemico, nel cinema americano, è strettamente correlata ai momenti storici (sociali e culturali) in cui ogni filone o singolo film prende vita, e declinata dai singoli registi in stretto contatto con la temperie narrativa e figurativa del periodo previsto.

Daniele Dottorini: anche perché, si diceva, ciò che cambia profondamente è l’idea di nemico. Se una volta, fin dalla poetica dei tragici greci, colui che era estraneo, il nemico, era identificato con il “Barbaro”, inevitabilmente inferiore, improvvisamente ci si è resi conto che, anche se abbiamo costruito l’immagine del nemico come barbaro, quest’ultimo non è affatto tale, ma anzi attacca con mezzi addirittura appartenenti all’“impero”. Ed allora il discorso si dovrebbe posare non tanto sulla modificazione del cinema, quanto piuttosto sulla modificazione dello sguardo di chi va al cinema. E questo inteso anche come pratica critica di tutti noi che ci occupiamo di cinema. Si deve ripensare fortemente anche il ruolo del nostro sguardo come attività filosofico-politica, non puramente estetico-critica.

Edoardo Bruno: certo, infatti noi da tempo sosteniamo l’idea di un cinema come filosofia, come nuovo modo di guardare le cose, piuttosto che un’analisi sociologica del cinema. Il cinema è sempre stato un nuovo modo di guardare la realtà; un nuovo modo di guardare la realtà in una situazione volta a volta politicamente diversa.

Andrea Fioravanti: L’ultima provocazione di questa discussione può riguardare ciò che ci riserva il cinema d’ora in avanti. A quale tipo di poetica cinematografica si va incontro con i registi  citati in precedenza e cosa ci si deve aspettare dall’industria cinematografica americana, dal cinema mainstream di Hollywood…

Daniele Dottorini: in fondo non dobbiamo aspettarci altro se non ciò che effettivamente c’è stato in ogni momento politicamente critico e delicato come quello che stiamo vivendo. Cioè una spinta verso una produzione di immagini che mascherano, e una spinta verso immagini che rivelano, anche in anticipo. Se immaginiamo il cinema industria, come pratica soggetta al capitale, e dunque non tanto libero, allora si va verso un tentativo di mistificazione; di fronte alla vulnerabilità, di fronte alla fragilità, si tenta di creare immagini sostitutive. Immagini che in qualche modo possano ridare fiducia e serenità al popolo ferito.

Andrea Fioravanti: Questi film bellici americani dell’ultima ondata rivelano una disperata necessità di affermare le proprie ragioni. Non esponendole però, ma imponendole. La ragione della forza. La ragione di un’egemonia mondiale conquistata si spiega con gli stessi mezzi del cinema: la forza di imporre. Chi ha il potere di produrre immagini ha anche il potere di produrre eventi…

Daniele Dottorini: …certo, ma questo è anche il cinema che interessa meno, perché più che rivelare la disperata necessità di affermare qualcosa rivela disperazione e basta. Un’ansia molto poco nascosta. L’istant-movie è come l’istant-book che esce immediatamente dopo qualcosa ed è già destinato a non essere niente; come i quotidiani superati il giorno dopo. Può essere interessante solo per un’analisi sociologica, non certo artistica. Oggi ciò che ci viene in soccorso sono i film che ci fanno pensare.

Edoardo Bruno: per concludere direi che l’idea del cinema come pensiero va sedimentata, elaborata, costruita con un lavoro che chiaramente può e deve derivare anche dall’industria cinematografica.


[1] Cfr. Film altro reale, Il formichiere, Milano 1978; Film come esperienza, Bulzoni, Roma 1986; Il pensiero che muove, Bulzoni, Roma 1998; Del gusto. Percorsi per una estetica del film, Bulzoni Roma 2001.

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