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La comunicazione politica nelle democrazie post-elettorali
L’esperienza italiana dopo la fine della Prima Repubblica

Francesco Amoretti

1. Premessa

In Italia c’è un regime oppure no? Il Cavaliere è come Perón o come Mussolini? Domande, queste, non nuove. Domande che hanno segnato l’intera vicenda politica italiana fin dall’affermazione, nel 1994, del partito di Forza Italia e del suo leader. Quanto accadde in Italia nel marzo del '94 peraltro contribuì non poco a rafforzare preoccupazioni diffuse in tutti i paesi democratici. Anzi, l'esperienza italiana divenne rapidamente un monito per tutto l'Occidente a non percorrere una strada che azzerava l'esperienza politica fino ad allora accumulata.
Semplici forzature di apocalittici impenitenti? Sembrerebbe proprio di sì. Degno di nota è il fatto che dopo la caduta del (primo) governo Berlusconi, sembrò che un pacchetto di norme più restrittive bastasse a ridimensionare la minaccia della videocrazia e a far rientrare l'emergenza mediale.
Questa rapida riconversione mise in luce le difficoltà teoriche di fronte all'emergere di modalità inedite di organizzazione ed espressione del consenso e dell'agire politici. Una difficoltà che si manifesta, ancora oggi, nelle prese di posizione più accreditate, molto distanti l’una dall’altra, ma speculari l’una dell’altra.
La prima, appena richiamata, guarda a Berlusconi e alla sua azione politica come ad un pericolo per la democrazia. Si tratterebbe di un leader che per le risorse – mediatiche e finanziarie – che è in grado di impiegare nella lotta per il potere e per la gestione degli affari di governo di fatto spazza via in un sol colpo i principi fondamentali delle liberal-democrazie[1]. Con un esito certo sul piano della natura del regime politico instaurato: di tipo carismatico-plebiscitario, populista e con inclinazioni autoritarie.
La seconda, invece, considera la democrazia italiana al riparo da involuzioni autoritarie. Gli anticorpi sviluppati sarebbero robusti e saldamente radicati nel corpo sociale. E se qualche malessere si avverte, niente paura: si tratta di scosse di assestamento di un sistema politico-istituzionale che, dopo la crisi della Prima Repubblica, è ancora alla ricerca di un’identità.
Il quadro si complica ancora di più se poi si mette a confronto la democrazia italiana con le altre democrazie, consensuali o maggioritarie che siano. Emerge, infatti, una realtà tutt’altro che anomala. In particolare, se si guarda ai rapporti tra media e politica, la transizione al nuovo millennio vedrebbe, da un lato, un’inedita confluenza di cambiamenti che spingono le società verso assetti di potere dominati dagli interessi delle grandi corporations transnazionali[2]; e, dall’altro, un’assoluta centralità delle logiche mediali nella sfera politica e istituzionale, l’affermazione della cosiddetta “politica pop”, cioè della popolarizzazione dell’informazione e della comunicazione[3].
Personalmente ritengo che queste chiavi di lettura ci pongono di fronte ad alternative troppo nette. Con Berlusconi al governo non assistiamo alla fine della democrazia. Ma il successo di Berlusconi non si può nemmeno considerare privo di un significato politico più generale. Un successo che, messo a segno grazie ad una strategia di marketing elettorale, ha dato luogo ad un avvicendamento alla guida del paese di cui non si può valutare la portata solo con il metro di giudizio della sua più o meno corrispondenza alle logiche del bipolarismo e del rendimento istituzionale.
Se così stanno le cose, abbiamo bisogno di una chiave interpretativa che permetta di comprendere la specificità dell’esperienza italiana all’interno di processi di trasformazione delle democrazie occidentali, con particolare riferimento ai rapporti tra sistema politico e sistema mediale. Per individuare, per così dire, la natura e la direzione del mutamento propongo il seguente paradosso: proprio quando tutta la comunicazione politica si riduce a comunicazione elettorale, le elezioni – in quanto meccanismo istituzionale caratterizzante il funzionamento dei regimi democratici rappresentativi – non contano più come prima. Per essere più chiari: proprio quando le campagne elettorali hanno cominciato a contare più di prima nelle decisioni di voto, il circuito elettorale non garantisce più una base di legittimazione e di consenso all’edificio costituzionale delle democrazie rappresentative. Fare luce su questo paradosso aiuta a spiegare molte delle dinamiche – e dei fenomeni – che hanno preso corpo negli ultimi due decenni, caratterizzando la natura e il funzionamento delle democrazie, soprattutto sul versante dei rapporti tra politica e media.
In discussione non sono i confini tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, ma le fondamenta della democrazia dei partiti o democrazia elettorale; ovvero, di quella forma di democrazia che, sulle due sponde dell'Oceano, si è sviluppata grazie al “trionfo” di partiti forti «con programmi chiaramente distinguibili e appartenenza integrata [...], (formatisi) [...] in periodi di trasformazioni sociali intense [...] quando nuove categorie d'interesse (premevano) per venire rappresentate nel sistema politico [...]; per coordinare l'accesso delle nuove masse nel sistema politico, e così controllarlo»[4].
Il superamento della distinzione tra società e stato – tra cittadini e istituzioni – è dunque il vero tratto distintivo della democrazia dei partiti: al cui declino corrisponde lo svuotamento delle istituzioni rappresentative – o una loro radicale ridefinizione – e una spinta verso la frammentazione del processo politico e di governo. Questo non vuol dire che i partiti politici siano scomparsi o siano destinati a scomparire nell’immediato futuro. Quella che si è chiusa è la stagione dei partiti di massa che assicuravano il carattere monistico del processo grazie soprattutto alla loro capacità di definire scelte di indirizzo espressione di valori e principi fondativi del sistema politico[5].
La rottura di questi assetti apre all’avvento di una politica post-elettorale, di una politica cioè che è conseguenza, e al tempo stesso espressione, del declino del circuito partiti-elezioni-parlamento[6]. Cioè di quel circuito istituzionale e simbolico-culturale in cui il legame rappresentativo basato su procedure di legittimazione politico-elettorali incentrate sui partiti di massa ha mostrato una straordinaria, e ineguagliata, efficacia nell’orientare e controllare la domanda politica.
Per meglio evidenziare i punti di rottura rispetto al passato, e anche per meglio far emergere il profilo e i contenuti della nuova fase, può essere utile ricordare cosa fosse la comunicazione politica durante la Prima Repubblica.

2. Quando i partiti comunicavano: gli anni della Prima Repubblica

I partiti di massa furono i principali protagonisti del processo di costruzione e consolidamento della democrazia. Fin dall'immediato dopoguerra dovettero affrontare il problema della pubblicizzazione delle proprie scelte secondo modelli che non furono solo quelli della informazione, ma soprattutto quelli della educazione. La stampa fu in quegli anni la principale risorsa che i partiti utilizzarono per riprendere il contatto pieno con l'opinione pubblica e per guadagnare la leadership dell'elettorato. La preminenza dei partiti nella vita politica nazionale «relega la stampa a produrre un discorso pubblico che non riesce ad assumere propria autonomia», e conduce all’affermazione di una «visione militante dell’informazione»[7]. Che gli organi di informazione non costituissero, nella stragrande maggioranza dei casi, un quarto potere indipendente dai partiti emerge in maniera significativa dall'analisi del coverage del dibattito e delle scelte costituzionali dell'immediato dopoguerra. Su questo tema che, almeno in linea di principio, avrebbe potuto vedere la stampa attivare un processo di tematizzazione autonomo, o quantomeno più attento a valorizzare i momenti unitari e di accordo raggiunti alla Costituente, si afferma la tendenza ad impegnarsi nella illustrazione delle posizioni specifiche di ogni partito e dei contrasti con quelle altrui. La stampa porta cioè alla ribalta la persistenza di precisi disegni contrapposti in materia di ordinamento della Repubblica.
Questa contrapposizione si fa ovviamente più acuta in campagna elettorale. In quella del 18 aprile del '48, ma anche in quelle seguenti degli anni ’50, la competizione elettorale si trasformò in uno scontro tra due civiltà, tra due mondi incomunicabili e in conflitto permanente. La straordinaria mobilitazione politica di quegli anni fu resa possibile anche dalla presenza di una rete di organizzazioni “collaterali” al partito che si trasformavano in macchine elettorali con una straordinaria capacità di propaganda e di controllo delle dinamiche comunicative.
«Io ho due armi politiche, la tv e la tv. La tv, perché la so usare; e la tv, perché i miei avversari non la sanno usare». Queste parole del generale Charles De Gaulle furono pronunciate nello stesso lasso di tempo in cui nel nostro paese il piccolo schermo offriva per la prima volta al popolo italiano le immagini e le voci dei leader di partito impegnati nel confronto elettorale. Era il novembre del 1960 e lo spazio televisivo destinato alle campagne elettorali (Tribune elettorali) o alla politica nel suo complesso (Tribune politiche) non comportò alcun cambiamento di strategia e di dinamiche comunicative. Se De Gaulle costruì la propria vittoria politica e la V° Repubblica anche grazie all'uso spregiudicato del mezzo televisivo, in Italia tutti i partiti ridussero il nuovo spazio disponibile alle «regole e alle modalità di funzionamento delle forme comunicative fino ad allora adottate»[8].
La televisione venne vista come un'opportunità per rivolgersi ad un pubblico più vasto di quello che riempiva allora le piazze. Dunque, come una risorsa in più nella competizione politico-elettorale. Una risorsa che, tuttavia, non scalfiva assolutamente la centralità accordata alle strutture di partito e alle organizzazioni collaterali nella produzione e diffusione della propaganda politica ed ideologica, nell'organizzazione del processo elettorale e nella conduzione delle campagne.
Certo, non bisogna dimenticare che l'esperienza televisiva fu particolarmente significativa in Italia. Anzi, nel nostro paese, più che in altre democrazie occidentali: ma non, in questa prima fase, in campo politico. Nel circuito comunicativo, la politica conservava, infatti, ancora una supremazia: di attori, di strumenti, di contenuto dei messaggi e di codici linguistici. Con un apparente paradosso: che questa supremazia si rifletteva nella circostanza che la radio e la televisione pubbliche davano alla politica uno spazio limitato, ridotto a un genere[9].
Le condizioni per la dilatazione della presenza della politica nella sfera pubblica mediatizzata non si sarebbero date fino a che essa avesse conservata intatta la propria centralità nelle rappresentazioni sociali e la propria capacità di controllo dei meccanismi di identificazione e mobilitazione individuale e collettiva.
Le motivazioni che erano all'origine della nascita dei programmi elettorali del resto esprimevano coerentemente la convinzione che il ruolo del servizio pubblico dovesse essere quello di garantire ai cittadini-elettori la conoscenza più ampia e più diretta delle alternative tra le quali avrebbero dovuto scegliere. Concependo questo media come un semplice canale attraverso cui tutti i leader politici comunicano ai telespettatori i loro programmi elettorali, si afferma il carattere di servizio della televisione pubblica e il suo ruolo per una più piena realizzazione della vita democratica del paese. Questo modello culturale e ideologico sopravviverà alle condizioni che lo produssero e gli diedero senso, alimentando un disinteresse a rivedere le formule in uso.
Le ricerche effettuate sugli appuntamenti elettorali dal 1983 al 1992 hanno certo messo in luce che in Italia erano state introdotte modificazioni non irrilevanti nelle dinamiche di comunicazione politico-elettorale. I principali indicatori dell’incipiente “mediatizzazione” della politica riguardavano sia le strategie degli attori politici che le modalità di copertura delle campagne: il ricorso a nuove figure professionali, l'adeguamento dei codici comunicativi dei leader e dei partiti agli imperativi della media logic, i processi di personalizzazione e di spettacolarizzazione, l'ampliamento dell'elettorato d'opinione.
Sebbene il carattere incrementale di questi mutamenti lasciasse passare l'idea che fosse in atto un trend di sviluppo irriducibile alle vecchie dinamiche comunicazionali imperniate intorno alla figura del partito organizzato di massa, in realtà la situazione italiana era caratterizzata dal dominio certo della politica. Soprattutto, i principali protagonisti della sfera pubblica italiana restavano ancora gli attori partitici.
Nel volgere di pochi anni, inaspettatamente, questo edificio istituzionale e di rapporti consolidati tra sistema politico e sistema dei media, va in frantumi. Si continua a discutere se ciò sia accaduto per il crollo del Muro di Berlino (1989), per Tangentopoli (1992-93) o in seguito alla vittoria di Forza Italia e del suo leader (1994). E se la Seconda Repubblica sia miseramente implosa, lasciando spazio ad una nuova, la Terza, o se sia ancora alla ricerca di una sua identità[10]. Qualunque sia la risposta, resta il fatto che una nuova fase si è aperta: siamo nell’era della post-electoral politics. Con la politica post-elettorale, la democrazia non è più quella che si misura con la conta dei voti – anche se la lotta per conquistarli è dura come non mai – e dei partiti – anche se continuiamo a pensare di non poterne fare a meno. Con la politica post-elettorale è emersa una nuova costellazione: di dinamiche comunicative, di logiche d’azione, di poteri, di risorse e di simboli.

3. Tra vecchi e nuovi riti. Sondaggi e campagna permanente

Con il declino delle organizzazioni partitiche cambia profondamente la struttura della politica elettorale[11]. Più precisamente, con l’erosione delle condizioni di riproduzione del sistema politico-istituzionale incentrato sulla forza dell’attore partitico, e, dunque, sulla preminenza del circuito rappresentativo classico, il ricorso a risorse e a strategie comunicative diventa un passaggio obbligato. La comunicazione diventa cioè una variabile cruciale del processo politico quando vengono meno le condizioni e le risorse che garantivano ad ognuna delle istituzioni di governo un’autonoma capacità d’azione nel policy-making. La cosiddetta mediatizzazione della politica è appunto espressione – e conseguenza – di queste trasformazioni[12].
Il concetto di permanent campaign, introdotto in America per descrivere l’evoluzione delle strategie comunicative presidenziali – uso sistematico dei polls come strumento per la costruzione del sostegno politico, il going public come ricerca incessante di una sempre maggiore popolarità, adeguamento alla “media logic” – registra la crisi e il superamento delle modalità in cui si è storicamente strutturato e teoricamente definito il processo politico-elettorale e degli stessi principi di legittimità su cui si sono fondati i rapporti tra governanti e governati nei regimi democratici[13].
Il diffondersi di un criterio di legittimazione e di creazione-gestione del consenso radicalmente diverso da quello elettorale, incentrato sul ricorso a strategie di comunicazione, si colloca dunque all’interno di un profondo mutamento socio-politico e culturale: con la crisi della democrazia dei partiti il vento dell’antipolitica si è fatto sentire ovunque, alimentato da un sentimento di rigetto e da una crescente sfiducia nei confronti del ceto politico e delle stesse istituzioni. Le analisi di questo fenomeno, documentato da numerose inchieste di sondaggio condotte o in singoli paesi o su scala sovranazionale, indicano che si tratta di una costante sociologica (Fonte: Eurobarometro 2008). Se si guarda ai leader di governo, la loro perdita di popolarità talvolta si verifica anche ben prima che si consumi la cosiddetta “luna di miele” con i media. Una volta eletti, nell’esercizio delle funzioni esecutive, essi perdono una parte del “capitale politico” che aveva permesso loro di vincere la competizione per il potere. Questo processo di fatto segue andamenti e ritmi diversi, ma la traiettoria è sostanzialmente la stessa, con una conseguenza politica rilevante: i leader parlano e si comportano come se rappresentassero la maggioranza, mentre in realtà nel corso del loro mandato sono sociologicamente minoritari presso l’opinione pubblica. Ciò non significa né che la impopolarità dei leader mette in discussione la legalità della loro funzione né che l’erosione della fiducia nelle istituzioni implichi una crisi di legittimità del regime democratico. Piuttosto, «la persistenza del deficit di fiducia mostra che si è in presenza di uno squilibrio che trasforma le modalità di funzionamento dei sistemi democratici. […] Il declino persistente della fiducia rivela un cambiamento nei meccanismi di funzionamento della democrazia». In particolare, il meccanismo elettorale, intermittente, della scelta di voto «non appare più essere un rito sufficiente. Il parlamento non è più un luogo privilegiato. Alla delega – il mandato parlamentare della vecchia teoria costituzionale – si sostituisce progressivamente un controllo permanente delle istituzioni e dei loro dirigenti, grazie al ricorso frequente all’opinione pubblica attraverso sondaggi su aspetti concreti. [...] La democrazia parlamentare diviene sempre più “sondagière”, poiché si dà ai cittadini la possibilità di esprimersi su problemi concreti. In tutti i paesi, la classe politica è attenta ai risultati dei sondaggi sulla popolarità dei governanti». Uno dei principali insegnamenti di quest’analisi è che «le procedure elettorali non sono più idonee ad alimentare la fiducia su cui si fondano le democrazie rappresentative. Oggigiorno il giudizio dei cittadini non si esprime più al momento della decisione di voto, ma in maniera permanente attraverso i sondaggi. [...] Oggigiorno, la procedura elettorale [...] non può più assicurare [...] un funzionamento armonioso e una piena legittimazione dei regimi democratici»[14].
Attento come nessun altro leader politico agli umori dell’opinione pubblica, Berlusconi ha fatto del circuito media-sondaggi la sua arma vincente, il suo principale strumento propagandistico, trasformando la partecipazione democratica in questionario. Fonte di informazione e di indirizzo in una fase caratterizzata dallo sfaldamento dei consolidati canali di partecipazione e di trasmissione della domanda politica, i sondaggi, nelle mani – e nei media – del Cavaliere hanno subito una torsione profonda. Apparsa in tutta la sua potenza nella fase fondativa, allorquando il connubio sondaggi-media trasformò «la forza delle cifre [...] da radiografia dell’esistente in strumento di manipolazione»[15], tale torsione si è per così dire costituzionalizzata, è cioè diventata prassi consolidata: tanto nelle logiche del newsmaking quanto nelle strategie di campagna permanente che si sono oramai stabilmente affermate nel nostro paese.
L’indissolubilità di questo nesso ci restituisce uno stile di comunicazione politica e di governo che rinvia ad una concezione del proprio ruolo e dei rapporti con gli altri poteri di governo che è agli antipodi del modello su cui si è fondata la legittimità democratica, ma con un solido retroterra ideologico-culturale e di prassi istituzionali. Qual è il modello di comunicazione politica, se di modello è possibile parlare, che contraddistingue questo leader? Il ricorso a strategie di campagna permanente e ai sondaggi mettono in evidenza quali sono le principali caratteristiche di tale modello: l’appello diretto al popolo, come depositario degli autentici valori e virtù, e la relazione diretta tra popolo e leadership. Due tratti, si dirà, che non possono essere considerati distintivi dell’esperienza berlusconiana. È vero. Ma, diversamente da quanto sta accadendo in altre democrazie, questi tratti vengono evocati e fatti valere per modificare i rapporti con le altre istituzioni, a cominciare da quella che fin dalle origini è entrata in conflitto permanente con il premier: la magistratura.

4. Scandali e via giudiziaria alla politica

Il declino delle elezioni non si registra soltanto nell’affermazione di un circuito alternativo di espressione e misurazione del consenso. La perdita di centralità delle elezioni si registra anche su un altro fronte: l’incapacità ad essere il terreno principale di ricomposizione dei conflitti. L’esteso processo di “giudiziarizzazione della politica” indica che aree sempre più significative della vita collettiva vengono regolate al di fuori dei tradizionali canali politico-rappresentativi. Se tutto e tutti – in Italia ora non le 4 cariche dello Stato! – diventano giustiziabili, si sfarina il tessuto connettivo, simbolico-culturale, delle democrazie.
L’interesse per i fenomeni di corruzione e per le origini e il significato dello scandalo politico risale agli anni '80. Fenomeno eminentemente simbolico, lo scandalo non appare più come la semplice violazione di norme e procedure stabilite; né viene assimilato solamente a un rito di purificazione che, attraverso la individuazione e la messa al bando dei (presunti) colpevoli, mobilita le risorse necessarie alla rigenerazione del sistema politico. Esso invece si colloca al cuore del processo politico e ne rivela la logica istituzionale dominante[16]. Sulle ragioni di questi sviluppi si continua a discutere. Per alcuni, la proliferazione degli scandali è legata all'avvento di una “culture of mistrust” che si sarebbe diffusa in tutte le democrazie occidentali. Per altri, la rilevanza dello scandalo durante gli ultimi tre decenni può riflettere il profilo sempre più spiccatamente populista e plebiscitario del processo politico favorito dall'attenzione dei media e dall'insaziabile appetito del pubblico per le notizie piccanti. Colpire l’avversario non sulla base delle idee e degli interessi che rappresenta, ma sulla scorta dei suoi comportamenti penalmente e/o moralmente sanzionabili: questa tendenza modifica alla radice uno dei dispositivi fondamentali delle democrazie contemporanee che, storicamente, affidava alle elezioni il compito di garantire il ricambio della classe politica e di governo .
La novità rispetto al passato è radicale. L’avvento della politica di massa ridisegnò, infatti, le frontiere della legalità scardinando l’edificio costituzionale elitario. La democrazia dei partiti fu, per così dire, tollerante. E fondamentalmente per due ragioni. La prima, di ordine storico-politico: i vantaggi che essa arrecava a milioni di uomini e di donne in termini di riconoscimento di nuovi diritti e di accesso alle risorse pubbliche erano tali che si poteva, e si doveva, chiudere un occhio sui suoi inevitabili costi. La seconda, di ordine ideologico-culturale: il criterio di giudizio delle scelte e dei comportamenti dei candidati era di natura politica. La lotta fra i contendenti avveniva cioè con un riferimento ad un universo valoriale e simbolico che ne strutturava e contestualizzava le azioni. Lo sfaldamento di questo sostrato di conoscenze e cognizioni ideologiche ha progressivamente spostato l’attenzione dei cittadini-elettori sul carattere personale dei candidati come base del loro giudizio politico. La crescente importanza di temi moralistici nel dibattito pubblico – e, dunque, la maggiore enfasi sugli scandali politici – riflette appunto le trasformazioni nel circuito elettorato-partiti-leadership e nei modelli di cultura politica che lo hanno storicamente legittimato. Si può pertanto ipotizzare che tanto meno è solida e ampia la base elettorale e di massa della leadership politica tanto più frequenti e efficaci diventano le strategie di discredito personale. Dopo lo sfaldamento delle ideologie contrapposte e delle subculture di voto, la reputazione del politico è infatti una risorsa cruciale, di natura simbolica, per il conseguimento e il mantenimento del consenso. Su questo terreno, dove più che per il passato si gioca la competizione tra le forze politiche, vede consolidarsi l’espansione del ruolo politico dei media, cui spetta la definizione del regime di visibilità e, dunque, la produzione di quel “capitale simbolico” su cui i leader politici fondano il loro potere[17]. L’affermazione di questo circuito – massmedia e azione giudiziaria – spiega anche perché questo è stato il terreno su cui maggiormente si è acuito il conflitto interistituzionale tra il Presidente del Consiglio e la magistratura.
Le tensioni tra questi due poteri non sono un fatto nuovo. Né il ricorso alla scandalo politico è un fenomeno tipicamente italiano. Al contrario[18]. Tipica dell’esperienza italiana sembra invece essere l’inefficacia – in termini politici – degli scandali che investono la figura del premier. Un’inefficacia che può essere spiegata soprattutto facendo riferimento alle linee di intervento sulla magistratura tracciate da tempo dall’attuale maggioranza e dai media che ad essa danno compattamente voce e sostegno, spesso con violenti campagne di delegittimazione. Si tratta di un’operazione culturale, prima che politica, che riflette e, al tempo stesso, alimenta una trasformazione del senso comune e dell’opinione pubblica: intorno al ruolo e alle funzioni di questa istituzione dello Stato, irresponsabile e colpevole di non rispondere direttamente al popolo sovrano.
I ripetuti attacchi alle correnti “politicizzate” della magistratura, anche ricorrendo a messaggi televisivi a reti praticamente unificate (29 gennaio 2003), ribadiscono punto per punto la visione della missione del leader – non tradirà mai il mandato degli elettori – e dei rapporti tra i diversi poteri dello Stato – chi gode della legittimazione popolare non può essere subordinato ad alcun altro potere. Una strategia comunicativa che potrebbe, proprio in questi mesi, sortire i suoi primi effetti[19].

5. Conclusioni

Alla luce di queste considerazioni, si può effettivamente dire che le prassi comunicative dell’attuale premier abbiano cambiato in via di fatto la forma di governo italiana? E che l’obiettivo di mettere mano alla Carta costituzionale può addirittura apparire come un passaggio obbligato per mettere in sintonia la costituzione formale col senso comune? Non ho la risposta pronta. Certo, fattore decisivo per gli futuri sviluppi sarà la natura del partito e il rapporto tra partito, in quanto istituzione ed espressione di una cultura politica, e il suo leader.
Se è vero che la personalizzazione è un fenomeno generalizzato, molto diverse sono le implicazioni e gli esiti a seconda della natura delle strutture di partito e delle culture politiche che esprimono. Il dopo Berlusconi è insomma un altro, serio, interrogativo che peserà sul destino della Nazione.
L’ipotesi che abbia preso forma una politica post-elettorale risulta proficua in quanto credo fornisca una cornice di senso a dinamiche comunicative che hanno portata generale – la valorizzazione della figura e del ruolo del leader, la diffusione dei sondaggi, il pieno dispiegamento della logica della campagna permanente, la costante ricerca dello scandalo e il ricorso all’azione giudiziaria come strumento di lotta politica. Fenomeni, ripeto, che non sono tipici del nostro paese. Quello che invece contraddistingue il caso italiano è il fatto che la politica post-elettorale si è affermata come terreno per la ridefinizione dei rapporti tra le istituzioni di governo. Nutrendosi di un impasto originale – vale a dire di un sostrato culturale e simbolico radicalmente diverso da quello che ha contraddistinto la storia italiana dal dopoguerra fino agli anni ’80, di cui erano espressione e custodi i partiti organizzati – le strategie comunicative del leader di governo radicalizzano lo scontro politico soprattutto attraverso un’accurata regia comunicativa. Una regia che vede in prima linea gli apparati dell’informazione, sempre più compatti, nei momenti politicamente più significativi, nell’orientare le dinamiche d’opinione a sostegno dell’azione e delle scelte del governo. A titolo esemplificativo, si possono ricordare le campagne in occasione dei provvedimenti di riforma della PA (Brunetta), della scuola e dell’università (Gelmini), i decreti sulla sicurezza (Maroni, Carfagna), e sul testamento biologico (caso Eluana).
Queste campagne, che sono ancora in corso, riflettono, e al tempo stesso, alimentano culture politiche che scavano nel profondo, scavano nel tessuto connettivo della società democratica. Perché quello che conta è ridefinire le istituzioni: prima i loro significati, poi le loro concrete modalità organizzative. Ridisegnare la geometria dei loro rapporti: sul piano simbolico e delle prassi operative. È un’altra Italia quella che sta prendendo forma. I suoi tratti, però, ci sfuggono ancora. Piuttosto, con il superamento del governo di partito si è assistito, e si assiste, ad una lotta di tutti contro tutti. Ad un ritorno ad un mondo hobbesiano, in cui l’aggregazione è temporanea, e non l’esito di un processo di mediazione politica e di riconoscibili opzioni di valore. La metafora hobbesiana ha un suo fascino, ed è difficile sottrarsi alla sensazione che essa colga nel segno: e si presti per capire ciò che sta accadendo nel nostro paese. Sappiamo anche che dal mondo hobbesiano si esce, o ci si salva, in un modo soltanto: affidandosi a un Capo.

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[1] Cfr. G. SARTORI, Il Sultanato, Laterza, Roma-Bari 2009.
[2] C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.
[3] G. MAZZOLENI, A. SFARDINI, Politica Pop, Il Mulino, Bologna 2009.
[4] Cfr. A. PIZZORNO, Il sistema pluralistico di rappresentanza, in S. BERGER (a cura di). L'organizzazione degli interessi nell'Europa occidentale, Il Mulino, Bologna 1983, pp. 396-397.
[5] Cfr. AA.VV. La politica senza i partiti, Edizioni SEAM, Roma 1996.
[6] Cfr. B. GINSBERG, M. SHEFTER, Politics by Other Means. The Declining Importance of Elections in America, Basic Book, New York 1999.
[7] C. SORRENTINO, I percorsi della notizia, Baskerville, Bologna 1995, pp. 51-63.
[8] S. BENTIVEGNA, Al voto con i media , La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, p. 29.
[9] O. CALABRESE, Come nella Boxe. Lo spettacolo della politica in Tv, Laterza, Roma-Bari 1998.
[10] Cfr. M. CALISE, La Terza Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2006.
[11] Cfr. D. SWANSON, P. MANCINI (eds.), Politics, Media, and Modern Democracy, Praeger, Westport, CT 1996.
[12] Cfr. T. COOK, Governing with the News, The University of Chicago Press, Chicago & London 1998.
[13] Cfr. F. RONCAROLO, Controllare i media. Il presidente americano e gli apparati nelle campagne di comunicazione permanente, FrancoAngeli, Milano 1994, p. 14.
[14] M. DOGAN, Déficit de confiance dans les démocraties avancées, in “Revue Internationale de Politique Comparée”, VI, n. 2, 1999, pp. 535-547.
[15] M. CALISE, La costituzione silenziosa, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 118.
[16] Cfr. S. GARMENT, Scandal: the Culture of Mistrust in American Politics, Anchor, New York 1992.
[17] Cfr. J.B. THOMPSON, Political Scandal. Power and Visibility in the Media Age. Polity Press, Cambridge 2000.
[18] Cfr. S. KIMLIN, Scandal Fatigue: Scandal Elections and Satisfaction with Democracy, in “Western Europe 1977-2006”, paper presentato all’Annual Meeting of the American Political Science Association (28-31 Agosto 2008).
[19] Penso allo scontro sul cosiddetto “processo breve”, passato al Senato e ora vaglio dell’altro ramo del Parlamento.
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