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Gli imprenditori: un nuovo gruppo strategico alla guida dello sviluppo cinese?

Valeria Zanier

La parola “imprenditore" deriva da “impresa" e definisce una persona che, in primo luogo, si prende in carico un rischio. In secondo luogo, un bravo imprenditore deve avere adeguate qualità come: leadership, capacità organizzative, determinazione. Si tratta di un gruppo non omogeneo, nel quale confluiscono industriali con una lunga storia familiare alle spalle, così come persone ingegnose e intraprendenti che, dal nulla, hanno trasformato le proprie idee in progetti vincenti. Il panorama in Cina è particolarmente complesso, dal momento che il paese sta attraversando un periodo di transizione, che ha il fine di rimpiazzare l’economia pianificata di stampo socialista con le leggi del mercato. Si va dalla “fabbrichetta" d’impianto familiare al conglomerato che raggruppa business di varia natura. Ma quanti di coloro che amministrano le aziende ne sono effettivamente i proprietari? Alcuni hanno investito di tasca propria in nuovi business, mentre altri hanno preso le redini di aziende statali in corso di ristrutturazione. Il risultato (parziale) del processo di “aziendalizzazione" tuttora in corso è che alcune società continuano ad essere formalmente statali, pur se la gestione è condotta in modo imprenditoriale, mentre altre sono state recentemente trasformate in società private o società per azioni, attraverso il sistema del Management Buy-Out (MBO). Il termine indica l’acquisizione delle quote di un’azienda da parte dei suoi amministratori di livello superiore, ai quali viene così data l’opportunità di passare dal ruolo meramente gestionale a quello davvero imprenditoriale[1].


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In definitiva, non sempre è facile capire se i corrispettivi di CEO, GM, presidenti delle aziende cinesi, possano essere classificati come “capitalisti" e/o “imprenditori" o come “amministratori". L’aspetto essenziale, comunque, è che queste persone vengono celebrate come vere e proprie glorie nazionali, fungendo da modello per tanti cinesi che sognano di diventare presto come loro.
La maggior parte dei top CEOs cinesi proviene dalle province costiere della Cina orientale: Jiangsu, Zhejiang, Fujian, Shandong, e, naturalmente, la città di Shanghai[2]. È in queste zone che, dopo il 1978, si è concentrato lo sviluppo economico e si sono formate le élite economiche, politiche, culturali e militari. Uno dei più importanti incubatori della moderna impresa privata cinese è la città di Wenzhou, capitale del Zhejiang, nonché città-simbolo dell’immigrazione cinese in Italia.
Nei primi anni ’80, non appena le neonate riforme economiche fecero intravedere le prime opportunità imprenditoriali, si diffuse la tendenza di lasciare il posto nel partito, nel governo o nelle aziende di stato per gettarsi nel settore privato. In realtà possiamo distinguere due categorie: la prima è rappresentata da coloro i quali occupavano posizioni di alto livello all’interno del partito e/o del governo (in molti casi, proprio i figli dei leader) ed, in seguito alle riforme, si sono dati all’imprenditoria; la seconda categoria è rappresentata da funzionari di partito di medio livello (o addirittura semplici membri del partito che non ricoprivano alcun incarico formale), che hanno lasciato i loro posti di lavoro per mettersi in affari. Proprio quest’ultimo fenomeno, che ha visto come protagonisti i funzionari di medio-basso livello, ha preso il nome di xia hai (letteralmente, in cinese: “tuffarsi in mare").


1. Imprenditori di successo: due esempi a confronto

Zhang Ruimin, Guo Guanchang, Zhang Yin, Liu Yonghao, Zhu Yanfeng, Zhang Qingwei, Su Shulin, Liu Shiquan… ma chi sono costoro? Si tratta di alcuni dei più influenti e ricchi imprenditori e capitani d’azienda cinesi. Al momento, i loro nomi non fanno scattare nessun click nel lettore italiano. È probabile, però, che -nel giro di qualche anno- questi personaggi diventino familiari presso di noi, così come lo sono stati Henry Ford, Rockefeller, Onassis, Enrico Mattei, Gianni Agnelli, e personaggi più attuali, come Bill Gates, Luciano Benetton, ecc… sarà una semplice conseguenza dell’ascesa economica cinese, ormai più che evidente.
Prendiamo il caso Haier, oggi 5° produttore mondiale di elettrodomestici bianchi[3]. La storia della Haier inizia nella città di Qingdao negli anni ’20, quando essa nacque come fabbrica di frigoriferi con l’apporto di tecnologia tedesca. In seguito alla Rivoluzione del 1949, essa divenne fabbrica statale con il nome di “Qingdao Refrigerator General Company". Zhang Ruimin, presidente e CEO del gruppo cinese, è nato nel 1949 nella provincia dello Shandong, ed è per così dire coetaneo della Repubblica Popolare Cinese (fondata da Mao il 1° ottobre dello stesso anno). Forse per questa ragione, egli si è trovato in perfetta sintonia con l’evoluzione storica del suo paese.
È nei primi anni ’80 che Zhang Ruimin -allora un semplice amministratore della municipalità di Qingdao- fu incaricato dal governo locale di risollevare le sorti dell’azienda, ormai a rischio bancarotta. Va qui precisato che, fin dai primi anni ’50, era prassi comune porre alla guida delle imprese un duo così composto: direttore commerciale e segretario di partito. Quindi, un caso come quello di Zhang Ruimin, è ben rappresentativo di una pratica di gestione aziendale assai diffusa nella Cina pre-Deng. Il carattere innovativo, casomai, è rappresentato dal periodo di grande cambiamento, nel quale si è trovato ad operare Zhang.
A partire da questo momento, la carriera di Zhang si lega alle sorti della Haier indissolubilmente. Il paese aveva allora bisogno di persone determinate e capaci di prendere decisioni rapide ed efficaci e egli diventa famoso per un episodio emblematico. Convinto che la Haier avrebbe potuto salvarsi solo se avesse perseguito l’eccellenza della produzione, Zhang Ruimin impone di distruggere i macchinari e i frigoriferi ormai obsoleti. Famose le foto che lo immortalano mentre dà l’esempio agli operai sferrando i primi colpi di martello.
Dall’inizio delle riforme economiche, Zhang Ruimin ha poi percorso tutte le tappe che l’hanno portato alla guida di un grosso gruppo industriale e gli hanno portato grandi riconoscimenti internazionali. Nel 1998 Zhang è stato il primo imprenditore cinese chiamato dall’Università di Harvard a tenere una conferenza. In linea con la tradizione confuciana, il presidente della Haier consiglia un approccio ben radicato nella realtà dei fatti. Il suo motto è: “sempre cauto, sempre meticoloso".
Il caso Zhang-Haier è un tipico esempio del processo di “aziendalizzazione" o “de-statalizzazione" che ha interessato centinaia di aziende statali cinesi. Zhang Ruimin è innanzitutto un uomo che il partito ha posto al comando dell’azienda. Egli ha portato avanti -finora egregiamente- la trasformazione dell’azienda da statale a privata, ma questo processo non è stato completato[4]. La Haier è ancora formalmente una società a proprietà “collettiva"[5].
Infine, Zhang Ruimin è membro alternato del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese: una carica più che prestigiosa, che sottolinea la rilevanza che la sua figura rappresenta nel panorama dell’eccellenza cinese[6]. Infatti, pur se il Comitato Centrale svolge un ruolo più formale che di reale potere, i membri di tale organo possono talvolta esercitare la loro influenza nelle dispute tra i leader più anziani[7]. Inoltre, la composizione del Comitato Centrale è assai rappresentativa delle tendenze nella vita politica del paese e offre preziose indicazioni sulle trasformazioni che avvengono nella leadership cinese.
Un esempio diametralmente opposto è costituito da Guo Guangchang, fondatore e presidente di “Shanghai Fosun High Technology Group". Adesso il gruppo Fosun è attivo in sei settori industriali (farmaceutica, immobiliare, metalli, veicoli a motore, commercio e telecomunicazioni) e l’estate scorsa si è distinto perché, al suo primo lancio sulla borsa di Hong Kong, realizzò quasi un miliardo e mezzo di dollari.
Nelle note biografiche disponibili su di lui, si legge che Guo è nato e cresciuto in una modesta famiglia di agricoltori. Insieme ad altri quattro amici, tutti giovani laureati dell’Università Fudan di Shanghai, Guo mise a punto nel 1992 un medicinale contro l’epatite A e diede vita alla Fosun investendo solo 4.500 dollari.
Adesso Guo Guangchang viene considerato il Bill Gates cinese. Secondo alcune fonti al terzo posto, secondo altre al nono posto nella classifica dei cittadini cinesi più ricchi, Guo è senz’altro il più ricco residente di Shanghai. Egli controlla cinque società quotate in borsa ed è uno dei maggiori investitori in altre 70 aziende, raggiungendo un giro d’affari complessivo di poco superiore ad 1 miliardo di dollari. Paga all’erario cinese circa 10 milioni di dollari di tasse l’anno e dà lavoro a 4.000 persone.
Guo Guangchang sostiene che la forza delle imprese private sta tutta nella capacità di innovazione: una capacità che deve basarsi sulla conoscenza e il possesso di tecnologia “propria". E ancora: «è essenziale per le aziende cinesi potersi muovere dai settori a basso valore aggiunto alle aree ad alto valore aggiunto. Solo così si può instaurare un circolo virtuoso, migliorare le proprie capacità in Ricerca e Sviluppo e nella costruzione di marchi propri»[8]. Queste affermazioni ben si inseriscono nelle linee-guida indicate dal governo centrale, che -soprattutto negli ultimi dieci anni- ha spinto per la trasformazione della Cina da “fabbrica del mondo" a centro produttivo di beni tecnologici. Una tendenza che Pechino ha espresso garantendo appetitosi incentivi ai settori High Tech e richiamando i “cervelli in fuga".
Guo non è iscritto al Partito, però partecipa attivamente alla vita politica del paese, in qualità di membro del Comitato nazionale della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese e delegato dell’Assemblea Nazionale del Popolo[9]. La Conferenza Consultiva raccoglie, tra i suoi oltre duemila delegati, molti amministratori di alto livello delle aziende di Stato ed una sempre più nutrita rappresentanza proveniente dal settore “non-statale". Il ruolo dei delegati è di influenzare le scelte del governo in materia economica e sociale, principalmente avanzando proposte di carattere tecnico su specifiche questioni, quali ad esempio l’ambiente, la legislazione societaria o l’equità sociale.


2. Dimensioni del settore privato

I due esempi riportati sopra illustrano due casi di successo in un panorama molto variegato. Nella realtà dei fatti, la situazione dell’imprenditoria cinese dei nostri giorni è ancora più complessa ed eterogenea. Innanzitutto, occorre qui ricordare che per lungo tempo il settore privato non è stato formalmente riconosciuto come settore a sé, ma come complementare al settore pubblico, rimanendo di fatto un fenomeno marginale a livello economico e sociale. Durante tutto il periodo post-rivoluzionario, le entità produttive erano suddivise in base alla proprietà dei mezzi di produzione: statale, collettiva, privata, straniera. Nella Costituzione del 1982 compaiono esclusivamente le getihu, entità esistenti già in epoca maoista come forma privata nell’economia rurale (pur se la cosa poneva allora qualche problema a livello ideologico)[10]. Nei primi anni ’80, subito dopo l’inizio delle riforme economiche, le getihu si diffusero nelle città, dove riempirono velocemente gli spazi lasciati vuoti dallo Stato, soprattutto nei servizi (riparazioni di biciclette e automobili, carpenteria, vendita al dettaglio, trasporti, ristorazione). In queste attività si concentrarono molti dei giovani che avevano passato la giovinezza nei campi nel periodo della Rivoluzione Culturale e anche un gran numero di pensionati. Nelle aree urbane, dunque, le getihu si rivelarono un ottimo rimedio al problema della manodopera in esubero.
Solo nel 1988 fu introdotta la categoria delle siying qiye (letteralmente, “aziende a gestione privata"), tuttora la dicitura cinese che più precisamente traduce il termine “azienda privata". Le siying qiye, che impiegano otto o più addetti, sono comunemente dette anche minying qiye (aziende a gestione popolare). Quest’ultimo termine presenta una minore connotazione ideologica poiché esclude la contrapposizione tra “privato" e “pubblico". D’altra parte, proprio per la sua maggiore vaghezza, minying qiye può avere significati più estesi[11]. Da un punto di vista strettamente legale, le getihu non sono considerate imprese vere e proprie, però è un dato di fatto che, insieme, le getihu e le siying qiye formano la forza dell’economia privata del paese. Nell’immaginario collettivo, gli imprenditori di questo tipo sono spesso raffigurati come self-made men rozzi e poco istruiti, ma in compenso dotati di fantasia e audacia nelle loro iniziative imprenditoriali.
In definitiva, comunque, è ancora il settore statale a fare la parte del leone: le 24 società cinesi inserite nell’edizione 2007 della “Fortune Global 500" (una classifica stilata ogni anno dalla prestigiosa rivista “Fortune" sulla base del giro d’affari annuo delle aziende), sono tutte statali. E ancora, delle 500 maggiori aziende elencate dalla “China Enterprise Confederation" e dalla “China Enterprise Directors Association" nel 2007, ben 349 appartengono allo Stato e solo queste generano l’85,2% della ricchezza[12].
Mentre i dati disponibili per le aziende di Stato sono piuttosto precisi, rimane tuttora difficile quantificare esattamente il settore non-statale in Cina. A settembre 2007, fonti ufficiali stimavano che il settore privato impiegasse circa 120 milioni di persone[13]. Altre fonti ufficiali riportano che il 57% delle aziende sono di proprietà privata e contribuiscono per un terzo al fisco[14]. Ricerche condotte dalla “Chinese University" of Hong Kong riportano l’esistenza di 43 milioni di imprese private in Cina nel 2006, mentre secondo la “All-China Federation of Industry and Commerce" (ACFIC), alla fine di giugno 2007 operavano in Cina poco più di 5.5 milioni di società private. Quest’ultimo dato si riferisce solo alle società di grandi dimensioni (corporation), cui sono da aggiungere 26,21 milioni di entità individuali[15].
Per spiegare queste differenze, occorre menzionare che il metodo “riduttivo", impiegato solitamente nelle statistiche ufficiali, si basa sul numero degli addetti e sulla struttura proprietaria delle aziende, dunque include solo getihu e siying qiye, senza tenere conto del ruolo del privato nell’economia di transizione. Una classificazione più ampia include, invece, anche le numerose aziende private che hanno optato per essere definite collettive (jiti gongsi) o TVEs (town and village enterprises - xiang zhen qiye) poiché, di fatto, condividono la proprietà con i governi locali. Queste aziende, che -di fatto- utilizzano la struttura proprietaria collettiva come copertura, hanno preso il soprannome di “aziende dal cappello rosso" (hong maozi qiye). Nella situazione di transizione in cui si trova la Cina, questo ha permesso loro di avere un accesso privilegiato a terra, beni e credito (l’accesso al credito ha costituito per anni uno dei maggiori ostacoli per lo sviluppo di business privati).

3. Un ponte tra partito e società civile?

L’articolo 1 dello Statuto del PCC vieta espressamente agli imprenditori di diventare membri del partito. Tuttavia, questo non ha impedito che, a livello informale, già dai primi anni ’80 diversi imprenditori privati stringessero forti legami personali e politici con il partito, meritandosi, così, il soprannome di “capitalisti rossi".
Nei primi mesi del 2000, durante un viaggio nella provincia meridionale del Guangdong, Jiang Zemin lanciò la teoria delle “Tre Rappresentatività" (san ge daibiao lilun), considerato il contributo teorico più rilevante che Jiang abbia prodotto nel corso della sua carriera politica. La teoria delle “Tre Rappresentatività" afferma che il partito ha rappresentato nel corso della storia la parte più avanzata delle forze produttive e della cultura del paese, mantenendo al contempo il ruolo originario di salvaguardia degli interessi fondamentali della maggior parte della popolazione cinese. La nuova teoria apre le porte alla revisione della teoria marxista del lavoro, fulcro del pensiero marxista e cuore dell’identità del Partito Comunista Cinese, in quanto “avanguardia proletaria". Di fatto, l’attenzione, che per anni è stata indirizzata ai mezzi di produzione, individuando nella borghesia capitalista il “nemico" e nei proletari il “giusto", viene deviata su nuovi obiettivi. Il conflitto di classe diventa irrilevante e la base del partito si allarga idealmente a tutta la società[16].
Il 1° luglio 2001, nell’ottantesimo anniversario della fondazione del partito, Jiang Zemin espresse ufficialmente i propri concetti ideologici in un discorso rimasto famoso. In quest’occasione, oltre ai consueti slogan, Jiang cita numerose volte i «nuovi strati sociali» (xin de shehui jieceng), che hanno «contribuito allo sviluppo delle forze produttive». Si noti innanzitutto che il termine “classe" (jieji), in quanto appartenente all’ideologia marxista, è ormai obsoleto e viene sempre più spesso sostituito dal termine “strato" (jieceng)[17]. Più precisamente, questi nuovi strati consistono in sei categorie: imprenditori e personale tecnico impiegato presso aziende scientifiche e tecniche del settore non-statale, personale tecnico e direttivo assunto presso le aziende estere, le imprese individuali, i proprietari di imprese, gli impiegati in organizzazioni intermediarie, i professionisti free-lance[18]. Nel novembre 2002, Jiang Zemin reiterò la presentazione della teoria delle Tre Rappresentatività davanti ai leader riunitisi per il 16° Congresso del PCC. In entrambe le occasioni, si trattò di un chiaro invito diretto agli imprenditori privati, al fine di legittimare un futuro cambiamento nella politica cinese. Jiang ricevette molte critiche, specialmente dagli esponenti più ortodossi, che lo accusarono di violare i principi costituenti del partito.
Il dibattito tra reazionari e innovatori, che si era espresso con toni particolarmente accesi nella seconda metà degli anni ’90 sulle pagine di alcune riviste rappresentanti di correnti ortodosse, quali "Zhenli de zhuiqiu" (La ricerca della verità) e "Zhongliu" (Corrente Principale), si ripropose anche nel 2001. I conservatori criticavano lo snaturamento dell’identità proletaria del PCC e denunciavano la totale incompatibilità tra gli imprenditori privati e i principi politici del partito[19]. Gli attacchi alla politica d’inclusione degli imprenditori si protrassero anche dopo che Jiang Zemin ebbe esposto la Teoria delle Tre Rappresentatività. Ancora nel maggio 2001, nella rivista "Zhenli de zhuiqiu" si legge: «Se gli imprenditori privati saranno ammessi nel partito, alcuni di loro potranno addirittura usare il proprio potere economico per guidare le elezioni di base e per controllare le organizzazioni popolari. Tutto questo porterà serie implicazioni politiche»[20].
Tuttavia, si tratta ormai di posizioni minoritarie espresse da una parte del PCC che sta perdendo notevolmente il proprio peso politico a vantaggio di tendenze decisamente più aperte e innovatrici. Tant’è che nello stesso 2001, sia "Zhenli de zhuiqiu", sia "Zhongliu" cesseranno la pubblicazione, proprio per ordine di Jiang Zemin.
Pur se l’apertura alla classe imprenditoriale destò grande clamore in Cina e all’estero, va ricordato che ciò non rappresenta una cosa nuova nella Repubblica Popolare Cinese. Aggirando il divieto formale, di fatto gli imprenditori iniziarono a far parte del partito fin dalla metà degli anni ’80. In quegli anni, era parte integrante della politica del partito “cooptare" coloro i quali avevano dato vita a business privati, cogliendo le prime occasioni presentatesi con la “politica della porta aperta"[21]. Inserire tali “casi di successo" nelle rappresentanze di partito portava grandi benefici (di prestigio, ma anche economici) a livello locale.
Dati ufficiali riportano che nel 1988, il 15% dei proprietari di aziende private erano membri del partito[22]. Addirittura, un sondaggio condotto a Wenzhou nel 1989 riporta che allora il 31,7% degli imprenditori privati (siying) erano membri del partito[23].
Fu solo in seguito agli incidenti di Tian’an men che venne posto il bando all’entrata degli imprenditori privati nel PCC. Nel mese di agosto del 1989, per timore di diffusione di influenze borghesi, il PCC vietò di reclutare nuovi iscritti tra gli imprenditori privati, mentre coloro che già facevano parte del partito non avrebbero potuto mantenere eventuali cariche ufficiali.
La tendenza a considerare gli imprenditori come parte integrante nel progresso economico cinese rifece capolino subito dopo che le acque si furono calmate. Già nel 1993 il primo imprenditore, Liu Yonghao, fondatore del “New Hope Group", fu ammesso nella Conferenza Consultiva Politica del Partito come “consigliere"[24]. All’ultima conferenza, tenutasi nel marzo di quest’anno, gli uomini (e le donne) d’affari erano un centinaio!
Tra questi, si è distinta la signora Zhang Yin, presidente della “Nine Dragons Co. Ltd.", sollevando tre questioni: la prima riguarda la nuova regolamentazione sul lavoro, entrata in vigore proprio all’inizio di quest’anno, che prevede che i lavoratori assunti da più di 10 anni, possano automaticamente passare a tempo indeterminato. Zhang Yin ha proposto di emendare la legge. La seconda riguarda la pressione fiscale: Zhang Yin ha proposto di diminuire la tassazione sui redditi più alti, per evitare una “fuga di cervelli" dalla Cina. La terza questione riguarda l’importazione di macchinari e tecnologie “verdi" e il risparmio energetico: l’imprenditrice ha proposto di estendere il periodo di esenzione dalle tasse attualmente in vigore a beneficio delle aziende che ne fanno uso da 5 a 7 anni. Guarda caso, commentano alcuni giornalisti, di quest’ultima proposta beneficerebbe direttamente proprio la Nine Dragons, che fa largo uso di attrezzature ecologiche per la produzione di carta. Il business, iniziato nel 1985 nel sud della Cina come una piccola attività basata sulla raccolta di carta da riciclare, si è esteso laboriosamente dalla Cina Popolare a Hong Kong e Stati Uniti. Zhang Yin si è più volte classificata come la donna più ricca della Cina e ormai rappresenta una delle voci più autorevoli espresse dalla business community cinese.
Quest’ultima volta molti l’hanno criticata per aver espresso proposte che tengono conto esclusivamente delle esigenze degli strati più ricchi della popolazione, mentre -in qualità di “consigliere politico" del partito- avrebbe dovuto tenere conto anche delle esigenze del popolo[25]. Ciò riflette una tendenza diffusa nell’opinione pubblica cinese, che riconosce agli imprenditori una responsabilità nei confronti dell’intera società. Il ruolo di guida per la società civile dona prestigio, ma implica una serie di obblighi: «Le grandi aziende hanno innanzitutto il compito di individuare la giusta via. Se si tratta della via sbagliata, il danno sarà ingente. Se, al contrario, la via è quella giusta, essi dovranno andare avanti, fermi e risoluti. Molto probabilmente, altri li seguiranno»[26].
E sono sempre le “grandi" aziende a rivelare quali doti deve possedere il moderno leader: «agli imprenditori del XXI secolo è richiesto di esercitare più ruoli: il ruolo del politico (zhengzhijia), del pensatore (sixiangjia), dell’artista (yishujia[27]. A parlare è il capitano Wei Jiafu, Presidente e CEO del colosso cinese COSCO, specializzato in spedizioni e logistica, ma attivo anche come armatore di navi, nel commercio, nella finanza, nell’intermediazione immobiliare e nell’informatica.
Nella società moderna, gli imprenditori devono avere le qualità del politico, perché -dal momento che gli imprenditori partecipano alla creazione di un framework politico e giuridico- il loro agire è indissolubilmente legato alla politica. Essi devono avere le qualità del pensatore, visto che lo sviluppo di un’impresa dipende in primo luogo dalla filosofia sviluppata dall’imprenditore stesso. Infine, gli imprenditori devono avere le qualità proprie dell’artista: è, infatti, loro compito interagire con le persone in maniera creativa e costruendo la giusta empatia.
I caratteri strategici ed esemplari dell’imprenditoria sono enfatizzati fino a creare un modello universale valido per l’intera società[28]. Infine, proprio le stesse associazioni di categoria avvertono un sempre più forte richiamo alla “responsabilità sociale". Nella prima metà del 2001, la ACFIC lanciò la campagna dei “due pensieri" (liang si), che con il motto «sii ricco, però pensa all’origine della tua ricchezza. Godi della tua prosperità, però pensa allo sviluppo», spingeva gli imprenditori ad investire in infrastrutture e progetti per l’istruzione e l’assistenza degli strati più deboli della società.


4. Conclusioni

Possiamo considerare gli imprenditori come un “gruppo strategico" creatosi autonomamente nella società civile cinese, e -in virtù di questo- capace di portare avanti azioni collettive per ottenere dei risultati? Ad esempio esercitare pressione nei confronti del partito per modificare le leggi?
Un gruppo possiede un’importante funzione per lo sviluppo della società intera e per il cambiamento politico: agisce in maniera organizzata ed ha un’alta capacità contrattuale e, infine, le abitudini e le attitudini dei membri del gruppo hanno effetto sulla costruzione e sulla trasformazione dei valori della società. È effettivamente riscontrabile come gli imprenditori sono portatori di alti valori simbolici: essi rappresentano l’autorità economica, il “professionalismo", il decisionismo economico. Le proprie vite, piene di successi, ricchezza personale e di stili di vita del tutto al di fuori della norma, li rendono protagonisti agli occhi della società. D’altra parte, però, è molto difficile parlare di un gruppo che agisce in maniera organizzata. Innanzitutto, parliamo di un gruppo sociale non omogeneo: mentre i grandi capitani d’industria esercitano un ruolo guida per la società e sono parte attiva nella vita politica del paese, i piccoli imprenditori (i cosiddetti getihu) sono più portati a considerare la politica come luogo della corruzione e, dunque, qualcosa di assolutamente negativo.
Gli studiosi che si occupano di questo fenomeno sono compatti nell’affermare che lo status di “imprenditore" in Cina è ancora un fenomeno emergente[29]. Tale caratteristica si riscontra nella tuttora scarsa incisività espressa dalle associazioni di categoria.
Al fine di dare una lettura completa al fenomeno, occorre poi aggiungere che aprendo le porte agli imprenditori, il partito ha trovato un modo efficace per garantire la propria sopravvivenza, agendo d’anticipo e scongiurando, così, la nascita di una forza di opposizione organizzata. Tuttavia, una volta acclarato che il connubio tra partito e imprenditori era già in corso da molto prima dell’apertura formale avvenuta nel 2001, rimane effettivamente da capire se le sempre più frequenti nomine di imprenditori a “consiglieri politici" costituiscano un mero duplicato delle strutture di partecipazione politica già esistenti o se davvero prospettino un cambio nella leadership politica e un’effettiva democratizzazione[30].
Un discorso a parte merita, infine, il fatto che, negli ultimi anni, il PCC ha attivamente atteso alla costruzione di strutture di partito all’interno di aziende private. In genere, è l’imprenditore (o amministratore) a fungere anche da segretario di partito interno e, quindi, a fare da anello di congiunzione tra partito e lavoratori. A voler approfondire l’analisi, il fenomeno lascia intravedere scenari un po’ diversi da quelli appena prospettati. L’apertura agli imprenditori non servirebbe solo ad assicurare al partito una continuità di base tra le nuove forze della società: essa sarebbe, bensì, un tassello all’interno di un più ampio disegno che prevede la ricostruzione di un partito forte, inserito in una base che abbracci tutti gli strati della nuova società cinese[31].


Bibliografia

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- ZHONGGUO QIYE LIANHEHUI WANGZHAN (Website of the National Association of Chinese Enterprises), http://www.cec-ceda.org.cn/china-500.


E-mail:

[1] Un vivace dibattito si è scatenato in Cina tra il 2004 e il 2005, in seguito alle numerose segnalazioni del professor Lan Xianping. L’economista hongkonghese, noto anche come Larry Lang, ha portato alla luce illustri esempi di MBO effettuati sulla base di valutazioni eccessivamente basse, proprio per favorire l’arricchimento degli amministratori. Per una più approfondita trattazione dell’argomento, vedasi: S. NIE, Short History of Reforms Concerning Chinese State-Owned Enterprises, in “Shanghai Flash", n. 2 (febbraio 2005), e J. CHEN et al., Interview With Larry Lang, in “Nanfang Renwu Zhoukan" (“Southern People’s Weekly"), 22 dicembre 2004, pp. 26-35.
[2] I dati si basano su una ricerca condotta sui 100 maggiori direttori d’azienda, secondo le liste stilate dall’associazione nazionale delle imprese cinesi negli anni 2004 e 2005. Se questa distribuzione geografica rispecchia una tendenza precedente l’età delle Riforme economiche, è un punto che merita di essere approfondito in futuri studi. Le liste sono visionabili sul sito della China Enterprise Confederation: http://www.cec-ceda.org.cn/china-500. Per un’analisi completa dei dati vedi C. LI, The Rise of China’s Yuppie Corps: Top CEOs to Watch, in “China Leadership Monitor", n. 14.
[3] La “Haier Electronics Group", a tutt’oggi di proprietà del governo della Repubblica Popolare Cinese, ha 50.000 addetti e filiali in tutto il mondo. È presente in Italia con una joint-venture con il gruppo Merloni.
[4] Anche la Haier è tra le aziende in cui, secondo Larry Lang, gli amministratori hanno approfittato degli MBOs per arricchirsi.
[5] Le imprese statali includono quelle in cui tutte le quote sono detenute dallo stato; quelle collettive sono unità economiche le cui quote appartengono alla comunità rurale o urbana e sono amministrate dalle autorità locali (F. LEMOINE, L’economia cinese, Il Mulino, Bologna 2005, p. 37).
[6] La posizione di membro “alternato" fornisce la possibilità di un apprendistato in vista della futura promozione a membro “pieno", promozione che avverrà in seguito alla morte o alla rimozione dal posto di altri membri “pieni". T. SAICH, Governance and Politics of China, Palgrave McMillan, Houndsmills Basingstoke 20042, p. 99.
[7] Il Congresso Nazionale del Partito è l’organo supremo del PCC. Tuttavia, esso si riunisce ogni cinque anni in un plenum della durata di una settimana, cui partecipano più di duemila persone. È giocoforza che tale organo non possa discutere seriamente dei problemi che è chiamato a risolvere. L’autorità è demandata al Comitato Centrale, che è in teoria l’organo che guida il partito quando il Congresso non è in sessione. Di fatto, il potere è nelle mani del Politburo e del suo Comitato Permanente, che costituiscono il fulcro del processo decisionale (ivi, p. 97).
[8] La citazione è tratta dal discorso tenuto da Guo in occasione del “China Europe Business Meeting", 24-26 settembre 2006, Ginevra. Vedi rapporto compilato da Horasis-leadership in collaborazione con Price Waterhouse Coopers.
Vedi: www.horasis.org/ChinaEuropeBusinessMeeting-Report-2006.pdf.
[9] Fin dalla sua costituzione nel 1954, l’Assemblea Nazionale del Popolo (il “parlamento" cinese) rappresenta il più alto organo del potere dello Stato. Composta di membri eletti nelle province sotto il diretto controllo del governo centrale, essa si riunisce ogni anno ed ha, tra i suoi poteri, quello di emendare la Costituzione, di legiferare e di esercitare il controllo su costituzionalità e legalità. Da notare che nel periodo 1949-54, l’organo più alto è stata proprio la Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC), che, nel periodo del fronte unito, aveva come suoi membri un gran numero di non-comunisti. Anche la CCPPC si riunisce ogni anno, più o meno in corrispondenza del dell’Assemblea Nazionale del Popolo (ivi, pp. 125-127).
[10] Getihu è l’abbreviazione di geti gongshanghu, ed indica imprese individuali, che possono impiegare fino a sette persone. Lo sbarramento a sette persone deriva da una discussione riportata ne Il Capitale dove Marx afferma che l’impiego di più di sette persone può essere considerato come vero e proprio sfruttamento dei lavoratori impiegati. Come estensione di questa proposizione, quelle entità economiche che impiegano uno o due assistenti e da tre a cinque apprendisti, vengono considerate “auto-impiegati" (questo è il significato letterale di geti hu) e, come tali, risolvono la contraddizione ideologica. A tale proposito, vedasi B.S.W. YIP, Privatisation, in C. TUBILEWICZ (a cura di), Critical Issues in Contemporary China, Routledge, New York and London 2006, pp. 49-78.
[11] Alcune considerazioni a proposito del lessico economico sono state espresse dall’autrice in V. ZANIER, The Chinese Economic Language: Issues in Translation, in Proceedings of the 2006 Bath Big Forty Interpreting and Translating Symposium, di prossima pubblicazione per i tipi di Cambridge Scholars, Cambridge (UK).
[12] Vedi CPC amends Constitution to foster private sector, pubblicato in data 21 ottobre 2007, visionato il 28 aprile 2008 su: http://news.xinhuanet.com/english/2007-10/21/content_6917501.htm.
[13] Dati forniti da Zhang Youping, vice-ministro dell’Amministrazione Statale per l’Industria e il Commercio. Vedi China’s Private Sector employs 120 million people: official, “Xinhua News Agency", pubblicato in data 16 settembre 2007, visionato il 28 aprile 2008 su: http://il2.mofcom.gov.cn/aarticle/chinanews/200709/20070905099543.html.
[14] Cfr. CPC amends Constitution to foster private sector, cit.
[15] Cfr. More than 5.5 million private enterprises now operating in China, pubblicato in data 19 novembre 2007 da “Xinhua News Release", visionato il 3 gennaio 2008 su: http://english.mofcom.gov.cn/aarticle/newsrelease/commonnews/200711/20071105230237.html.
[16] H. HOLBIG, The Party and Private Entrepreneurs in the PRC, in K. E. BRØDSGAARD, Y. ZHENG (eds.), Bringing the Party Back In. How China is Governed, Eastern Universities Press, Singapore 2004, pp. 239-268; 252.
[17] «Il termine jieji, infatti, in base all’accezione marxista, è strettamente associato all’idea di lotta e conflitto di classe: esso richiama una vecchia immagine della società cinese legata a un passato rivoluzionario da cui si tende oggi a prendere le distanze» (M. MIRANDA, La realizzazione di una società armoniosa in Cina: il ruolo del ceto medio, in AA.VV., Percorsi della civiltà cinese tra passato e presente. Atti del X Convegno dell’Associazione Italiana di Studi Cinesi, Venezia, 10-12 marzo 2005, pp. 291-304; p. 296).
[18] A proposito dei nuovi strati cui viene estesa la partecipazione nel Partito, vedasi anche J. FEWSMITH, Rethinking the Role of the CCP: Explicating Jiang Zemin’s Party Anniversary Speech, in “China Leadership Monitor" n. 1, part 2, 2001.
[19] B.J. DICKSON, Red Capitalists in China. The Party, Private Entrepreneurs, and Prospects for Political Change, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2003, pp. 99-115.
[20] Gli imprenditori privati non possono essere ammessi nel partito, in “Zhenli de zhuiqiu", 11 maggio 2001.
[21] B.J. DICKSON, Red Capitalists in China. The Party, Private Entrepreneurs, and Prospects for Political Change, cit., pp. 4-5.
[22] Ivi, p. 98.
[23] K. PARRIS, Local Initiative and National Reform: The Wenzhou Model of Development, in “The China Quarterly", n. 134 (June 1993), pp. 259-261. [24] Liu Yonghao, nativo della provincia del Sichuan, è attualmente vice-presidente del Comitato Economico della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese. Egli, inoltre, ricopre cariche di prestigio nella “All-China Federation of Industry and Commerce". Vedi http://chinavitae.com/biography/Liu_Yonghao%7C513.
[25] J. WU, Strong Opinions Ensure Plenty of Heated Debates, in “China Daily", online edition, 19 marzo 2008.
[26] Brano tratto da X. LI, S. WANG, Ting Jialing ren quanshi ru shi (Ascoltiamo come alla Jialing spiegano l’entrata nel WTO), “Jingji ribao" (“The Economic Daily"), 31 dicembre 2001 (la traduzione è a cura dell’autrice).
[27] L’autrice ringrazia T. Heberer per aver attirato l’attenzione sull’articolo Qiyejia xuyao shenme suzhi? (Quali qualità deve avere un imprenditore?), apparso in “Renmin Ribao" (“People’s Daily"), 27 dicembre 1999, dal quale è stato tratto il presente brano (la traduzione è a cura dell’autrice). Per ulteriori riflessioni sul ruolo degli imprenditori come “modello" per la società, vedi T. HEBERER, Strategic Groups and State Capacity: the Case of the Private Enterprises, in “China Perspectives", n. 46 (March/April) 2003.
[28] Ibidem.
[29] Si fa espressamente riferimento alle opere qui citate di B.J. DICKSON, T. HEBERER, H. HOLBIG.
[30] Vedi H. HOLBIG, The Party and Private Entrepreneurs in the PRC, cit., pp. 263-264.
[31] Ibidem.
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