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Libertà e democrazia in Carlo Cattaneo

Michele Campopiano
Articolo pubblicato nella sezione "Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana tra ’700 e ’800"

Introduzione

Nella sua Autobiografia, Norberto Bobbio scrive che Carlo Cattaneo:


è stato uno dei pochissimi intellettuali risorgimentali (forse l’unico), che non hanno mai potuto essere utilizzati dal fascismo. La sua concezione dello Stato, definito una “grande transazione”, è assolutamente agli antipodi della dottrina fascista dello Stato etico. Anche filosoficamente, Cattaneo rappresentava l’antitesi, ai miei occhi, delle filosofie spiritualistiche dominanti nel nostro paese. Era invece il riformatore illuminato...


Questa osservazione, pronunciata da uno dei più grandi filosofi del diritto e politologi del secolo XX (Bobbio 1997, p. 86; Quaranta 2018, pp. 11-28), ci induce a porci dei seri interrogativi sul perché un pensatore come Cattaneo non sia stato più presente nella riflessione politica italiana, soprattutto in quella del secondo dopoguerra, caratterizzata dalla necessità di fondare nel nostro paese una democrazia moderna che si distanziasse dall’esperienza autoritaria del Ventennio. Le ragioni che hanno condotto Bobbio a scrivere queste parole su Cattaneo sono forse le stesse che hanno portato a fare del grande pensatore federalista e repubblicano una presenza costante, ma in un certo senso “marginalizzata” nella storia del pensiero italiano, e vanno ricercate proprio nelle originali idee di Cattaneo in merito alla libertà e alla partecipazione democratica.
Lo studioso e patriota milanese, a capo del Consiglio di Guerra durante le eroiche Cinque Giornate del 1848, resta un pensatore di difficile collocazione. Pur essendo stato definito uno “sconfitto” o un “dissidente” (cfr. Dotti 1975) del nostro Risorgimento, la sua attività di pensatore politico, di filosofo e di storico ha lasciato un influsso profondo non solo su Norberto Bobbio (cfr. Bobbio 1971), ma anche su figure quali Gaetano Salvemini e Piero Gobetti (cfr. Salvemini 1922; Gobetti 1924). Pensatore di grande originalità, Cattaneo va comunque inquadrato nella riflessione del suo tempo, ed in particolare nell’ambito degli sviluppi del liberalismo italiano del primo Ottocento, restio ad abbracciare i principi individualistici del liberalismo europeo (cfr. Meriggi 2011, p. 177). L’attenzione alle realtà municipali e alla loro forme di autogoverno è essenziale alla riflessione politica cattaneana proprio in relazione al tema delle libertà, ma era stata anche al centro delle discussioni tra i conservatori o tra i liberali moderati come Gino Capponi, inclini ad avversare le tendenze burocratiche e centralizzatrici che gli stati della Restaurazione tendevano a fare proprie, e a sottolineare il carattere “naturale” delle associazioni municipali, seguendo logiche paternalistiche. Queste riflessioni, pur nelle loro profonde differenze, trovavano nell’autogoverno locale la cellula fondamentale di una originale, futuribile, costruzione all’italiana che non si desiderava come mero ricalco di quelle nel frattempo affermatesi nell’Europa liberale, e che potesse essere la sintesi della «liberté des anciens» e di quella «des modernes», per citare il geniale saggio di Constant, conciliando «les partages du povoir sociale» dei cittadini delle antiche repubbliche con «l’indépendance individuelle», il primo bisogno dei “Moderni” (cfr. Meriggi 2011, pp. 173-174; Constant 2010, pp. 22-29).
In Cattaneo questi elementi troveranno una declinazione diversa, volta ad esaltare la partecipazione democratica, rifiutando quindi le sintesi elaborate in ambito moderato o conservatore. Per Cattaneo federare non significava scindere l’Italia in aristocrazie provinciali, ma unirla in un processo democratico che parte dalle istituzioni elementari (cfr. Rotelli 2004, p. 52; Ferrari 1852, p. 358, nota 1).
Le tendenze municipalistiche si collegano nel pensatore milanese alla necessità di lasciare libero gioco alle dinamiche sociali, quindi alla già menzionata idea dello stato come “grande transazione”: una visione che può essere realizzata solo nell’ambito di un’amplissima partecipazione democratica, legata alle autonomie locali. Come ha sintetizzato recentemente Corrado Malandrino: «L’istanza federale si collega nel suo pensiero al concetto di libertà, incisivamente definita come esercizio della ragione». L’ordinamento statuale «deve discendere dal mutuo consenso dei contraenti, premessa del mantenimento delle irrinunciabili autonomie e peculiarità» (Malandrino 2021, pp. 272-273). Solo il diritto federale permette di conciliare i benefici dell’autogoverno con i vantaggi della concordia e della pace, rappresentando: «L’idea della parità del diritto nella disparità delle forze» (Cattaneo 2021, p. 78).


Individuo, libertà, associazione

Cattaneo imposta il problema della libertà e della partecipazione democratica ponendo al centro della sua analisi l’individuo nella sua relazione concreta con gli altri individui, l’individuo associato (cfr. Cattaneo 1852, p. 6). Questo implica naturalmente una interrelazione tra riflessione politica e storica. Già Ludovico Limentani aveva sottolineato che l’individuo di Cattaneo non è «l’individuo astratto, bensì l’uomo, quale la storia lo ha foggiato nella sua famiglia, nella sua città, nella sua regione, nella sua nazione» (Limentani 1928, pp. 707-708; cfr. Lacaita 2021, p. 243)
Questa impostazione è coerente con la sua riflessione sulla formazione delle idee e sul processo di incivilimento. Nel suo saggio Psicologia delle menti associate Cattaneo mette in evidenza come lo sviluppo delle civiltà sia il frutto delle «facultà associate di più individui e di più nazioni» (Cattaneo 2016, p. 122). Vedere l’individuo in questa molteplicità di connessioni non significava naturalmente dissolverlo nella comunità nazionale o in altri simili aggregati. Cattaneo rimprovera per esempio a Giuseppe Ferrari (1811-1876), altra importante voce del pensiero democratico ottocentesco, una certa tendenza a far scomparire l’individualità nella sua visione della storia, senza che emerga una precisa e articolata comprensione della formazione sociale delle idee (cfr. Milano, Civiche Raccolte Storiche, Archivio, Fondo Carlo Cattaneo, cartella 17, plico III, n. 7, cc. 1v-2r).
In queste riflessioni Cattaneo rivela i suoi debiti verso il suo maestro Gian Domenico Romagnosi (1761-1835). Per Romagnosi, la libertà è essenzialmente assenza di ostacoli per conservarsi e perfezionarsi, ma anche padronanza, la capacità di essere padrone di sé e di agire sulle cose a proprio beneplacito. L’essere umano in Romagnosi resta comunque un essere socializzato, costretto nel suo progetto di felicità alla collaborazione con gli altri (cfr. Costa 2000, pp. 501-507 e il contributo di Teresa Serra in questo volume). Romagnosi valorizza le aggregazioni parziali di individui, visti nella loro concretezza storica (cfr. Costa 2000, p. 501), scrivendo infatti nel suo Dell’Indole e dei Fattori dell’Incivilimento con Esempio del suo Risorgimento in Italia (1832): «Tutto nell’ordine sì fisico che politico, tanto nel mondo della natura quanto in quello delle nazioni, procede incominciando dal piccolo e progredendo al grande. Conviene raffazzonare prima gli elementi; e indi passare ad aggregarli ed associarli» (Romagnosi 1957, p. 196). Questa tendenza a vedere le entità politiche nella loro formazione ed evoluzione concreta era stata ereditata da Cattaneo. Cattaneo guarda a come le istituzioni si formano nella libera associazione delle forze sociali. Come sottolinea Meriggi: «A derivarne, nella varietà delle declinazioni connesse nei decenni successivi, fu una fedeltà al federalismo non solo come formula istituzionale, ma più ancora come chiave di saldatura tra il primato della società civile (ovvero, della libertà) e la funzione di servizio rispetto ad esso delle strutture del pubblico potere» (Meriggi 2021, p. 16). La libertà repubblicana viene quindi in Cattaneo riconosciuta non solo all’individuo, ma anche alle entità collettive individuate per cultura, interessi, territorio, costumi e tradizioni, realtà associative, intese come cellule di base della vita politica.
La sua visione politica, radicata in un vivo senso storico, rivela una profonda originalità rispetto a pensatori britannici che sono stati considerati fondamentali nella formazione del suo pensiero, come ad esempio Jeremy Bentham (1748-1832). Bentham propose di dividere il Paese in contee o distretti di dimensioni approssimativamente uguali e di stabilire in ciascuno una “sotto-legislatura” (con un esecutivo responsabile) come autorità locale esclusiva (Bentham 1843, pp. 1471-1550). Queste aree sarebbero state suddivise in sotto-distretti per scopi amministrativi, ciascuno con un capo locale sotto lo stretto controllo dell’esecutivo distrettuale. Secondo il grande pensatore britannico una tale stretta subordinazione era essenziale, poiché qualsiasi confusione di responsabilità avrebbe reso più difficile per l’elettorato chiedere conto ai propri rappresentanti del loro operato. Una simile ristrutturazione su base razionale ma astratta è molto lontana dalla necessità di “costruire dal basso” (per dirlo con espressione alquanto approssimativa) le istituzioni politiche riscontrabile invece negli scritti di Cattaneo. Cattaneo esalta la libertà, senza però escludere le possibilità di interventi pubblici per eguagliare le sorti dei cittadini, differenziandosi anche in questo da Bentham (cfr. Ivaldi, Soliani, Repetto 2017). Egli scrive per esempio:


Così è: fra, il ricco padrone delle terre, delle case, e delle machine, e il povero giornaliero, senza terra, senza tetto, senza pane, deve per necessità intervenire un principio d’equità e di providenza publica, quali li vediamo luminosamente rifulgere nella legge romana. Il fondamento di tali providenze, qualunque siano, sarà sempre quello di eguagliare le sorti, eguagliando anzi tutto le intelligenze, dacché abbiamo visto qual perpetua corrispondenza sia tra li atti dell’intelligenza e l’acquisto delle ricchezze (Cattaneo 1960, p. 422).


Il pensiero di Cattaneo si distingue chiaramente anche da quello di John Stuart Mill (1806-1873), al quale il pensatore milanese è stato talvolta associato. Il tema dell’uguaglianza e dell’autonomia appaiono anche in questo caso dirimenti. Mentre secondo Mill alcuni popoli non sono preparati a gestire sé stessi e, pertanto, devono in primo luogo imparare ad obbedire (per questo anche la schiavitù può giocare un ruolo nel processo di civilizzazione; cfr. Mill 1991, p. 232), Cattaneo scrive nel 1862 nel Politecnico che tutte le nazioni «sono egualmente inviolabili; e non riconosciamo egemonie nel genere umano» (Cattaneo 1862, p. 383). Cattaneo esalta la padronanza, il controllo di sé stessi, la possibilità di gestire i propri affari e avere i propri pensieri, affermando «che l’arte della libertà è l’arte della diffidenza; che libertà è padronanza; e padronanza non vuol padrone» (Cattaneo 1850, p. 550). Il suo ruolo nell’insurrezione milanese del 1848 lo convinse della capacità e del potenziale dell’azione politica della gente comune (cfr. Cattaneo 2011; Della Peruta 1974, p. 66). Quindi Cattaneo si distingue non solo per il più vivo senso di concretezza storica, ma anche per una più forte fiducia nella spontaneità del popolo nella costruzione di nuove strutture politiche e nella capacità di gestire i suoi affari politici ed economici.
Il Cattaneo storico sottolineò l’importanza di guardare alle associazioni politiche nella loro concretezza, nel loro rapporto col territorio e la sua storia. Egli ripropose questo approccio anche dopo l’Unità. È indicativo che nella seconda delle sue lettere Sulla Legge Comunale e Provinciale (1864), Cattaneo scriva che:


Nella legge francese e nelle due o tre riproduzioni che se ne fecero in Piemonte, il concetto del comune venne capovolto e negato, perché non si considerò che il comune era un fatto spontaneo di natura come la famiglia; e si suppose che non esistette alcun diritto naturale dei comuni, né alcun limite giuridico al beneplacito dei legislatori. E parve doversi rimodellare ogni comune in certi modi uniformi, come quelli che spianavano il terreno al più rapido esercizio di un’intelligenza superiore (Cattaneo 1965, p. 423).


Questa visione ha la sua origine nell’idea che i popoli e le loro leggi sono indissolubilmente legati alla concretezza del processo storico dal quale hanno preso origine, e pertanto le amministrazioni e i sistemi legislativi non possono essere imposte dall’altro. Per tale ragione, la trasformazione amministrativa degli stati annessi al Piemonte non avrebbe dovuto annullare tutte le strutture politiche precedenti: «Dunque il buon senso consiglia che ad ognuno di quei sistemi si ponga vicino una istituzione che conservando tutto ciò che ai popoli è caro e prezioso, rimova quanto più sollecitamente si possa tutto ciò ch’è odioso e nocivo» (Cattaneo 1860, p. 284). Questo non significa vedere le realtà politiche o culturali o legislative come immutabili, ancorate in qualche supposta tradizione ancestrale che lega indissolubilmente esseri umani e territorio, ma che esse possono continuare a cambiare solo secondo il libero gioco delle associazioni, una trasformazione che il pensatore milanese incoraggia in senso progressivo, forte dell’associazione tra «verità e libertà» (Cattaneo 1861, p. 264). Dato l’indissolubile nesso tra ricerca della verità e libertà, Cattaneo sottolinea in particolare la necessità di dare al pensiero la possibilità di svolgersi liberamente: «L’estremo grado di avvilimento, a cui possa calare una nazione, è la servitù dell’insegnamento. Che resta ormai di libero all’uomo, quando il suo pensiero è schiavo?» (Cattaneo 1860, p. 222).


Libertà e democrazia

La riflessione sul ruolo della città nel processo di incivilimento della penisola, sullo sviluppo delle idealità repubblicane e dei valori dell’Umanesimo e della libertà intellettuale, sviluppata soprattutto nel suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane del 1858 (Cattaneo 2021), consente a Cattaneo di sottolineare come la possibilità di autogovernarsi, di perseguire consapevolmente i propri fini, di godere di quella padronanza che è capacità di autodeterminazione tanto per l’individuo quanto per le diverse forme di aggregazione sociale, siano essenziali allo sviluppo sia scientifico sia economico (cfr. Castelnuovo Frigessi 1993). L’analisi storica diventa quindi una premessa necessaria per creare un federalismo costruito per così dire dal basso, che si opponga a disegni politici che non costruiscono l’indipendenza e l’unità sulla base dell’uguaglianza delle diverse componenti politiche del nuovo Stato.
Il senso di libertà, di autonomia, di capacità di autodeterminare il proprio destino e di partecipare ad una dimensione associativa favorisce la nascita di valori condivisi per lo sviluppo della vita sociale e politica. In questo Cattaneo si pone in una linea di interpretazione antica, ma che era già stata rinvigorita nei primi decenni del secolo XIX da Sismondi:


Dove regna la libertà, il principio della forza e l’amor di patria; e questo amore non è mai così appassionato né penetra l’anima più profondamente, che quando la patria si trova chiusa entro stretti limiti ed entro il recinto delle stesse mura ci presenta la culla della tua infanzia, i testimoni, i compagni, i rivali tra i quali devi primeggiare nella carriera che unica ti è aperta, infine l’intero stato, di cui dividi la sovranità con i tuoi concittadini (De Sismondi , p. 26; cfr. Sonenscher 2018).


Sismondi esprime però ancora giudizi positivi sui governi aristocratici, mentre la visione cattaneana esalta l’importanza del confronto tra le diverse componenti sociali e il ruolo che in esse acquisisce il popolo: la sua visione è radicalmente democratica, di una democrazia che affonda le sue radici in un profondo senso di uguaglianza tra gli esseri umani. Cattaneo aveva mostrato anche in precedenza, nella sua analisi dell’egemonia sociale dell’aristocrazia britannica al principio del secolo XIX, l’importanza di tenere sotto controllo grazie al potere politico democratico lo strapotere dei ceti sociali privilegiati. Cattaneo aveva sviluppato questa linea di pensiero già in uno saggio inedito in inglese, redatto nel 1834 (forse scritto con l’aiuto della sua futura moglie Anna Woodcock), nel quale affermava «if one class gets the upperhand with the other all the social edifice is brought on the brink of ruin» (Murray 1959, p. 628). Questa degenerazione era stata evitata nella storia d’Italia proprio grazie a quello spazio di confronto sociale e di costruzione di nuove forme di organizzazione socioeconomiche rappresentato dalla città. Si ritorna quindi alla citazione di Bobbio con la quale ho aperto questo saggio, sulla “transazione” come dinamica che caratterizza per Cattaneo le entità politiche: quindi non uno stato immobile, consolidato in una stasi del pensiero e dell’azione, ma uno stato caratterizzato invece dal libero sviluppo di quelle “antitesi” che Cattaneo vedeva alla base del progresso civile e scientifico (cfr. Cattaneo 2016, pp. 170-171 e pp. 179-192). I contrasti politici e sociali, quando riescono a ordinarsi in una dinamica non distruttiva, costituiscono una molla essenziale del processo di incivilimento. Nelle Varietà chimiche per i non chimici Cattaneo scrive:


Le plebi italiane, ordinate in comuni liberi, ricchi, animosi, armigeri, addestrate al commercio di tutto il continente, nella navigazione di lontani mari, nelle pratiche d’un’industria progressiva, ingentilite da poeti popolari, da baldanzosi novellatori, educarono nel loro consorzio la dottrina alla dura prova della contraddizione vulgare ed ai dettami del senso comune (Cattaneo 1969, pp. 257-258; cfr. Lacaita 2004).


Questa enfasi sulle “antitesi” quali naturale antidoto contro la pigra acquiescenza alla tradizione rivela una visione nella quale la democrazia non può essere separata dalla partecipazione, dalle capacità di gestirsi ed autodeterminarsi dei vari gruppi sociali (per tornare alla mia introduzione, conciliando la libertà degli Antichi con quella dei Moderni). Cattaneo collega indissolubilmente libertà e democrazia, in un’unione che può essere perfettamente garantita solo dal principio federativo. Solo lo sviluppo della vita politica locale garantisce la libertà, come Cattaneo scrive nel suo celebre scritto sulla circolare del ministro Luigi Carlo Farini sul riordinamento amministrativo: «A noi pare che anche allora l’unità dello Stato si sarebbe dovuta coordinare coll’alacre sviluppo della vita locale, e colla soda libertà» (Cattaneo 1860, p. 257). L’esigenza di un’ampia base democratica per la vita amministrativa e legislativa del paese emerge nella sua critica alla legislazione piemontese che accompagnò la formazione dello stato unitario. Cattaneo paragonava sfavorevolmente la legislazione sull’ordinamento dei comuni e delle province alla riforma degli ordinamenti municipali dello Stato di Milano del 1755, introdotta sotto l’autorità dell’imperatrice Maria Teresa, parzialmente ripristinata nel Lombardo-Veneto nel 1816 (cfr. Rotelli 1978, p. 35). Lo studioso milanese apprezzava la partecipazione politica della popolazione locale consentita dalla legge del Lombardo-Veneto. Disponeva infatti l’articolo 1 della legge del 1755 che «in ciascheduna Comunità dovrà stabilirsi un Convocato di tutti i Possessori Estimati descritti nelle tavole del nuovo estimo, e in questo Convocato legittimamente adunato dovrà riunirsi e consolidarsi la facoltà di deliberare e disporre delle cose comuni» (Rotelli 1978, p. 35). Nella legge del 1755, coloro i quali pagavano il testatico, appunto una forma di imposizione fiscale per testa, e coloro i quali pagavano la tassa mercimoniale, imposta sui capitali trafficati, potevano eleggere un rappresentante per ciascun gruppo, considerati da Cattaneo rispettivamente come rappresentanti del lavoro e del commercio (cfr. ivi, pp. 37-39). Anche se questa appare ai nostri occhi una ben limitata forma di coinvolgimento popolare, non era necessariamente peggiore di quanto stabilito dalle politiche centraliste dell’Italia post-unitaria, dove la partecipazione politica era basata su criteri censitari. Nel già ricordato scritto sulla circolare del ministro Farini, Cattaneo afferma che i sindaci e i gonfalonieri dei villaggi dovrebbero essere nominati dagli abitanti (cfr. Cattaneo 1860, p. 260). Egli sottolinea inoltre la necessità di un’attività legislativa locale oltre che centrale (cfr. ibidem). A fondamento di tali proposte vi è la critica al pregiudizio che l’unità possa esistere solo se calata dall’alto: anche la «forza spontanea» dei popoli può condurre ad una comune legislazione nazionale e ad una pacifica vita pubblica, collegando così libertà e concordia, come sottolinea nella Prefazione al volume X del Politecnico (Cattaneo 1861, p. 268).
Ciò si mostra in linea con le riflessioni preunitarie di Cattaneo, che infatti scriveva a Ferrari nel 1851: «Ti ripeto che bisogna contrappore la federazione alla fusione e non all’unità, e mostrare che un patto fra popoli liberi e la sola via che può avviarli alla concordia e alla unità: ma ogni fusione conduce al divorzio, all’odio» (Cattaneo 1952, p. 113). Il principio federativo concilia libertà e concordia. L’autogoverno delle comunità locali è essenziale per garantire la loro libertà, per porre dei limiti ad un’amministrazione centrale altrimenti dispotica e lontana dai bisogni dei cittadini:


I molteplici consigli legislativi, e i loro consensi e dissensi, e i poteri amministrativi di molte e varie origini, sono condizioni di libertà. La libertà è una pianta di molte radici [...] Quando ingenti forze e ingenti ricchezze e onoranze stanno raccolte in un pugno dell’autorità centrale, è troppo facile costruire o acquistare maggioranza d’un unico parlamento. La libertà non è più che un nome; tutto si fa come tra padroni e servi (Cattaneo 1860, p. 222).


Il federalismo è per Cattaneo essenzialmente il presidio della libertà e della democrazia. Come aveva giustamente fatto notare Norberto Bobbio, l’autonomia è per Cattaneo: «incremento di libertà politica, nella direzione di una genuina democrazia, poiché una maggior partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica era da questa molteplicità dei centri autonomi presupposta e promossa» (Cattaneo 1945, pp. 85-86; cfr. Greco 2000, pp. 65-66). La vera unità, un’unità nella concordia e non nella subordinazione, nell’oppressione, si può avere solo in questa forma federativa: la teoria della federazione diventa una “teoria della libertà” che si oppone allo stato unitario, burocratico e assoluto.
L’uguaglianza e la partecipazione democratica erano condizioni necessarie per lo sviluppo di questa federazione, e per una unità che non fosse stata volontà di un determinato gruppo di potenti di espandersi a spese negli altri, come leggiamo nel primo volume dell’Archivio Triennale delle cose d’Italia dall’avvenimento di Pio IX all’abbandono di Venezia (1850):


i popoli sono maledetti dai popoli per colpa dei loro padroni. Le discordie, che tanto si vantano, delle repubbliche del medio evo, erano della medesima natura, perché nessuno allora si era posto in mente di collegar le città in nazione; e di più vi soffiava il pontefice da una parte, e vi aveva braccio l’imperatore dall’altra; perché i prelati e i baroni abitavano le repubbliche come forestieri, pronti a sconnetterle e a turbarle, non a obbedirle e difenderle (Cattaneo 1850, p. 556).


Forza del corpo sociale e partecipazione democratica sono indissolubilmente legate: analizzando i turbolenti avvenimenti del 1848-49, Cattaneo scrive che: «il primo principio di forza nelle cose umane è la volontà, e non il numero degli uomini che da quella volontà dipende» (ivi, p. 554). È quindi essenziale che «chi comanda abbia la medesima volontà, o a parlare più mondano e più vero, i medesimi interessi di chi obbedisce» (ivi, p. 555), affermazione che mi sembra espressione di una esigenza radicale, priva di compromessi, di democrazia.
La riflessione cattaneana su libertà e democrazia si muove in una direzione essenzialmente contraria alle forme che lo Stato unitario assunse nei fatidici anni che seguirono il 1861. Cattaneo si oppone alla burocratizzazione e centralizzazione, invoca maggiore partecipazione e controllo della cosa pubblica da parte dei comuni cittadini, a cominciare dalle realtà a loro più vicine, le realtà locali. La riflessione del grande milanese è un tentativo di elaborare una nuova visione della costruzione dello Stato che si fondi appunto sull’idea che «chi comanda abbia la medesima volontà... di chi obbedisce». A oltre centocinquant’anni dalla sua morte, la democrazia italiana può ancora trarre beneficio dalle riflessioni di un pensatore che non poté essere utilizzato da nessuna forma di autoritarismo.


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