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L’artificio della libertà. Beccaria filosofo civile

Dario Ippolito
Articolo pubblicato nella sezione "Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana tra ’700 e ’800"
a Gianni Francioni,
generoso maestro

Introduzione

La scelta di un bel titolo può contribuire a dare slancio alla notorietà di un’opera (... magari persino a farla leggere). Il successo di un’opera può provocare il gusto letterario delle variazioni sul fraseggio del titolo. Di entrambi le possibilità è esemplificativo il caso della grande monografia di John Pocock sull’umanesimo civico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone: The Machiavellian Moment (1975). Quanti autori - prima e dopo Pierre Rosanvallon (1985) - hanno ceduto all’attrazione mimetica, dandosi al gioco della riformulazione? È di qualche lustro fa un libriccino, nitido e sapido, in cui Michel Porret (2003) ha tratteggiato l’immagine storiografica di un “momento Beccaria”, maturato attraverso la circolazione internazionale delle idee riformatrici Dei delitti e delle pene. Recentemente, l’evocativa espressione - di certo calzante e felicemente pregnante - ha ispirato il titolo di una ricca collezione di studi pubblicata da Philippe Audegean e Luigi Delia: Le Moment Beccaria. Naissance du droit pénal moderne (2018).
Beccaria, dunque, quale nome-simbolo di un processo storico, di un contesto culturale, di un orizzonte ideale; Beccaria dopo Machiavelli: l’accostamento è forse inaspettato, ma non è il capriccio degli studiosi ad averlo generato. In effetti, quale altro scrittore politico italiano, in età moderna, ha prodotto opere altrettanto rilevanti per forza diffusiva, influenza teorica e incidenza pratica? Se il nome di Beccaria si presta (e si presta bene) a simboleggiare una costellazione di dibattiti e lotte civili, di polemiche e proposte operative, di riflessioni e realizzazioni che hanno caratterizzato un’epoca di “distruzione creatrice”, è perché Dei delitti e delle pene ha stimolato quei dibattiti e innescato quelle lotte, ha rafforzato la contestazione dell’ordine vigente e ispirato progetti di riforma radicale, ha alimentato la riflessione sulla legislazione e orientato l’azione dei legislatori. Consideriamo, ad esempio, i documenti costituzionali scaturiti dalle grandi rivoluzioni del tardo Settecento: esaminandone il contenuto prescrittivo ci rendiamo facilmente conto che l’insieme delle norme fondamentali sui limiti del potere punitivo è strettamente correlato alle dottrine illuministiche del diritto penale. Ebbene, al centro di quell’intensa e fecondissima attività di elaborazione dottrinale si colloca, indiscutibilmente, il pamphlet giuspolitico di Beccaria.
Ciononostante, gli studiosi del costituzionalismo e i filosofi della politica non sono soliti interessarsi al pensiero eterodosso di questo potente critico del sapere giuridico e del potere dispotico. Uno dei motivi del disinteresse prevalente risiede forse nel difetto di consapevolezza della centralità costituzionale e della valenza politica del sistema dei reati e delle pene. Eppure, la veridica lezione di Montesquieu dovrebbe essere, da tempo, patrimonio culturale consolidato e comune: «è [...] dalla bontà delle leggi penali che dipende principalmente la libertà del cittadino» (Montesquieu 2014, XII, 2, p. 1281). Ha scritto Judith Shklar che è proprio la comprensione - illuminante - del rapporto tra libertà individuale e legalità penale ad accreditare «Montesquieu come uno dei maggiori pensatori liberali» (Shklar 1990, p. 93). Per quanto non unanime, si tratta di un giudizio largamente condiviso. Chi ritenesse di poterlo estendere a Beccaria, in ragione del suo decisivo ed epocale contributo alla tematizzazione di quel cruciale problema politico, solleverebbe certamente più dissensi. “Liberale” è termine polisemico, fortemente equivoco, che a molti appare anacronistico se riferito all’orizzonte ideologico di un riformatore del secolo XVIII. Conviene, pertanto, evitare classificazioni incongrue e aggettivazioni controverse, per non attardarsi in dispute meramente linguistiche e in effimere definizioni stipulative. Quel che importa è comprendere la portata normativa del pensiero di Beccaria: accedere alla dimensione politica della sua filosofia del diritto.


Libertà e ordine legale

In via di approssimazione, possiamo mettere a frutto le categorie analitiche elaborate da Mario Albertini nell’ambito delle sue indagini sul federalismo. In ogni discorso valutativo e normativo finalizzato a incidere sull’ordine della convivenza civile e sulla fisionomia del potere pubblico - cioè in ogni dottrina politica - è possibile distinguere (ed esaminare la coesione tra) un aspetto di valore, un aspetto di struttura e un aspetto storico-sociale (cfr. Albertini 2007). L’aspetto di valore consiste nell’obiettivo accreditato come bene da perseguire; l’aspetto di struttura consiste nella prefigurazione dell’assetto istituzionale adeguato al suo raggiungimento; l’aspetto storico-sociale consiste nell’individuazione delle condizioni di realizzabilità del fine perseguito attraverso il mezzo prefigurato. Se ci accostiamo all’opera di Beccaria con questi strumenti di osservazione, possiamo riconoscere (1) nella libertà l’aspetto di valore della sua ideologia, (2) nel governo delle leggi l’aspetto di struttura, (3) nell’eversione dell’ordine giuridico esistente l’aspetto storico-sociale.
(1) Nei 47 capitoletti in cui è scandito il testo dei Delitti il riferimento alla libertà come ideale politico e bene individuale è costante. In molte delle sue occorrenze, la parola è utilizzata in dicotomie ed endiadi, polarizzazioni e associazioni particolarmente eloquenti. Da un lato, è contrapposta a “tirannia”, “dispotismo”, “soggezione”, “anarchia”, “schiavitù”; dall’altro è congiunta a “vita”, “sicurezza”, “uguaglianza”, “felicità”, “lumi”. Tra i 51 enunciati in cui il termine compare, spiccano due luoghi che consentono di cogliere immediatamente e pienamente la carica assiologica del discorso: a) il primo capoverso dell’opera, dove Beccaria innalza la libertà individuale a ragione sociale del consorzio civile; b) il capitolo XX, dove la condizione di esistenza della libertà è ancorata al riconoscimento (giuridico) della dignità umana, nella summa divisio (etica) tra le persone e le cose.
(2) La valorizzazione dell’ordine legale come strumento di liberazione degli individui dall’imprevedibilità delle azioni altrui e dalla precarietà di un’esistenza minacciata dalla violenza costituisce il punto di partenza del discorso di Beccaria. “Leggi” è la parola che apre il capitolo iniziale; “leggi” è l’ultima parola della “Conclusione” (cfr. Audegean 2014, p. 89). Nella “dipendenza delle leggi” (Beccaria 1984, XVI, p. 67) – unica locuzione in cui il termine “dipendenza” non si impregna di disvalore – Beccaria ravvisa il presupposto della realizzazione non polemogena dei fini soggettivi. Indipendenti da regole comuni, gli uomini patiscono i pericoli di un conflitto permanente; dipendenti da poteri sregolati, gli uomini patiscono i mali della soggezione all’arbitrio. Il principio di legalità consente di evitare l’infelicità di entrambe le condizioni: «dal trono fino alla capanna», l’obbligo di obbedire alle leggi «lega egualmente e il più grande e il più miserabile fra gli uomini» (Beccaria 1984, III, p. 34).
(3) Dove l’ordinamento giuridico non è formato da norme legali, generali, conoscibili e comprensibili da parte dei destinatari, vigoreggiano i signori del diritto, la cui discrezionalità potestativa è incompatibile con la libertà: questo è il convincimento di fondo che innerva la critica demolitoria di Beccaria verso il diritto di matrice sapienziale, giurisprudenziale e tradizionale. In contrasto all’eulogia del diritto romano come ratio scripta, i Delitti propongono al lettore l’immagine dissacrante di una vetusta collezione di ruderi normativi estranei alla civiltà dell’Europa moderna; all’autolegittimazione dei giuristi come sacerdoti della giustizia, oppongono l’irrisione dei «privati ed oscuri interpreti» che in «farraginosi volumi» contrabbandano le opinioni dottrinali per leggi (Beccaria 1984, “A chi legge”, p. 17); a fronte dell’ideologia giuridica e politica dei togati, affermano un modello di giurisdizione ridotta ad attività cognitiva di individualizzazione e concretizzazione di norme di legge per mezzo del ragionamento deduttivo (cfr. Beccaria 1984, IV, p. 36-37). Il dispositivo di demolizione e rifondazione dell’ordine giuridico è chiaramente indicato nella codificazione (cfr. ivi, p. 38).
Questa caratterizzazione sommaria di alcuni profili fondamentali dell’ideologia di Beccaria ci consente un primo inquadramento della figura della libertà che campeggia nel suo disegno del diritto secondo ragione. Ora occorre metterla a fuoco, definendone i contorni e i colori. A tal fine, procederemo a una connotazione per contrasto, ristabilendo le connessioni tra gli aspetti che abbiamo appena distinto. È proprio nella determinazione del rapporto con l’ordine legale, infatti, che l’ideale di Beccaria si forma e si sostanzia: differenziandosi, da un lato, dalla concezione della libertà come potere di darsi la legge, dall’altro, dalla concezione della libertà come potere in assenza di legge.
Che la libertà consista nel partecipare alle decisioni che governano le nostre azioni è un’idea regolativa che affonda le radici e trova alimento nel repubblicanesimo classico; che lungo il medioevo e l’età moderna accompagna i successi e resiste alle sconfitte delle istituzioni rappresentative; che nell’Europa del XVIII secolo riscalda i cuori e conquista le menti di scrittori ed attori politici. Alla schiera di costoro non appartiene Beccaria. Nella sua assiologia, libertà non vuol dire autonomia. Diversamente da Rousseau, egli non esige che le leggi siano deliberate dal corpo politico nella sua integrità; non pensa ai cittadini come titolari in solido della sovranità (cfr. Rousseau 1994, I, 6, p. 94). La condizione della libertà individuale, dal suo punto di vista, non consiste nell’appartenenza all’assemblea popolare che esercita il potere di legiferare; l’eteronomia delle prescrizioni legali di un’autorità monocratica o di un collegio elitario non comporta la degradazione dei sudditi in servi (cfr. Ippolito 2014, pp. 595-600). Quando Beccaria parla di libertà politica non si riferisce al diritto del cittadino di concorrere alla produzione delle norme a cui deve prestare obbedienza. Seguendo il lessico di Montesquieu (cfr. Ippolito 2021, pp. 20-25), egli chiama libertà politica la condizione soggettiva che in seguito - fino ai nostri giorni - sarà chiamata libertà civile (locuzione assente nei Delitti, benché non estranea al linguaggio dell’epoca).
Distante dall’ideale rousseauiano delle libertà come autonomia, la concezione di Beccaria può considerarsi antipodica rispetto all’idea hobbesiana (poi recuperata e rimodellata da Bentham) della libertà come assenza di leggi (cfr. Barberis 1999, pp. 69-73). Rimossa dal vertice della gerarchia dei valori politici, la libertà si profila, nella dottrina del Leviathan, in due forme specifiche (distinte ma concettualmente omologhe). Nello stato di natura, è il diritto che ognuno ha di agire in base alla propria volontà, perseguendo il proprio interesse, in ogni circostanza (cfr. Hobbes 2011, I, 14, pp. 134-135). Nello stato civile, è la facoltà del suddito di scegliere come agire nello spazio residuo delle condotte non disciplinate dal sovrano (cfr. Hobbes 2011, 2, 21, pp. 222-236). La norma legale, dunque, è posta in contrasto alla libertà individuale: dove c’è la prima, la seconda scompare. Il soggetto è libero quando il legislatore è silente.
Al contrario, Beccaria pianta l’albero della libertà sul terreno della legalità positiva. La sua filosofia civile si impernia e agisce sul paradigma dottrinale - esemplarmente rinnovato da Montesquieu - della libertà attraverso il diritto. Nell’«azione universale su tutte le cose», esperibile dove la forza soggettiva è sregolata, Beccaria non vede un diritto di natura, ma un dato di fatto (Beccaria 1984, VIII, p. 48); una bruta realtà incompatibile con la libertà. L’aspirazione degli uomini a essere liberi può realizzarsi solo nell’impegno reciproco a rinunciare alla «funesta libertà di far male altrui» (Beccaria 1984, XLII, p. 123), nell’accettazione comune di osservare le regole necessarie alla convivenza. In questa prospettiva, è proprio l’esistenza della legge statuale a rendere possibile il godimento della libertà.
In assenza di leggi, infatti, la libertà è «resa inutile dall’incertezza di conservarla» (Beccaria 1984, I, p. 25). A cosa serve il potere di far tutto ciò che vogliamo se intorno a noi tutti possono agire come vogliono? Chi può sentirsi padrone del proprio destino nella continua incombenza di qualsiasi interferenza? Come pensare e progettare il domani - guardare oltre l’istante successivo al presente - quando ogni azione è esposta al rischio della collisione? Nella sregolatezza dei rapporti intersoggettivi, gli uomini sperimentano l’infelicità di un «continuo stato di guerra» (Beccaria 1984, I, p. 25). La loro esistenza è condizionata dal timore della violenza. Certo, non conoscono il “tormento dell’eteronomia”: ma possono dirsi liberi?
È significativo che Beccaria, rivedendo il testo dei Delitti in vista della terza edizione, abbia scelto di cambiare un aggettivo del brano in cui rappresenta la condizione umana prima del patto sociale: gli «uomini liberi» della versione originaria diventano «uomini indipendenti» (Audegean 2021, p. 171). «Bisogna avere chiaro in mente cosa sia l’indipendenza e cosa sia la libertà», aveva prescritto Montesquieu nell’Esprit des lois (2014, XI, 3, p. 1217). Al di là delle oscillazioni linguistiche, Beccaria traccia un confine netto tra questa e quella. Se nel subbuglio sentimentale del povero delinquente che si ribella alla legge lo «stato d’indipendenza naturale» è un’attraente ipostasi del desiderio (Beccaria 1984, XXVIII, p. 92), l’uomo razionale è perfettamente consapevole che quell’«inutile libertà» gli nuoce (Beccaria 1984, XLII, p. 123): lo priva del controllo sulla sua vita; lo imprigiona in una gabbia invisibile di costrizioni e impedimenti imprevedibili. Evidentemente la libertà è altrove (ed è altro). È una conquista della ragione, della ponderazione dei costi e dei benefici: se eliminiamo dall’insieme delle nostre libertà naturali il sottoinsieme delle facoltà il cui esercizio reca danno agli altri, tutto ciò che resta – gran parte dell’insieme originario – sarà finalmente oggetto di effettivo e pieno godimento. È questo il calcolo dell’interesse individuale sotteso al contratto sociale. Per essere sicuri di essere liberi dobbiamo statuire un sistema di regole di condotta; dobbiamo conformare le nostre azioni ai limiti e ai vincoli imposti, sulla base del patto, dall’autorità che decide il diritto.
Beccaria mutua da Montesquieu la nozione di libertà politica perché al pari di Montesquieu pensa la libertà come artificio della politica: come prodotto dell’ordine civile modellato dalle leggi. Nelle definizioni implicite della libertà riscontrabili nei Delitti echeggiano sempre, limpidamente, le stipulazioni semantiche dell’Esprit des lois. Inattingibile dove tutto è lecito a tutti, la libertà si profila come la situazione giuridica di chi è sicuro di poter agire entro la sfera del non vietato e del non vincolato, senza patire ingerenze illecite né da privati né da organi dello Stato. Ecco allora che la relazione che la libertà intrattiene con le leggi si sfaccetta. Certo, condizione necessaria della sua tutela è la loro esistenza: tuttavia questa non basta ad assicurare quella. Neppure l’efficacia e l’effettività delle leggi integrano in modo esaustivo il complesso delle condizioni sufficienti. La sicurezza della libertà dipende altresì dal vigore del principio di legalità (che dev’essere rispettato dall’autorità) e dalle scelte normative del legislatore (che devono rispettare la persona). Si comprende così la centralità che assume, nei Delitti, il valore strumentale della certezza del diritto. Non solo. Il collegamento concettuale tra libertà, legge positiva e sicurezza soggettiva rende manifesta la dimensione intrinsecamente politica del discorso di Beccaria sui divieti, i giudizi e le sanzioni penali. La sua filosofia del diritto si affila nella critica del potere.


Libertà e diritto penale

Che cos’è il diritto penale? Rivolgendo la domanda a un giurista, forse ci sentiremo rispondere che è un insieme di norme proibitive e sanzionatorie. Uno scienziato della politica potrebbe spiegarci che è una modalità di governo della società. Da un sociologo potremmo apprendere che è un dispositivo di consolidamento della morale dominante. Se però assumiamo il punto di vista dell’individuo che Beccaria colloca al centro dell’universo politico, l’accento della risposta cadrà su un altro profilo della realtà.
Nella fictio mentis dello stato di natura, siamo - lo sappiamo - indipendenti. Nessuno ha diritto a condizionare il nostro modo di agire. Di fatto, però, tutti possono condizionarlo: in qualsiasi momento, con qualsiasi mezzo. Siamo indipendenti, ma stanchi dell’indipendenza. Vogliamo liberarci dalla paura dei condizionamenti e dal condizionamento della paura. Vogliamo mettere fine alla guerra e goderci la libertà in «sicurezza e tranquillità» (Beccaria 1984, I, p. 25). Stipuliamo quindi una sorta di trattato di pace: ci impegniamo alla reciproca inoffensività e alla comune ubbidienza a un’autorità cui affidiamo il potere di regolare la nostra convivenza. L’esperienza del mondo, però, ci ha resi consapevoli dei vizi dell’uomo. L’impegno a osservare le leggi dettate dall’autorità non basta a frenare il contrasto violento degli interessi. Occorre accrescere e rinforzare l’interesse a osservarle. Alla loro infrazione deve conseguire una reazione istituzionale tale da rendere l’inosservanza meno vantaggiosa dell’obbedienza; una reazione di tipo punitivo funzionale a disincentivare il compimento delle azioni vietate. Così, attraverso la comminazione e l’irrogazione di sanzioni nei confronti dei trasgressori, garantiamo l’effettività delle leggi che assicurano la nostra libertà. Ai nostri fini, pertanto, la pena è una necessità.
Ora non siamo più indipendenti. Per sottrarci al dominio del più forte che pericolava su di noi nello stato di natura, abbiamo pattuito di estromettere la forza dai rapporti privati, di gestirla in regime di monopolio pubblico, di regolarne l’uso legittimo. Fuggendo un’esistenza resa precaria dalla conflittualità, abbiamo riconosciuto la necessità della legge penale come modalità di contenimento della violenza. Ma la nostra ragione, allenata alla diffidenza, ci avverte subito di un nuovo pericolo. La legge penale, infatti, porta in sé il male a cui apporta rimedio. Contiene la violenza nel duplice senso che la limita e che la incorpora: la limita, in quanto la incorpora. Se è vero che non possiamo permetterci di farne a meno, non possiamo neppure farci illusioni: proibizioni e sanzioni sono decisioni assunte da uomini. Da uomini dotati di potere. Chi ci assicura che quel potere sarà esercitato allo scopo per il quale lo abbiamo creato? E cosa mai, più del potere di decidere come, quando e perché punire, incide sulla sfera di immunità e facoltà in cui consiste la nostra libertà? È un’incidenza diretta, profonda: un’incidenza che può essere dolorosa. Risulta evidente, dunque, la gravità del rischio di fronte al quale ci troviamo. Dobbiamo addomesticare la bestia artificiale che abbiamo messo a guardia della nostra persona e dei nostri beni (altrimenti potrebbe sbranarci). Occorre un sistema di limiti e vincoli che ci protegga dalla ferocia e dalla voracità del potere punitivo.
È sullo sfondo di questa consapevolezza che la riflessione sulla civitas scopre, come problema, il tema dei delitti e delle pene (cfr. Costa 1999). Esibendo il suo debito nei confronti di Montesquieu, Beccaria conduce la filosofia dei Lumi a occuparsi delle garanzie giuspolitiche della libertà individuale e a preoccuparsi delle degenerazioni dispotiche del potere, che si manifestano in forma di divieti esorbitanti, inquisizioni vessatorie, carcerazioni arbitrarie, accuse segrete, decisioni infondate e punizioni smodate. In un’acutissima lettura dei Delitti, Philippe Audegean ha recentemente rimarcato il valore civile di questa dottrina penale: se nel capitolo che apre l’opera Beccaria ci presenta la pena come strumento necessario alla difesa «dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare» (Beccaria 1984, I, p. 25), il discorso che segue è tutto centrato sui «principi [...] diretti a difendere il cittadino [...] dal magistrato penale [...] e dal sovrano legislatore. È una svolta rivoluzionaria, la cui intima, profonda coerenza è stata brillantemente messa in luce da Luigi Ferrajoli. Se l’ordinamento penale ha la funzione di ridurre la violenza, coerentemente deve in primis ridurre la propria violenza, quella dei propri strumenti di normazione e coazione» (Audegean, 2021, p. 172).
Ognuno di questi strumenti urta la libertà in una qualche sua dimensione. Lo strumento del divieto penale stigmatizza come reati un catalogo di atti di esercizio delle nostre facoltà. Lo strumento del processo penale ci costringe alla difesa dal potere accusatorio e ci assoggetta alle decisioni del potere giudiziario. Lo strumento della sanzione penale giunge a investire le nostre immunità fondamentali. Di questi inevitabili impatti non possiamo sottovalutare i temibili effetti. Le interdizioni legali sono indubbiamente necessarie alla convivenza civile, ma la loro latitudine può ben oltrepassare il criterio della necessità. Le procedure giudiziarie sono evidentemente l’unico modo per accertare la responsabilità dei reati, ma la loro organizzazione può facilmente togliere all’innocente «l’opinione della propria sicurezza» (Beccaria 1984, XXIX, p. 95). La minaccia delle pene può anche tranquillizzarci circa il rispetto delle regole: ma come ignorare l’eventualità della loro irrogazione immeritata e la loro natura di violenza istituzionalizzata?
Ammessa la necessità del potere punitivo, Beccaria si confronta con la terribilità del suo apparato coercitivo. Tenendo fermo il primato assiologico della persona, ricava dai postulati utilitaristici della sua antropologia e dagli assunti contrattualistici della sua dottrina politica i principi e le regole di una nuova scienza della legislazione penale. Con il suo approccio epistemico e il suo piglio nomotetico, il giovane philosophe rovescia i dogmi del sapere giuridico. Sviluppa un discorso de iure condendo, che si confronta con lo ius conditum e ne prefigura il superamento. Attraverso la critica della ragion criminale, elucida i canoni di politica del diritto che devono orientare l’azione legislativa. Ribaltando il punto di vista consueto nel genere tradizionale dello speculum principis, propone un esigente speculum legislatoris, in cui le funzioni potestative dello Stato e le regole della convivenza sociale sono riguardate (giustificate o delegittimate) ex parte civium.
Di quali norme proibitive abbiamo bisogno? Come procedere ad accertarne la violazione? A che scopo e in che modo punire i trasgressori? Nel rispondere a queste domande cruciali, Beccaria ridefinisce il diritto penale come sistema di garanzie delle aspettative di non lesione su cui riposa la sicurezza della libertà. La sua dottrina del reato mira a un drastico restringimento del dominio dei divieti, condizionandone la legittimità alla stretta necessità di dissuadere dalla commissione di atti socialmente dannosi: «non può essere chiamata delitto, o punita come tale» (Beccaria 1984, VI, p. 42) un’azione che non offende materialmente interessi collettivi o individuali. La sua dottrina della pena mira a ridurre al minimo necessario (alla deterrenza) l’afflittività delle sanzioni e a liberare gli individui dalla minaccia di abnormi violenze penali: la punizione, predeterminata dalla legge, «dev’essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si siano voluti assoggettare ai minori mali possibili» (Beccaria 1984, XIX, p. 71). La sua dottrina del processo mira ad assicurare il diritto di difesa dell’imputato, tutelando la sua libertà personale da restrizioni indebite, immunizzando il suo corpo e la sua coscienza da coartazioni oppressive, rifondando la giurisdizione penale sul principio di presunzione di innocenza: «Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza di un giudice» (Beccaria 1984, XVI, p. 25).
Se consideriamo la portata liberale e il carattere metalegislativo dei principi affermati da Beccaria, capiamo bene le ragioni per cui l’esigenza di limitazione del potere penale, maturata nella filosofia dei Lumi, è diventata un pilastro del diritto costituzionale.


Libertà e contratto sociale

In quel gioiello di intelligenza critica e storiografica che è l“Introduzione” di Alberto Burgio alla sua bella edizione dei Delitti, leggiamo: «Certo Beccaria fa menzione di un contratto sociale. Il suo tempo lo voleva, e le sue fonti essenziali - non solo Rousseau ma lo stesso Helvétius - sembravano suggerirgliene la necessità. Parla di “patti”, di “convenzioni”, di “obbligazioni”: delle forme, appunto, che disegnano la struttura razionale di una società. Ma non ci si deve ingannare. Ciò che tali forme legittima e muove o scuote e dilacera è altro» (Burgio 1991, p. 17).
Taglio qui la citazione, lasciando al lettore il gusto di scoprire cosa è quell’altro su cui l’interprete accende il faro della sua analisi. Ciò che mi interessa vagliare è il lato negativo dell’avvertimento ermeneutico: lo sminuimento del significato dell’opzione contrattualistica nella logica del discorso di Beccaria. Possiamo senz’altro convenire con Gianni Francioni sul fatto che «il quadro filosofico di fondo - la filosofia che propriamente circola nel fortunato pamphlet - è costituito dalla teoria utilitarista di Helvétius» (Francioni 1990, p. 69). Ma è Francioni stesso a sottolineare che la «tematica [...] dell’opera», tratta da Montesquieu, è connessa a un «contrattualismo fondamentalmente lockiano», attraversato da «suggestioni e immagini che provengono da Grozio, Hobbes e Rousseau» (ibidem). Se prendiamo in esame i contributi di altri studiosi autorevoli, come Audegean (2010), Costa (2014 e 2015), Porret (2003), Birocchi (2002) etc., possiamo osservare che, al di là delle importanti divergenze interpretative, tutti prendono sul serio la dottrina del contratto con cui Beccaria si presenta al lettore sulla soglia dell’opera. Si sono lasciati ingannare dalle apparenze di un abito indossato per moda?
In realtà, è discutibile che la moda lo imponesse. Non è marginale, nel secondo Settecento, la voce dei filosofi che, nel riflettere sulla genesi e il fondamento dello Stato, rifiutano lo schema triadico “stato di natura/patto sociale/società civile”, recuperando e rielaborando l’antico paradigma aristotelico. Strutturalmente aperto a inglobare e ordinare ogni processo evolutivo dell’organizzazione sociale, tale modello consente infatti quel connubio tra filosofia politica e storia filosofica in cui prende forma il tentativo illuministico di comprendere (per padroneggiare) i meccanismi di trasformazione della realtà. Men che meno possiamo trascurare l’estraneità totale, rispetto al lignaggio contrattualistico, della prolem sine matre creata di Montesquieu, poiché la profonda e duratura influenza dell’Esprit des lois ha plasmato - come poche altre opere - il lessico, la sintassi e la morfologia del discorso politico dell’Illuminismo. Il fatto che proprio da quella miniera filosofica Beccaria abbia ricavato ispirazione per sviluppare la sua critica dell’ipertrofia dei divieti, dell’incertezza dei giudizi e dell’efferatezza delle pene mi pare affievolisca la capacità esplicativa della tesi di Burgio. Del resto, il conformismo esteriore non è certo un penchant di Beccaria: il suo ritratto potrebbe ben illustrare la voce “autonomia intellettuale” di un’enciclopedia.
L’evocazione del contratto sociale con cui Beccaria inizia a tematizzare la questione penale non è affatto ridimensionabile al rango di una menzione. Ce ne accorgiamo non appena consideriamo la rilevanza dei corollari normativi dedotti dal postulato contrattualistico. Il primo è il principio di legalità penale, in forza del quale nessuna azione può essere considerata reato se non è proibita come tale dal legislatore e nessuna pena può essere irrogata dal giudice se non è previamente comminata dalla legge. Il secondo è il principio di uguaglianza giuridica, che vieta privilegi e discriminazioni nella posizione dei soggetti di fronte al vigore dei divieti e alla tipologia delle pene. Il terzo è il principio della separazione dei poteri, che prescrive l’attribuzione a organi distinti delle funzioni di produzione e applicazione delle norme giuridiche. Il quarto è il principio della terzietà del giudice, che proscrive la confusione tra magistrati requirenti e magistrati giusdicenti. Il quinto è il principio di economia penale, che esige la minimizzazione della violenza repressiva e implica il divieto di pene crudeli. Il sesto è il principio di interpretazione letterale della legge penale, che preclude al giudice gli spazi della creatività normativa. Il settimo è il principio di tutela della vita, che esclude il diritto dello Stato di uccidere per punire. Nel loro coerente insieme, tali principi - avvalorati sui presupposti individualistici del contratto sociale - valgono a configurare un ordinamento giuridico funzionale allo scopo dell’artificio politico: la sicurezza della libertà.
Sarebbe tuttavia riduttivo rapportare soltanto (benché già sia tanto) a questa dimensione nomogenetica il significato politico del contrattualismo di Beccaria. La sua rappresentazione dell’origine convenzionale e consensuale della società civile comporta una radicale affermazione di laicità e una dirompente istanza di laicizzazione. Se lo Stato è una costruzione umana, uno strumento forgiato dagli individui per rendere possibile la realizzazione di scopi individuali, allora non c’è nulla di naturale nell’ordine politico; non c’è nulla di sacro nel potere. Non c’è nessuna normatività cogente al di là delle leggi stabilite dalla volontà degli uomini e non c’è nessuna volontà infallibile di entità morali superiori agli uomini. In quanto dottrina dell’artificialità e della strumentalità del diritto statuale, il discorso politico di Beccaria rifiuta l’autorità della religione e rompe i vincoli della tradizione; contrasta le retoriche dell’organicismo e si emancipa da ogni forma di giusnaturalismo. Di fronte alla nuova scienza della legislazione c’è soltanto la società degli individui: degli individui in carne e ossa; con le loro ragioni e le loro passioni; con i loro interessi e i loro bisogni; e, soprattutto, con il loro anelito di libertà.
Che si possa parlare di libertà liberale, è opinabile. Di certo, è libertà liberatrice.


Riferimenti bibliografici

Albertini M. (2007), Tutti gli scritti, a cura di N. Mosconi, il Mulino, Bologna, vol. IV, pp. 231-259 [Il federalismo (1962)].
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Barberis M. (1999), Libertà, il Mulino, Bologna.
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