“Rappresentanza e democrazia deliberativa” è un’espressione che, a ben vedere, connette - senza pregiudicare il tipo di nesso possibile e quindi aprendo l’interrogazione -... delle connessioni: sollecita a provare a pensare come una certa attività, il deliberare, possa qualificare la democrazia, che è un certo modo di convivenza politica e come questa allora venga ad articolarsi con la rappresentanza, che a propria volta è un tipo di relazione tra governanti e cittadini. Si tratta di prendere in considerazione delle situazioni complesse, non solo per il darsi di diverse concezioni e pratiche rispetto a che cosa debba intendersi quando si parla di democrazia, ma anche perché si tratta di processi che, al di là della possibilità di rubricarli attraverso concettualità e categorie più o meno consolidate, possono avvenire secondo finalità, prospettive e modalità di attuazione anche molto diverse. Per una valutazione etica - che riguardi il modo in cui l’agire in essi e attraverso di essi concorra al realizzarsi di una vita buona, oppure politica - che consideri allora il tipo di convivenza che viene a realizzarsi, così come della loro efficacia - la quale a propria volta non può che essere misurata rispetto alle finalità intese, è necessaria sempre una considerazione in contesto, che precisi condizioni di possibilità, obiettivi, soggetti coinvolti e possa rendere conto delle relative inclusioni ed esclusioni. Ciò consente anche di non assumere atteggiamenti ideologici, mentre non esclude certo, ma piuttosto esige, un continuo esercizio di rielaborazione teorica, di chiarificazione concettuale e riarticolazione riflessiva delle questioni che emergono.
Deliberare
Della deliberazione parla Aristotele nel terzo libro dell’Etica Nicomachea. Qui egli afferma innanzitutto che non si delibera su singoli stati di fatto: ad esempio se si abbia sul tavolo del pane e se è cotto come deve. La deliberazione riguarda ciò che può essere fatto da chi delibera: e, precisamente, alcune delle cose che dipendono da chi delibera, ovvero quelle che «per lo più si verificano in un certo modo, ma che non è chiaro come andranno a finire, cioè quelle in cui c’è indeterminatezza». Sostiene inoltre che non si delibera sui fini, ma sui mezzi. Infatti, dice, «un medico non delibera se debba guarire, né un oratore se debba persuadere, né un politico se debba stabilire un buon governo, (ma) una volta posto il fine, esaminiamo in che modo e con quali mezzi questo potrà essere raggiunto: e quando il fine può manifestatamente essere raggiunto con più mezzi, esaminiamo con quale sarà raggiunto nella maniera più facile e più bella; se invece il fine può essere raggiunto con un mezzo solo, esaminiamo in che modo potrà essere raggiunto con questo mezzo, e con quale altro mezzo si raggiungerà a sua volta il mezzo, finché non giungano alla causa prima, che, nell’ordine della scoperta, è l’ultima» (EN III, 1112a 20 - 1113a 25).
Si deve riconoscere, tuttavia, che la deliberazione è anche in qualche modo una specificazione del fine: in quanto è il processo di reperimento di una o più serie di catene di cause (motrice e finale) che colleghino il fine che ci si propone con la situazione in cui ci si trova. Realizza, si può dire, una ridefinizione sempre più particolare del fine, specificando cosa significhi nel momento determinato, qui ed ora, la decisione che si deve prendere (cfr. Natali 1989, pp. 140-141).
Deliberare, per Aristotele, non significa assumere la decisione della scelta, perché «è ciò che è stato precedentemente giudicato dalla deliberazione ciò che viene scelto».
Si delibera, quindi, nei casi in cui si devono prendere decisioni in situazioni di complessità, di incertezza: ed allora è bene cercare di considerare la situazione dalla maggior parte di prospettive possibili, sulla base di quante più informazioni si possa disporre, prefigurando e valutando scenari ed esiti differenti.
Per quanto riguarda le questioni etico-politiche si può dire che attraverso la deliberazione viene a chiarirsi l’orizzonte di senso complessivo nel quale esse, in un certo spazio-tempo, si inquadrano, e che resta altrimenti indeterminato.
In ogni caso, la deliberazione è un modo della mediazione, ovvero un rifiuto della immediatezza nell’articolazione tra preferenze e decisioni di scelta. Ed è uno specifico modo della mediazione: quello del ragionamento, che fa leva sui buoni argomenti: e porta a veder meglio come stanno le cose, a chiarirsi nelle intenzioni, a individuare i mezzi più congruenti.
Ci si può chiedere, allora, se una deliberazione possa essere qualificata come democratica, e che cosa possa significare, quindi, l’espressione “deliberazione democratica”. Il riferimento, in tal caso, è ovviamente a un processo in cui sono coinvolti più interlocutori. Il suo contrario sarebbe un processo deliberativo non democratico. L’espressione, in ogni caso, o è una tautologia oppure implica che deliberazione e democrazia non coincidano: che possano esistere procedure deliberative che non sono democratiche, così come esistono democrazie che non sono qualificabili come deliberative.
Si tratta allora di individuare le condizioni che consentono di definire come deliberativo e democratico un certo modo di mediazione per arrivare a individuare cosa sia bene scegliere. Tra queste sembra di dover prevedere in primo luogo l’inclusività, ovvero l’accesso aperto a far entrare in gioco la più gran pluralità possibile di punti di vista, senza esclusioni che non derivino dal disegno stesso della procedura: il quale può anche motivatamente circoscriverla a una interlocuzione tra alcuni soggetti per qualche motivo intesi come qualificati. Altro carattere qualificante è la massima libertà di articolazione delle questioni in gioco. Un terzo è certo l’eguale trattamento: che dia valore e spazio eguale a tutti gli interlocutori e valuti le considerazioni espresse solamente sulla base del loro contributo in termini di validità degli argomenti portati. Modulandosi secondo almeno queste qualità, una deliberazione democratica può essere realizzata nei più diversi ambiti di relazione, non solamente come pratica di una democrazia deliberativa.
I vantaggi di una procedura deliberativa possono essere molteplici. Vanno dall’effetto riflessivo che il processo può avere su chi la compie - cui consente un venire maggiormente in chiaro con se stesso; all’incremento di conoscenze rispetto all’oggetto su cui si delibera - sia in termini quantitativi rispetto ai fattori in gioco, sia in termini qualitativi di decostruzione di bias e assunzioni unilaterali; all’effetto di rafforzamento della convinzione con cui la conclusione può essere riguardata; alla costruzione di un habitus sempre più in grado di comprendere e di avere a che fare con la complessità. Se la procedura è democratica, gode allora anche del vantaggio di disporsi in modo di cercare di non lasciar spazio ad altra forza che non sia quella delle buone ragioni.
Certo, la mediazione ha un costo temporale, che l’immediatezza non sconta. Ma soprattutto in questioni politiche rilevanti e strategiche non ci sono ragioni stringenti per ritenere che immediatezza ed autenticità democratica coincidano, né che la decisione più veloce sia anche quella migliore. Talvolta non è neppure la più efficace, perché può comportare effetti di ritorno negativi, anche di lunga durata.
Democrazia deliberativa
Quando si parla di democrazia deliberativa il discorso ha una torsione: dalla considerazione di un certo modo di pervenire a ciò su cui poi si tratta di operare la scelta, si passa alla caratterizzazione, sulla base dell’applicazione di tale modalità, di un certo sistema di vita associata, appunto quello democratico. A questo proposito è utile, in primo luogo, tener presente la distinzione tra una concezione “aggregativa”, corrispondente all’idea che le preferenze delle persone possano essere solo assunte come date e quindi “contate”, e una concezione “trasformativa”, secondo cui opinioni e giudizi politici devono e possono formarsi e trasformarsi attraverso percorsi di relazione sociale. In quest’ultima direzione vanno diverse forme di coinvolgimento attivo dei cittadini, ovvero di partecipazione, e la modalità deliberativa è soltanto una di queste (peraltro in un campo di concezioni e pratiche al proprio interno assai diversificato): ci sono anche la protesta, la denuncia, la rivendicazione...
L’espressione “democrazia partecipativa”, nella sua ampiezza, fa riferimento a tutti i modi - che possono essere formali e informali, organizzati dalle istituzioni o spontanei - attraverso cui i cittadini, e la società nelle sue articolazioni, fanno sentire la propria voce nella costruzione dell’agenda politica, negli orientamenti di policy, finanche nell’effettiva assunzione delle decisioni (cfr. Raniolo 2008). Come si comprende, ci si muove in un range molto ampio: che va dal semplice afflusso alle urne in occasione delle tornate elettorali a forme di democrazia diretta. Un tentativo di graduazione lo troviamo, ad esempio, nella “scala della partecipazione” elaborata da Sherry Arnstein, nel 1969, per chiarire la distinzione tra i diversi livelli di partecipazione adottati nel contesto americano in processi di costruzione e attuazione di politiche pubbliche. I due gradini più bassi, considerati a ragione delle forme di ancora “non-participation”, sono manipulation e therapy: si tratta comunque già di un primo superamento del completo distacco tra istituzione e cittadini, in quanto si prevedono azioni che si rivolgono a questi ultimi per aiutarli nella loro indigenza, pur senza intento di inserirli nel processo di policy-making. Uno stadio ulteriore di coinvolgimento è individuato nell’utilizzo di forme di informazione, consultazione e conciliazione allo scopo di ascoltare e dar voce ai cittadini. Infine ad un ultimo livello della scala ci sono forme di costruzione di citizens power, attraverso i tre gradi di partnership, delegated power e citizens control.
Se comunque si intende la democrazia come un modo di vita associata, e non semplicemente come una procedura di governo, è possibile ricomprendere come “democrazia partecipativa” tutte le diverse forme di prassi sociale, antagonistica o cooperativa, e di auto-organizzazione della società.
Con l’espressione “democrazia deliberativa” si intende invece una regione specifica all’interno di questo interessante arcipelago partecipativo che rende popolata e vitale la democrazia, una zona lontana dagli estremi di quella linea ideale: sia dal polo in cui si colloca l’assunzione di decisioni sia da quello della mera informazione dei cittadini.
Una procedura democratica deliberativa (i saggi che possono essere considerati “fondativi” sono quelli di Elster 1993, Cohen 1989, Manin 1987; sulla storia Manin 2002) si fonda sulla discussione pubblica basata sullo scambio di ragioni e argomenti, e cerca di pervenire a un consenso razionale, a una soluzione condivisa e migliore di quelle disponibili all’inizio del processo, oppure anche solo ad una proposta di cui è riconosciuta l’accettabilità.
La pratica deliberativa sembra consentire, allora, di rendere produttivo il conflitto (cfr. Sclavi, Susskind 2011), scegliendo di praticare percorsi che cercano di estrarre da esso tutto il possibile potenziale creativo, senza affidarsi a composizioni che in qualche modo poggiano su rapporti di forza. A questo proposito, però, Richard Posner (2003), in una visione schumpeteriana, ha obiettato che in società fortemente pluralistiche la deliberazione tende piuttosto ad esacerbare e portare alla luce il conflitto latente, con effetti di instabilità. È un’osservazione che non va trascurata, ma non implica che la conflittualità non debba allora essere affrontata, tanto più di fronte al fenomeno crescente, messo in luce da Cass Sunstein (2009), della polarizzazione di gruppo, per cui la discussione tra persone con orientamenti simili tende a generare posizioni più estreme di quelle precedenti la discussione stessa. Per contrastare il fenomeno non è utile praticare l’isolamento, piuttosto è sempre più necessario che i processi deliberativi includano persone diverse: «a degree of diversity in terms of approaches, information, and positions. Cognitive diversity is crucial to the success of deliberative democracy and its analogues in the private sector» (Sunstein 2009, pp. 142-142). Sunstein invita a guardare il problema in una prospettiva di ampio respiro e, per far fronte al fenomeno della frammentazione sociale - che considerando la pervasiva rilevanza dei social media chiama anche “cyberbalkanization” - propone l’elaborazione di una “architettura della serendipity”, dell’incontro fortuito, casuale (tema ripreso in Sunstein 2017, pp. 52-56). La democrazia, come forma di vita, richiede anche investimenti in formazione e auto-formazione alla cittadinanza.
Se il voto è un processo aggregativo in cui le preferenze si contano e si sommano, e il negoziato prevede successivi accomodamenti tra le posizioni in campo, grazie a minacce di ritorsioni e promesse di vantaggi, la deliberazione intende lavorare invece sulla ridefinizione e trasformazione delle stesse opzioni in gioco. Anziché l’immediatezza del rapporto tra preferenze, motivazioni o ragioni, e decisioni, che “fissa” le preferenze e non concede spazio alla creatività di una valutazione condivisa prima di arrivare alla decisione, la deliberazione è il tentativo di mediare attraverso la via del confronto, della discussione, dell’offerta di argomenti (Manin 1987 osserva che è l’inclusività della volontà generale di Rousseau che deve ricorrere al deliberare aristotelico).
Una critica che è stata sollevata nei confronti della democrazia deliberativa riguarda il fatto che punterebbe alla ricerca di un consenso razionale tra i partecipanti con l’obiettivo di definire e “scoprire” un “bene comune”. Chantal Mouffe (2005) vi legge quindi una pericolosa (per la democrazia stessa) tensione ad annullare la dimensione del conflitto, invece costitutiva del “politico”. A ben vedere, tuttavia, le posizioni in campo a questo proposito sono molteplici e spaziano da forme di sostanzialismo a declinazioni di repubblicanesimo - in certi casi di stampo pragmatista ed in altri habermasiano - secondo cui il risultato della pratica deliberativa è qualcosa che le persone costruiscono insieme. Lo scambio di ragioni ed argomenti, la discussione pubblica, insomma, non vanno intesi come fecondi solo se riescono a pervenire a una soluzione condivisa: consentono anche di individuare le ragioni di un disaccordo e di disinnescarne la distruttività, sono potenzialmente generativi di decisioni innovative almeno reciprocamente accettabili.
Le si è rivolta, inoltre, l’obiezione che essa presupporrebbe cittadini disinteressati e animati da intenzioni solidaristiche, ma esse realisticamente non potrebbero essere altro che la maschera di passioni e interessi individuali. Pasquale Pasquino a questo proposito osserva giustamente che «se gli altri interlocutori/decisori non sono ingenui, è necessario che colui che nasconde il proprio interesse (o la passione che lo motiva) vada un po’ oltre, che non si limiti, cioè, a mascherarlo con delle semplici astuzie retoriche. Che ne presenti insomma una versione meno volgare, che fornisca ai suoi interlocutori qualcosa in più rispetto alle ragioni della propria posizione. Di modo che per apparire meno volgare, finisce in realtà anche per esserlo meno!» (Pasquino 2006, p. 108). Insomma, non si può che concordare con Jon Elster (1993) quando sostiene, con La Rochefoucauld, il “valore civilizzatore dell’ipocrisia”. Peraltro, per non essere unilateriali, non si deve dimenticare che all’autointeresse gli esseri umani accompagnano naturalmente anche disposizioni prosociali.
Nei confronti dell’ideale habermasiano della “razionalità comunicativa” (cfr. Habermas 1981), cui fanno riferimento diversi teorici della teoria della democrazia deliberativa (cfr. Shapiro 2003; Fung 2007; Cohen 1989; Gutmann, Thompson 2004; Dryzek 2000), Michel Foucault ed altri scettici potrebbero sollevare inoltre l’obiezione che non sia affatto la razionalità a determinare gli esiti di una deliberazione, perché ad essere in gioco sono piuttosto relazioni di potere. Susskind (2018, p. 720) osserva che il loro ruolo in effetti è particolarmente influente nei casi in cui la “razionalità” può essere ostacolata da situazioni di incertezza scientifica o di valori in campo molto diversi; di conseguenza, rileva facendo particolarmente riferimento a Shapiro (2003), molti sostenitori della democrazia deliberativa sostengono che l'obiettivo del processo non debba essere quello di promuovere il “bene comune” ma possa essere, piuttosto, di diminuire il dominio dei più potenti.
Lawrence Susskind propone, a questo proposito, quello che definisce un terzo approccio (oltre a quello aggregativo ed a quello deliberativo) alla democrazia, a cui attribuisce il nome di “democrazia deliberativa integrata da elementi di PDR (public dispute resolution)”, e in particolare da tre elementi chiave: il ricorso a un mediatore indipendente, la tecnica - già ben consolidata - di una valutazione da parte degli stakeholder, e una nuova strategia che si può chiamare di istruttoria conoscitiva congiunta, in cui le parti con interessi diversi collaborano con esperti esterni per identificare ipotesi comuni, raccogliere informazioni insieme, formulare e chiarire opinioni. Un approccio deliberativo migliorato con aspetti di PDR può garantire un “campo da gioco” più condiviso e affrontare anche situazioni in cui ci sono forti differenziali di potere. Un mediatore, ad esempio, può aiutare a garantire che siano presi in considerazione anche gli interessi di coloro che hanno un potere più debole, e che essi abbiano l’aiuto di cui hanno bisogno per presentare le loro opinioni in modo efficace. Può altresì anche contribuire, però, a favorire e mantenere la partecipazione dei portatori di interessi che hanno poteri più forti (Susskind, Cruikshank 2006): sia facendo loro presente che la partecipazione al processo deliberativo può portare a risultati più stabili, a ridurre la probabilità di contenziosi e, quindi, i relativi costi di un conflitto, sia sostenendo che il focus sul reciproco guadagno della PDR (o negoziazione deliberativa) può fornire l’opportunità di proposte a basso costo per le parti coinvolte ma in grado di attivare sostegno pubblico (Susskind 2018, p. 720). Non va considerata di secondaria importanza l’incorporazione nei processi deliberativi di metodi di indagine congiunta dei fatti: essa fornisce una base importante per ridurre i conflitti non fertili, perché se le parti interessate concordano su quali dati debbano essere raccolti (e da chi) e quali metodi di analisi debbano essere utilizzati, è possibile che rimanga il disaccordo su come i risultati dovrebbero essere interpretati, ma non saranno continuamente rimesse in discussione la fonte o l’affidabilità dei dati.
I sostenitori della democrazia deliberativa le attribuiscono, in generale, diverse potenzialità positive. In primo luogo una positiva funzione cognitiva, dovuta alla condivisione di informazioni, che comporta un accrescimento delle conoscenze a disposizione di ciascuno. La possibilità di discutere le proprie opinioni favorisce, inoltre, un esercizio riflessivo che consente di procedere alla chiarificazione, integrazione e revisione delle proprie convinzioni. Non va trascurata neppure la funzione civica: la condivisione e la discussione di ragioni accresce la conoscenza reciproca tra gli interlocutori e, mentre educa i cittadini all’ascolto, alla tolleranza, al confronto, costruisce soggetto sociale formando alla promozione, all’attivazione e alla gestione di pratiche collettive. Si può anche osservare che i processi di democrazia deliberativa tendono altresì ad avere capacità legittimante, grazie alla preventiva conferma di condivisione della scelta o almeno della sua istruttoria ed elaborazione. La percezione di aver contribuito alla costruzione dei contenuti favorisce anche l’accettazione di decisioni non del tutto gradite, rendendole così più efficaci. In generale, insomma, consentendo di ridefinire i problemi e di inventare soluzioni innovative, sembra davvero poter portare a decisioni in diverso senso “migliori”: significhi questo per qualcuno più eque, oppure più razionali, giuste o vere, per altri più ragionevoli e validate di razionalità comunicativa.
I difensori della democrazia deliberativa sostengono insomma la convinzione che in democrazia, per quanto riguarda le scelte politiche da farsi, debba esserci spazio per il dialogo, il sapere contestuale accanto a quello esperto, il confronto discorsivo: ovvero la mediazione attraverso lo scambio di ragioni comprensibili e condivisibili. Il sapere esperto vi è appunto ospitabile, ma non si riconosce legittimità ad alcuna pretesa di scelte meramente “tecniche” considerate, come tali, non sottoponibili all’opinione dei cittadini.
Certo si tratta di una forma esigente, che richiede requisiti procedurali per garantire condizioni eque sia di accesso al processo (peraltro, a seconda delle finalità, possono essere previste forme di partecipazione volontaria - magari arricchita con qualche strategia ad effetto nudge - oppure di stakeholder selection o di selezione casuale), sia di organizzazione e di trattamento dei partecipanti, e requisiti sostantivi, ovvero una certa dotazione di capacità e competenze cognitive e relazionali necessarie per articolare e difendere le proprie idee (cfr. Bobbio 2013). Le condizioni esigenti che sono richieste per adeguare l’ideale della democrazia deliberativa spesso sono state addotte, dai suoi detrattori, a conferma della sua impraticabilità o inevitabile distorsione. Si tratta, però, di chiedersi quale sia la posta in gioco e se la difficoltà di adeguazione all’ideale renda tale tipo di processo davvero inutile, mistificatorio o dannoso per la costruzione della convivenza in società sempre più plurali. Di converso, ci si può chiedere quali azioni una democrazia possa e debba mettere in atto per essere sempre più veramente democratica.
Certo si deve evitare che il discorso corra il rischio di fermarsi ad una nuova forma di universalismo astratto, che non ha riguardo alle situazioni concrete in cui la democrazia deliberativa prova ad esercitarsi. Pensare la democrazia deve fare i conti con le condizioni in cui i cittadini vivono concretamente la loro vita. Ad esempio, osserva Joan Tronto (2013, p. 27), persino ad un teorico politico di grande originalità e concretezza come Bruce Ackerman sfugge di considerare, riproponendo l’idea (a suo avviso invero un po’ nostalgica) di un deliberation day annuale, per rafforzare la vita pubblica, che non solo mentre esso si svolge ci saranno cittadini che devono continuare a prestare lavoro di cura, ma questo è necessario anche proprio perché esso si realizzi. Ci sarà qualcuno che deve badare ai bambini, chi deve assicurarsi che le luci siano accese e ci siano sedie a sufficienza, che i microfoni funzionino, che la spazzatura venga portata via. Dietro ad ogni attività umana c’è qualcuno che assicura il lavoro di cura, irriducibilmente necessario perché essa venga svolta. Considerare questo aspetto significa ripensare a fondo i modi in cui organizziamo la nostra vita individuale e collettiva. La teoria democratica, quindi, non ha ancora terminato il proprio lavoro sia se a qualcuno mancano riguardi di cura, sia se sono lasciati carichi di cura sproporzionati. Tronto offre un contributo importante per evitare che l’attenzione ai modi di esercizio della partecipazione distragga i sostenitori della democrazia dal fatto che «democratic political life has to be about something». A suo avviso proprio ripensare l’aver cura nella sua forma più ampia e più politica, come ciò attraverso cui la società distribuisce le responsabilità, offre una concreta opportunità di riaprire il sistema politico, oggi chiuso, alle reali preoccupazioni dei cittadini.
La posta in gioco è allora che il rilievo di uno scarto tra l’ideale e la situazione di fatto attivi inedite pratiche di capacitazione all’interno di nuovi orizzonti di comprensione della convivenza democratica. E si gioca, anche, sulla forza simbolica dei processi deliberativi.
Rappresentanza e democrazia deliberativa
Mentre l’egemonia neoliberista, con le sue crisi e le sue riprese, produce prospettive di post-democrazia e di trasferimento dei processi decisionali nella dimensione di una governance meta-politica e meta-territoriale, a impronta cyber-finanziaria, la riflessione sulla democrazia deliberativa offre un contributo rilevante per ripensare un alternativo rafforzamento della democrazia, anche rappresentativa, re-immaginando il rapporto che essa può e deve instaurare con le trasformazioni sociali e materiali concretamente sperimentate dalle persone nei luoghi di vita.
A questo proposito, distinguere la dimensione deliberativa dalle diverse modalità di assunzione delle scelte può liberarne un potenziale che rischia, altrimenti, di rimanere schiacciato sulla risultanza decisionale.
È possibile, ad esempio, far risaltare il nesso troppo spesso disatteso tra dimensione locale e orizzonte mondiale nella vita politica contemporanea, arrivando a parlare di una pratica deliberativa transnazionale, da cogliere in diversi luoghi (Dryzek 2006 parla di transnational discursive democracy e di deliberative global politics). Innanzitutto si possono infatti rilevare le diverse dinamiche di una sfera pubblica mondiale (Volkmer 2014 parla anche di global civil society), sempre in costruzione e capace di fare pressione sia sulle politiche dei governi sia sulle decisioni delle corporations (attraverso il discorso pubblico è possibile la costruzione di una opinione pubblica diffusa che può esercitare influenza politica). Inoltre vanno messe in luce anche alcune modalità di discussione all’interno di istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e le sue agenzie, o della Comunità Europea, ad esempio su tematiche come i protocolli ambientali, oppure alcuni forum, intesi a risolvere questioni specifiche, che vedono coinvolti gli stati insieme con altri attori (cfr. Dryzek 1990, pp. 77-108 parla di international discursive designs): mostrano, anche se in modo spurio ma in senso pur sempre rilevante, anche dinamiche tipicamente deliberative (non sempre democratiche), allorché i partecipanti si rivelano aperti a cambiare idea, a trasformare le proprie iniziali vedute come risultato di una riflessione condotta sulla base modalità comunicative di scambio non costrittivo (cfr. Dryzek 2006, pp. 26-28). Ad esempio, rileva Dryzek, le ONG e gli attivisti per i diritti umani, attivando pratiche discussive pubbliche basate su buone ragioni ben informate, possono indurre uno stato oppressivo, generando cattiva pubblicità verso di esso e convincendo altri stati a rifiutargli aiuti finanziari, a cambiare i suoi atteggiamenti. Ma, in un mondo plurale e multiforme, altrettanto importante, rispetto all’influenza che la sfera pubblica può avere sull’autorità decisionale, è il fatto che il processo deliberativo può favorire anche la ricostruzione di rapporti: sviluppandosi come una modalità di “apprendimento sociale”, nell’ambito delle relazioni tra società diverse e anche all’interno di esse.
La non coincidenza tra esercizio di democrazia deliberativa e procedure decisionali democratiche richiede di valutare le esperienze dei processi deliberativi secondo parametri complessi e sempre attenti alle specifiche caratteristiche delle iniziative attivate: che possono svilupparsi spontaneamente all’interno della sfera pubblica e realizzarsi attraverso pratiche formali o informali, oppure essere promosse formalmente dalle stesse istituzioni, all’interno delle quali possono comunque inoltre svilupparsi in modo informale.
Floridia (2014, p. 14) osserva che da un lato «si possono progettare e attivare processi o istituti deliberativi formali, ogni qualvolta [...] il policy-maker ritiene che il processo di costruzione di una propria decisione politica richieda l’attivazione di spazi e luoghi specifici in grado di concorrere all’individuazione di una “migliore” soluzione (laddove “migliore” può significare varie cose: più “legittima”, più “giusta”, più “condivisa”, più “efficace” in quanto sorretta da più solide basi cognitive)», dall’altro «si possono ricondurre alla tipologia di procedure deliberative formali anche tutte le classiche procedure che, storicamente, caratterizzano la democrazia parlamentare, o quelle che avvengono dentro le corti di giustizia o - di particolare rilievo - nelle Corti costituzionali». Coglie allora l’occasione per osservare che «anche in questi casi, specie per i Parlamenti, si apre un campo di indagine empirica sulla misura in cui si produce “deliberazione” e sulla qualità di questa deliberazione, e sulla compresenza di altre logiche decisionali non deliberative (prime fra tutte quelle della negoziazione cooperativa antagonistica o del puro logrolling o bargaining)».
Le istituzioni rappresentative non vengono delegittimate da questa forma di condivisione orizzontale del potere, come potrebbe dire Hannah Arendt, che è la democrazia deliberativa, che instaura una dialettica discussiva contribuendo ad istruire le questioni strategiche nell’ascolto dei più diversi bisogni e punti vista: anzi, ne vengono rafforzate. Certo non si tratta di ricercare il consenso rispetto a scelte già decise, ma di un certo modo di pervenire alla scelta, riconoscendo legittimità di aver parola a coloro che alla decisione dovranno conformarsi.
Il “doppio binario” habermasiano, che integra esplicitamente una sfera pubblica democratica discorsiva e deliberativa ed una sfera istituzionale con le proprie procedure di rappresentanza può essere considerato come un modello di riferimento, ma la diffusione e la sperimentazione di numerosi processi deliberativi mostrano una grande diversificazione delle iniziative, varie nel senso e nelle modalità in cui si attuano relazionandosi con i processi decisionali. Si tratta di cogliere e analizzare le caratteristiche che di volta in volta danno forma alle diverse esperienze (per rimanere alla situazione italiana si può fare riferimento al prezioso lavoro di “Labsus. Laboratorio per la sussidiarietà”, il cui presidente è Gregorio Arena; cfr. Sclavi 2002; Floridia 2013 su alcuni processi realizzati nella regione Toscana, pp. 15-32; le pratiche deliberative comprendono i town meetings, i sondaggi deliberativi, le giurie di cittadini, i citizens forums, le consensus conferences, etc.: modalità già molto differenti di cui, poi, spesso le esperienze effettivamente realizzate costituiscono combinazioni o varianti).
Non ci sono garanzie, certo, che i processi non subiscano tentativi di manipolazione o di strumentalizzazione, ma se l’alternativa è assestarsi a forme democratiche meramente aggregative, bisogna rilevare che queste non godono a priori di maggiori garanzie di democraticità. Se la democrazia, per esistere, ha bisogno di essere popolata, complessificata, vissuta, allora si può ravvisare nelle pratiche deliberative la forza sociale e simbolica di una promessa di rafforzamento della rappresentanza democratica.
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