1. Costituzionalismo e rappresentanza politica
Il concetto di rappresentanza politica che si utilizza nel lessico corrente deve la sua genesi al costituzionalismo moderno e cioè a quelle dottrine politiche e proposte istituzionali affermatesi a seguito delle rivoluzioni inglese, americana e francese, e in modo generico ispirate alle teorie del governo limitato di John Locke (cfr. Waluchow 2018). Esso designa un particolare modo di intendere la relazione fra governanti e governati secondo cui sebbene le scelte politiche, e innanzitutto le leggi, siano elaborate da un’assemblea ristretta, la paternità delle medesime va tuttavia attribuita alla popolazione nel suo insieme perché l’assemblea rappresentativa è stata selezionata attraverso il metodo dell’elezione ed è comunque sottoposta a varie forme di controllo da parte dell’elettorato. L’elezione ed il controllo diventano elementi indispensabili del concetto costituzionale di rappresentanza perché offrono la saldatura fra l’idea elaborata dalle dottrine giusnaturalistiche seicentesche del governo legittimo solo perché fondato sul consenso reiterato dei cittadini e quella, prodotto delle intuizioni e delle esperienze dei padri fondatori delle costituzioni contemporanee, della necessità che anche l’organo legislativo venga sottoposto a limiti procedurali e sostanziali e che quindi sia composto da un numero limitato di componenti e sia regolato nel suo funzionamento.
Non che il concetto di rappresentanza fosse sconosciuto prima della fine del Seicento. Ma nella dottrina politica medioevale la rappresentanza ha un valore polisemico che spazia dall’idea figurativo simbolica, propria della Chiesa, del rendere presente ciò che è assente, secondo cui ad esempio la messa rappresenta (riproduce, dà forma a) la passione di Cristo, a quella elaborata dalle scuole di giurisprudenza che, sulla scorta del diritto romano, identificano il rappresentante procurator nel mandatario che agisce per conto del rappresentato, alle concezioni nate con rifermento alle assemblee parlamentari premoderne dove la funzione fondamentale della rappresentanza è quella di dare voci alle singole corporazioni (cfr. Duso 2006; Cotta 2004).
L’affermazione pratica e teorica dell’assolutismo non cancella poi il riferimento alla rappresentanza ma ne trasforma il significato. La rappresentanza coincide con il momento costitutivo della sovranità che, anche qualora discenda dal patto con cui si stabilisce che ad una sola persona o ad un’assemblea verrà dato il diritto di rappresentare la totalità, si esaurisce nell’autorizzazione iniziale (cfr. Hobbes 1955, p. 211).
Il concetto costituzionale di rappresentanza politica si definisce in opposizione a tre distinti fenomeni. Innanzitutto viene rifiutata l’idea assolutistica del sovrano unico rappresentante della nazione o perché delegato di Dio o perché istituito mediante un patto sostanzialmente irrevocabile e non reiterabile. A questa idea viene contrapposta l’opinione che la sovranità seppure esercitata dall’assemblea rappresentativa appartiene al popolo. In secondo luogo, viene respinta la tesi della rappresentanza come mandato, tesi mutuata dal diritto civile, in base alla quale il rappresentante è vincolato alle istruzioni ricevute da certi gruppi cetuali e vi si sostituisce l’idea che il parlamentare rappresenta la nazione senza vincolo di mandato imperativo (cfr. Sartori 1957). In terzo luogo, il sistema di governo rappresentativo viene concepito in opposizione al modello di democrazia diretta, modello che viene dunque scartato dai teorici del costituzionalismo moderno, per essere relegato solo ad ipotesi residuali come quelle del referendum (cfr. Urbinati 2006; Kelsen 1984, p. 76, p. 147; Bobbio 2014, p. 32).
A queste tre caratteristiche ne va aggiunta una quarta. Proprio quando al parlamento viene anche riconosciuta la funzione di esprimere il governo e di esercitare sul medesimo funzioni di indirizzo e controllo, la rappresentanza non può essere caratterizzata soltanto nei termini di rappresentatività, ma presuppone anche che l’organo rappresentativo sia capace di agire, decidere e provvedere nell’interesse del rappresentato. Hannah Pitkin spiega che nello sviluppo dell’idea di rappresentanza si registra il passaggio dallo standing for all’acting for (cfr. Pitkin 1983, p. 177), perché, come scriveva Alexander Hamilton, se la rappresentanza istituisce un potere, «cos’è il potere, se non l’abilità o la facoltà di fare qualcosa?» (Hamilton, Fed. 33, 1961, p. 210).
La rappresentanza politica si caratterizza dunque per la tensione fra poli distinti, rappresentatività, responsabilità e governabilità. Il costituzionalismo non dà indicazioni univoche su come raggiungere questo equilibrio perché, per dirla con la Corte Costituzionale italiana, si tratta di «un equilibrio dinamico, giacché la Costituzione non si limita a preservare l’essenza della proiezione rappresentativa, in una visione statica di mero rispecchiamento delle proporzioni tra i vari gruppi politici esistenti nella società civile, ma è protesa a rendere efficace ed attuabile l’indirizzo politico del Governo e della maggioranza parlamentare, vero motore del sistema, come emerge dagli artt. 92 e ss. della stessa Costituzione» (Corte Cost n. 1/2014; n. 35/2017; cfr. anche n. 429/1995; n. 242/2012).
Da decenni, tuttavia, si è verificata, e non solo in Italia, una frattura dell’equilibrio fra queste tre dimensioni della rappresentanza, con la conseguenza che se da un lato la governabilità è stata concepita solo in termini di stabilità di governo e di velocità delle decisioni – da cui gli sforzi di ingegneria costituzionale per elaborare un sistema che assicurasse stabilità e scelte rapide (sforzi, peraltro falliti) – , dall’altro la rappresentanza è stata appiattita sulla rappresentatività: dando origine all’idea che la politica si possa risolvere nella ricezione ed elaborazione di single istanze (single issues; cfr. Landemore 2017, p. 97), e non richieda, già a livello dei rappresentati, uno sforzo di sintesi e di visione. La responsabilità poi ha finito con l’identificarsi solo con uno dei tanti strumenti per raggiungerla, e cioè con la trasparenza degli atti di governo, mentre la sua dimensione originaria, del rispondere delle conseguenze delle proprie azioni, è rimasta sullo sfondo, sostanzialmente preclusa da sistemi politici che difficilmente consentono l’alternanza politica e da una comunicazione politica elusiva.
2. Rappresentatività e responsabilità
La funzione fondamentale della rappresentanza politica degli stati costituzionali è quella di consentire che le decisioni del parlamento possano essere ricondotte o addirittura ascritte ai cittadini su cui le leggi dovranno gravare, senza il ricorso ad un simbolismo eccessivo come quello del re che rappresenta la nazione ovvero del capo politico che si identifica nel popolo in base a una qualche forma di immedesimazione che trascenda il meccanismo elettorale. Le costituzioni moderne esigono che per aversi rappresentanza politica i rappresentati siano realmente interpellati nella selezione dei rappresentanti, prevalentemente attraverso le elezioni, e che i rappresentanti siano poi chiamati a rispondere di fronte al corpo sociale sia esponendosi alla bocciatura elettorale che sottoponendosi al giudizio dell’opinione pubblica anche fra un’elezione ed un’altra (cfr. Furlani 1967, p. 872; Nocilla, Ciaurro 1987, p. 567; Ferrari 1991, p. 1; Moschella 1999, p. 23).
Non vi è tuttavia accordo su come la relazione di circolarità fra corpo elettorale e organo rappresentativo debba intendersi, se debba privilegiarsi l’aspetto della rappresentatività e dunque della somiglianza dell’organo rappresentativo con la base elettorale ovvero quello della responsabilità e cioè della possibilità che il rappresentante sia effettivamente chiamato a rispondere del proprio operato di fronte ai cittadini; se la rappresentatività vada intesa come fedele trasposizione delle istanze degli elettori, o se piuttosto al contrario la rappresentanza presupponga un’azione che, pur condotta nell’interesse dei rappresentati, sia tuttavia indipendente dalla volontà di costoro.
Il dibattito che circondò l’approvazione del testo della Costituzione degli Stati Uniti è forse quello che meglio chiarisce i termini della questione. Gli antifederalisti aderirono alla prima posizione. Brutus, ad esempio, sosteneva che la parola rappresentanza implica che la persona o l’organo scelto a questo scopo assomiglino a coloro che li nominano... che coloro sono messi al posto del popolo debbano possedere i suoi sentimenti e le sue opinioni, e siano governati dai suoi interessi (cfr. Brutus 1981, p. 42). Melancton Smith gli faceva eco, sostenendo che i rappresentanti devono conoscere la situazione del popolo e dei suoi bisogni; simpatizzare con tutte le sue avversità ed essere disposti a perseguire i suoi interessi genuini (cfr. Smith 1788, pp. 376-7). Fu tuttavia John Adams, che pure non partecipò alla Convenzione di Filadelfia, ma di certo non si astenne dal dibattito, ad esprimere nei termini più chiari questa posizione e dipinse l’organo rappresentativo come una miniatura del popolo, dove i rappresentanti pensano, sentono e ragionano come lui (cfr. Adams 1850-56, p. 195).
La posizione opposta era quella dei federalisti. James Madison non utilizzò l’argomento che un paio d’anni dopo avrebbe usato Sieyès in Francia, che l’organo rappresentativo fosse necessario per ragioni di divisione del lavoro, e dunque per sgravare i cittadini dall’onere di svolgere funzioni pubbliche (cfr. Manin 2010, p. 5), ma invece ritenne che il nucleo centrale della rappresentanza politica fosse la responsabilità del rappresentante di fronte all’elettore per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Se il sistema rappresentativo era congegnato per «affinare e allargare la visione dell’opinione pubblica, attraverso la mediazione di un corpo scelto di cittadini, la cui provata saggezza può meglio discernere l’interesse effettivo del proprio paese» (Madison, Fed. 10, 1961, p. 82), il rischio che si potesse creare un’oligarchia anche per effetto della degenerazione del ceto politico era scongiurato dalle elezioni frequenti (cfr. Madison, Fed. 57, 1961, pp. 351-352). Madison peraltro si fece vanto di una delle grandi innovazioni contenute nel testo costituzionale americano e cioè la mancata indicazione di requisiti minimi per accedere all’elettorato passivo (cfr. ibidem). La sua linea argomentativa fu la seguente: poiché la selezione è integralmente rimessa agli elettori e fra costoro ci sono ricchi e poveri, ignoranti e ben informati, delinquenti e uomini rispettabili, le elezioni sono il mezzo più efficace per garantire la rappresentanza (cfr. ibidem).
La discussione fra i due aspetti della rappresentanza, e cioè prossimità alle opinioni e agli interessi della base elettorale e responsabilità per il proprio operato, oggi viene riproposta nella contrapposizione fra chi intende la rappresentanza politica essenzialmente come il dare voce (cfr. Guinier 1994, p. 124) a gruppi ed interessi sociali e chi invece predilige il modello fiduciario di ascendenza madisoniana dove il controllo della base elettorale si esercita fondamentalmente ex post; fra chi propone limiti alla durata dei mandati per assicurare un’alternanza fra rappresentanti e rappresentati – anche per consentire, come avrebbero detto i filosofi del passato, ai rappresentanti di rinnovare le proprie conoscenze della società (cfr. Aristotele, Pol, 1317a41-b17, 1999, p. 200; Bentham 2008, p. 433), e chi invece favorisce un ceto politico di professionisti (cfr. Weber 2009).
Va però sgombrato il campo da due tipi di equivoci. Innanzitutto la distinzione fra prossimità e responsabilità non va identificata nella contrapposizione fra la delega e il mandato fiduciario. Il divieto di mandato imperativo previsto da tutte le costituzioni moderne esclude che la rappresentanza possa veramente essere concepita nei termini della passiva ricezione delle istanze del corpo elettorale da parte dell’eletto. Il costituzionalismo esclude che il rappresentante sia semplicemente il delegato, o il dipendente, come oggi è in voga dire (cfr. Casaleggio, Benzi 2016, p. 28), o il ventriloquo di qualcun altro. Sicché la rappresentatività va piuttosto riferita all’organo nel suo complesso e, in ossequio al principio dell’eguaglianza del voto, è preordinata ad evitare fenomeni di eclatante sovra-rappresentazione o sotto-rappresentazione, specie quando queste sono motivate da intenti discriminatori. Esempi classici sono la discriminazione su base razziale (cfr. Levinson 1985, p. 275) e quella di genere (cfr. Casadei 2016, p. 39), ma la Corte Costituzionale italiana ha immaginato che la sovra-rappresentazione sproporzionata possa verificarsi anche accordando un premio di maggioranza al partito che ha ricevuto il numero maggiore di voti ma senza previsione di alcuna soglia minima (cfr. Corte Cost. n. 1/2014; n 35/2017). La rappresentatività tuttavia non può riferirsi ai singoli rappresentanti.
In secondo luogo, la distinzione fra rappresentatività e responsabilità non deve essere confusa con quella che contrappone la concezione agonistica della politica, diffidente nei confronti del cognitivismo politico, ad un’idea deliberativa della democrazia che rifiuta che il dibattito politico si risolva nell’aggregazione di preferenze e nel compromesso fra interessi e che esige una tensione verso un ordine collettivo caratterizzato da una visione condivisa dell’interesse pubblico (cfr. Graber 1996, p. 299). La rappresentanza politica presuppone che la politica sia un agone fra posizioni contrapposte, sebbene il modo di intendere questo agone possa variare sensibilmente [si veda l’abissale differenza fra Schumpeter 1955, (pp. 252-256) e Urbinati 2004 (p, 53); cfr. anche Mansbridge 2003, p. 515]. Se esistesse una verità politica e se i rappresentanti fossero investiti del ruolo di scovarla, la rappresentanza non servirebbe a niente. Come dice Hannah Pitkin gli esperti non rappresentano alcunché.
Al cuore della contrapposizione fra prossimità e responsabilità, dunque, sta una diversa enfasi sul momento in cui il legame fra rappresentati e rappresentanti viene individuato. Se nella prima concezione la saldatura avviene al momento della candidatura e dell’offerta politica, nella seconda concezione si verifica a valle, e cioè all’atto della riconferma o della bocciatura elettorale, ovvero del controllo vigile della società fra una tornata elettorale ed un’altra. Se la prossimità richiede che l’uomo politico disponga di doti necessarie a sentire e captare i bisogni di certi gruppi sociali, nella responsabilità la capacità politica consiste nell’elaborare un piano politico, nel renderlo pubblico (cfr. Waldron 2016, p. 167) e nel convincere l’elettore di aver assolto bene il proprio compito.
3. Rappresentanza e governabilità
A partire dal momento in cui il gabinetto diventa l’espressione non più del monarca, ma del parlamento e della maggioranza parlamentare, l’elettore eleggendo il parlamento elegge anche il governo. Gli eletti, che includono anche i membri del gabinetto, non sono chiamati semplicemente a deliberare, ma sono tenuti a governare. La storia del costituzionalismo britannico dimostra chiaramente che la funzione dell’elezione non è solo quella di formare un parlamento, ma è anche quella di formare un governo (cfr. Vile 1967, p. 214; Corso 2015, p. 19).
La questione dei rapporti tra rappresentatività e governabilità, e quindi del dosaggio tra i due principi, spiega il dinamismo del concetto di rappresentanza politica sotto un altro aspetto.
Intuitivamente la rappresentatività sembrerebbe precedere assiologicamente la governabilità.
La rappresentatività del parlamento è alla base dell’estensione del suffragio a tutti i cittadini maggiorenni e al principio dell’eguaglianza del valore di ciascun voto. La Corte Costituzionale italiana segue questa linea argomentativa quando colloca la rappresentatività fra i principi fondamentali dell’ordinamento e il principio di governabilità fra gli interessi costituzionalmente rilevanti e quindi in una posizione lievemente subordinata. La conseguenza è che se è anche possibile bilanciare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare e il principio dell’eguaglianza di voto con gli obiettivi della stabilità del governo del paese e della rapidità della decisione, tuttavia la «distorsione della rappresentatività non può consistere in un sacrificio sproporzionato». Ne segue che seppure al legislatore possa essere lasciata discrezionalità sulla scelta del sistema elettorale proporzionale o maggioritario, tuttavia tale discrezionalità non è esente da limiti. Ad esempio, secondo la giurisprudenza costituzionale è irragionevole il meccanismo del doppio turno, quando la possibilità di accedere al secondo turno, e dunque di ottenere la maggioranza assoluta, viene accordata al partito che ha ricevuto una percentuale bassissima di voti al primo turno (Corte Cost. n. 35/2017).
A diverse conclusioni è invece arrivata la giurisprudenza costituzionale americana che in più di una sentenza ha difeso il bipartitismo con l’argomento che esso è il sistema migliore a garantire stabilità politica [Timmons v. Twin Cities Area New Party, 520 U.S. 351, 367 (1997), Davis v. Bandemer, 478 U.S. 109, 145 (1986); O'Connor, J., concurring] e si è addirittura spinta a dichiarare incostituzionali alcune leggi, come quelle che prevedevano le cd. primarie aperte, e cioè la possibilità che il candidato alle primarie di un partito potesse essere votato anche dai non iscritti, con l’argomento che tale pratica avrebbe limitato la libertà di associazione dei partiti politici ed in ultima istanza favorito l’emersione di candidati esterni [California Democratic Party v. Jones, 120 S.Ct. 2402 (2000); cfr. Hasen 1997, p. 331].
4. Che significa equilibrio?
La rappresentanza è di certo un filtro fra le istanze che emergono nella società e le decisioni politiche. Questa idea ha dato origine alla tesi della rappresentanza come advocacy, come difesa legale (cfr. Urbinati 2000, p. 758), e a quella della rappresentanza come abstraction, astrazione (cfr. Waldron 2009, p. 335). Seguendo questo modo di ragionare, il rappresentante deve cogliere le richieste confuse della società e riformularle in un linguaggio che ne consenta non solo la comunicazione nell’arena pubblica ma anche la traduzione in proposte convincenti per una base molto più ampia di quella che le ha generate. Una questione diventa politica quando se ne riconosce il carattere condiviso (cfr. Blokker, Thornill 2017, p. 1).
Sotto questo profilo anche la distinzione fra interessi e opinioni tende a sfumare. E non perché, come diceva Hamilton, non è detto che chi lavora nella manifattura sceglierà un industriale o un artigiano come rappresentante e che anzi è verosimile che scelga un commerciante (cfr. Hamilton, Fed. 35, 1961, p. 214), ma perché l’interesse muta quando se ne percepisce la dimensione condivisa e quando si ragiona sugli argomenti che lo sostengono. L’interesse può dunque generare un’opinione (cfr. id., Fed. 10, 1961, p. 82).
Questa idea del rappresentante filtro, che è certamente suggestiva e sotto molti profili corretta, lascia tuttavia inevasa una questione: chi opera la sintesi che trasforma le singole istanze in azione di governo?
E qui si ritorna al tema dei rapporti fra rappresentatività, responsabilità e governabilità. La giurisprudenza costituzionale richiede che debba esservi un equilibrio fra questi poli della rappresentanza e tuttavia liquida la questione della governabilità identificandola con la stabilità di governo e con la velocità delle decisioni. Ricapitolando: i cittadini esprimono istanze su singoli temi (meno immigrati, meno tasse, pene più severe, più soldi in un certo territorio, più opere pubbliche, più ambiente), i rappresentanti si fanno portatori di queste istanze e ne discutono in parlamento. Poiché la sintesi comporta il tradimento di una porzione dell’elettorato, il momento della mediazione fra istanze opposte viene posticipato all’atto di esprimere il governo.
Ora, è ovvio che questo modo di concepire le cose comporta alcune conseguenze: il rappresentante, lungi dal formulare una sintesi politica fra le varie istanze che raccoglie nella società, si limita a trasporle in un linguaggio accessibile al pubblico. La formazione del governo diventa il momento di intersezione (la ricerca di un minimo comune denominatore, magari un contratto di governo) di posizioni diverse portate avanti dai gruppi politici della maggioranza parlamentare. La governabilità si riduce a ben poco: nel tenere in piedi un’intersezione attraverso traballanti marchingegni di ingegneria costituzionale.
Vi è però un altro modo di guardare alle cose e che riguarda proprio un diverso modo di intendere l’equilibrio fra rappresentatività, responsabilità e governabilità. In questo secondo modello si chiede ai cittadini di non limitarsi ad esprimere una singola istanza, ma di anticipare lo sforzo di sintesi – rozza ed embrionale, di certo – già al momento della formulazione delle richieste ai rappresentanti. Il rappresentante, del resto, può aiutare il cittadino a questi fini. Si può immaginare che la funzione dei partiti politici tradizionali sia (stata) anche questa: non solo di garantire stabilità politica, minimizzare il potere delle fazioni e semplificare la scelta politica, rendendola dunque effettiva (cfr. Sabato 1988, p. 8), ma anche di collaborare con la base nella formulazione di una proposta politica tendenzialmente coerente (cfr. Panebianco 1982, p. 477; Pasquino 2014).
Se la democrazia rappresentativa richiede cittadini attivi (cfr. Mill 2011, p. 70), questo attivismo non può essere limitato a singole questioni, ma è richiesto lo sforzo ulteriore di immaginare che tipo di politica complessiva si desideri avere e accorpare le varie istanze in pochi modelli semplificati ma tendenzialmente coerenti.
5. Crisi della democrazia rappresentativa?
Si parla da decenni della crisi della democrazia rappresentativa, della sua trasformazione in un modello post-partitico, dove la società funziona da audience (cfr. Manin 2010, p. 267), da pubblico, e dove la frammentazione sociale viene compensata da una politica personalistica fondata sul carisma del leader (cfr. Hibbings, Thiess-Morse 1998). I cittadini vengono tratteggiati come apatici, manipolati, innamorati ora di questo ora di quel leader, volatili. Si legge che i risultati dell’azione di governo non sono affatto tenuti in considerazione dagli elettori (cfr. Schadee, Segatti, Vezzoni 2019), con buona pace del principio di responsabilità politica, e che l’audience chiede solo di essere sedotta ed in qualche misura assecondata (cfr. Maier 2013).
Questa ricostruzione però stride con le esperienze che viviamo tutti i giorni, o che almeno vivevamo prima che la pandemia avesse sopito molte istanze: esperienze che riguardano manifestazioni di piazza (si pensi ai gilet gialli), una stampa aggressiva pronta a rovistare nella vita privata di chi ricopre pubbliche funzioni, cittadini attivi sul web a firmare petizioni e a scambiarsi opinioni, forme dilaganti di protesta in molti settori contro il principio di autorità (si pensi alla sorte che spetta da anni ai professori di scuola), l’interesse (quasi morboso) dei cittadini per la cronaca giudiziaria e il proliferare di programmi televisivi che replicano i processi.
Insomma, l’immagine di una popolazione inerte, abbindolata dal leader telegenico, stride con le nostre esperienze di tutti i giorni.
Se così è, allora cos’è che non va? Perché il ceto politico si è progressivamente deteriorato e il dibattito pubblico scivola gradualmente verso il caos o il pettegolezzo?
Le risposte sono tante e sarebbe naif immaginare di affrontare la questione in poche righe. Di certo, la critica alla partitocrazia, e cioè all’occupazione da parte dei partiti di ampi settori del sistema democratico, è più che fondata. Parimenti condivisibili sono le analisi sugli effetti della politica personalistica sul dibattito pubblico. Tuttavia, a me pare ancora più illuminante la diagnosi di Pierre Rosanvallon sulla perversione della controdemocrazia, e cioè sulla grottesca trasformazione dei tre poteri sociali per eccellenza, vigilanza, interdizione e giudizio, in forme bloccate (cfr. Rosanvallon 2012). La vigilanza della società sulle istituzioni, dice Rosanvallon, si è trasformata nella stigmatizzazione compulsiva e permanente di ogni gesto dell’uomo e (più spesso) della donna di potere. L’interdizione, tradizionalmente legata agli scioperi e alle proteste di piazza perché un provvedimento normativo venisse cambiato, è diventata veto permanente e privo di proposte alternative. E anche il giudizio si è dilatato a dismisura generando una pletora di sicofanti pronti a puntare il dito verso questo o quel funzionario e chiederne addirittura la reclusione e la destituzione.
Insomma, all’irrigidimento delle istituzioni e alla loro progressiva impermeabilità all’accesso alle cariche pubbliche da parte di comuni cittadini (si pensi alla legge elettorale detta porcellum che sottraeva ai cittadini il potere di scelta dei candidati, disposizione in parte mantenuta nell’attuale legge elettorale), si è contrapposta una cittadinanza attiva ma sostanzialmente frammentata, priva di capacità di sintesi, interessata più ad interdire e giudicare che a suggerire e comunicare.
6. Rappresentanza e principi costituzionali
Ed eccoci giunti ai tre poli della rappresentanza: rappresentatività, responsabilità, governabilità. Essi segnalano un rapporto di circolarità fra società ed istituzioni, un rapporto le cui sorti, seppure lasciate alla politica e alle vicende storiche della comunità, sono tuttavia confinate all’interno di alcuni principi.
Il costituzionalismo, ad esempio, esige che la democrazia sia rappresentativa e non diretta (cfr. Mill 2011, pp. 42-43; Constant 2020, p. 63), che i rappresentanti agiscano senza vincolo di mandato, che non rispondano per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, che siano selezionati tramite elezioni e non vengano estratti a sorte. Ma il costituzionalismo segnala anche altro. Poiché la sovranità appartiene al popolo che la esercita innanzitutto attraverso la elezione dei parlamentari, e poiché al parlamento spetta non solo il potere legislativo ma anche il potere di indirizzo politico e di controllo sugli atti di governo, poiché il governo esprime e replica la maggioranza parlamentare ed è vincolato alla fiducia del parlamento, al cittadino è riconosciuto il diritto/dovere certo non di svolgere l’attività di governo, ma almeno di immaginare una visione della propria comunità politica che non si riduca ad un tema specifico.
La storia della crisi della rappresentanza, questa dunque la tesi, è la storia della rottura fra i tre poli della rappresentanza: rappresentatività, responsabilità, governabilità.
Il tema della frammentazione del corpo sociale è diventato un leit motiv delle analisi sul sistema elettorale. Ma questa frammentazione, che comunque è infinitamente più limitata di quella che caratterizzava le società occidentali nel periodo post-bellico (dove anche la lingua spesso non era condivisa), va intesa correttamente. Si tratta della frammentazione delle idee politiche che discende dalla tesi che rappresentatività e governabilità sono poli in conflitto e non semplicemente in tensione.
Gli studi sulla democrazia partecipativa e deliberativa (cfr. Hutt 2019) da decenni segnalano l’importanza dell’interlocuzione fra cittadini e società e dello sforzo reciproco di cittadine e istituzioni di traduzione di istanze, bisogni, fedi, identità, opinioni in discorsi a cui tutti idealmente possono partecipare. L’enfasi però sul discorso ha condotto a trascurare l’importanza dell’azione (di governo).
La proposta qui formulata non è però quella di trovare modelli che favoriscano la decisione politica a scapito della deliberazione, proposta per la quale sono richieste ben altre argomentazioni, anche relative al miglior sistema elettorale, né tanto meno di immaginare piattaforme digitali dove i cittadini decidono l’azione di governo, ma più modestamente di ricordare che come non può esistere rappresentanza effettiva in una società di cittadini passivi e sottomessi (cfr. Mill 2011, p. 70, p. 76), così parimenti, la rappresentanza politica soffre quando il cittadino, limitando il proprio attivismo a questioni circoscritte, si sottrae allo sforzo di sintesi fra istanze contrapposte e si smarca dall’onere di formulare una proposta politica che trascenda la soluzione di problemi specifici.
È difficile immaginare che l’equilibrio fra i tre i poli della rappresentanza politica possa essere raggiunto senza riabilitare la funzione dei partiti politici e di altri strumenti di mediazione.
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