1. Le ragioni delle quote e oltre
La conquista dei diritti politici delle donne ha costituito una vera e propria rivoluzione nello spazio pubblico e privato (cfr. Palici di Suni 2003; Cavaliere 2016): come è stato osservato «facendo cessare il monopolio maschile nella sfera politica, il suffragio universale ha imposto la trasformazione di ogni ambito - da quello privato della famiglia a quello del lavoro produttivo, da quello del potere economico a quello del potere politico - perché l’esistenza di uno spazio sottratto al principio di uguaglianza e strutturato da una subordinazione femminile diventa intollerabile» (Pezzini 2016) .
Per questa ragione, la Costituzione della Repubblica democratica italiana non solo afferma l’uguaglianza “senza distinzione di sesso” nei suoi principi fondamentali (art. 3), ma fin dall’origine contiene norme espressamente volte a garantire il principio delle pari opportunità uomo-donna in materia elettorale (art. 48 e 51), che la revisione costituzionale degli articoli 117 nel 2001 e 51 nel 2003 ha reso ancor più esplicito.
Nel loro insieme, come ha riconosciuto la giurisprudenza costituzionale, queste norme pongono «esplicitamente l’obiettivo del riequilibrio e stabiliscono come doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni, riferendoli specificamente alla legislazione elettorale» (sent. 49/2003): forme e modalità per raggiungere l’obiettivo sono lasciate al legislatore, con ampi margini di scelta fra tutte le misure possibili, fermo restando che, al di là di critiche e controversie (oltre all’ampia trattazione di Maestri, si vedano - a titolo meramente esplificativo - Mezzetti 2006; Pazè 2010; Fortuna 2013; Rossi 2015), l’ordinamento costituzionale garantisce, al genere sottorappresentato, una speciale protezione (per un’accurata disamina si rinvia a Maestri 2018).
Oggi, il tema delle misure di pari opportunità risulta esplicitamente affrontato in tutte le leggi elettorali, con “quote di genere” (presenza di candidati di uno stesso sesso non minore o non superiore a una determinata misura), diffusione della “doppia preferenza” (una seconda preferenza solo a favore di un/a candidato/a di sesso diverso da quello/a a cui si è attribuita la prima), previsioni sanzionatorie diversificate.
Proprio questo tipo di riconoscimento sul piano normativo e istituzionale, frutto di un lunghissimo percorso di rivendicazioni e lotte, rischia di assorbire, in maniera riduzionistica, il più ampio tema della democrazia paritaria (e di una piena e adeguata rappresentanza delle istanze e dei bisogni connessi al genere femminile): lungo questo asse la democrazia vista a partire dalla soggettività politica e giuridica in una questione di numeri, una questione di quote, segnalate - anche sul piano simbolico e mediaticamente più spendibile - dal “colore rosa” (cfr. Brunelli 2006).
Il tema della parità di genere si ritrova così confinato tra i tecnicismi dei disegni di legge in materia elettorale (Italicum, Legge 52/2015) e proposte di riforma costituzionale (come quella bocciata dalla grande maggioranza del popolo italiano con il referendum del 4 dicembre 2016), rischiando di perdere la dimensione sistematica imperniata su un principio di eguaglianza che si traduca, effettivamente, in azioni positive, volte alla realizzazione di una democrazia paritaria non solo quanto all’accesso ma anche alla possibilità di statuizione (cfr. Scarponi 20162, 2014; D’Aloia 2002).
In altri termini, rischia di essere rinchiuso, in maniera pressoché esclusiva, all’interno delle istituzioni entro un approccio meramente quantitativo, di calcolo delle presenze, che sovente origina “contenziosi giurisprudenziali”, anziché animare “conflitti produttivi”. Discussioni tecniche, proceduralistiche, per addetti ai lavori, distanti dai bisogni e dalla vita quotidiana delle donne: a questo, in un’opinione pubblica che dà ormai per acquisite le “conquiste di parità”, rischia di essere ridotta la questione paritaria, a una “questione di posti”.
Ad uno sguardo critico, pare che dal conflitto politico si sia passati al mero contenzioso giudiziario e che all’eguaglianza (nel suo senso sostanziale) e alla libertà (come autonomia e autodeterminazione), nonché ad un progetto di trasformazione qualitativa della società, si sostituisca la percentuale di donne che “occupano posti” nelle istituzioni (una questione statistica, di tipo meramente quantitativo).
La democrazia paritaria può assumere, invece, una diversa fisionomia (cfr. Alesso 2012; Casadei 2017), che fuoriesce da ristrette coordinate giuridico-istituzionali e che, al tempo stesso, interseca il piano politico concreto e la pratica di costruzione dei diversi livelli chiamati ad agirlo: in sostanza, l’«insieme preciso di pratiche concrete» con cui può essere identificata la cittadinanza come «processo in costruzione» (Del Re 2007, p. 39).
Con riguardo a quest’ultimo aspetto, non esistono modelli d’azione validi in astratto; ogni strumento volto a garantire una effettiva democrazia paritaria deve essere calato in un preciso contesto, giuridico e politico, sociale e culturale.
Sotto questo profilo, il problema della scarsa presenza delle donne nel cuore pulsante delle istituzioni democratiche di un paese resta, tuttavia, un problema reale (per un’analisi sistemica: Gallican, Tremblay 2005), ed è un problema della democrazia stessa; non è una questione di «genere», quanto, piuttosto, di qualità democratica. Le donne non sono, in questa chiave, sottorappresentate, sono scarsamente rappresentanti.
Per evitare questo schiacciamento occorre una piena consapevolezza dei principi che stanno alla radice delle rivendicazioni delle donne rispetto agli spazi della politica e, d’altra parte, anche un’interpretazione esigente della democrazia paritaria stessa.
2. Alle radici del problema: eguaglianza e cittadinanza
Nella direzione delineata mi paiono di particolare efficacia le argomentazioni di Pietro Costa con riferimento alle rivendicazioni dei movimenti delle donne della seconda metà dell’Ottocento rispetto all’ideale dell’eguaglianza: «È in nome dell’eguaglianza che si contestano gli steccati e le deprivazioni: si tratta di un’eguaglianza che tenta di proporsi (pur se in modi e con esiti molto diversi) anche come ‘pensiero della differenza’» (Costa 2001, p. 402).
Sotto questo profilo, l’eguaglianza non è concepita come semplice estensione quantitativa - una mera questione di quote, appunto - di soggetti titolari dei diritti politici, estesi fino all’eleggibilità entro il sistema della rappresentanza - ma è il canale attraverso il quale possono transitare e consolidarsi contributi originali, legati a specifici bisogni e istanze, di lettura, interpretazione, pratica della vita della comunità.
Affermarne, effettivamente, la concretizzazione è un passaggio, in chiave strumentale, che può certamente essere “positivamente azionato”, entro una visione di promozione che può anche arrivare a privare le garanzie di qualsiasi connotazione di mancanza, inferiorità, minorità.
Il fine resta però un altro, quello che tenta di ridefinire prospettive di felicità pubblica e individuale, di giustizia sociale, prendendo sul serio i diversi bisogni e le diverse condizioni di capacità di ogni essere umano, a partire da uomini e donne in carne ed ossa (cfr. Asquer, Scattigno, Vezzosi 2016).
In questo contesto si può riposizionare, entro confini più ampi, la questione della cittadinanza, a cui si connette a doppio filo l’ideale stesso della democrazia paritaria (cfr., su questi aspetti, Del Re, Longo, Perini 2010).
Essa implica un “allargare lo sguardo”, per riprendere un’efficace espressione di Anna Loretoni (2015), all’organizzazione complessiva del sistema sociale. Non si tratta solamente di fare i conti, prendendole sul serio, con le limitazioni istituzionali che ostacolano l’ingresso delle donne ai più alti livelli di decisione, ma anche con le loro condizioni sociali, con gli stereotipi culturali e la strutturazione del mercato del lavoro e, più in generale, del sistema economico, con i moduli e le modalità di formazione, con l’organizzazione dell’attività professionale, con la dimensione del lavoro di riproduzione, di cura e di sussistenza.
Al di là della dimensione istituzionale e delle norme giuridiche che in essa possono essere introdotte, la società resta permeata dalla distinzione tra pubblico e privato e da forme di discriminazione che vanno non solo viste con riferimento ai singoli soggetti (come finisce per fare la logica delle pari opportunità tradotta in quote intesa come unica questione rilevante) ma nella loro dimensione sistemica.
Entro tale dimensione si combinano, concretizzandosi in infinite occasioni quotidiane, discriminazioni di tipo culturale (basti pensare all’educazione e all’insieme di aspettative, anche sul piano simbolico e dell’immaginario, che la società rivolge a bambini e bambine, a maschi e femmine durante la crescita e le varie fasi della vita) e discriminazioni di tipo giuridico, economico e lavorativo, politico-istituzionale, ciò che sostanzia l’ordine (e l’ideologia) patriarcale e le sue attuali configurazioni.
La prospettiva radicale della “democrazia del due” - cui pensava Luce Irigaray (1994) - implica una trasformazione profonda e complessa del sistema sociale e richiede, dunque, di riposizionare la questione sociale, che è anche culturale ed economica, insieme a quella della cittadinanza.
3. Un’interpretazione esigente della democrazia paritaria
Negli ultimi anni, ci si è trovati di fronte a una situazione di stallo, spesso di arretramento delle conquiste delle donne: il prevalere delle teorie mercatiste rispetto a quelle di intervento pubblico e di garanzia dei diritti sociali, l’espansione di «poteri selvaggi» e senza regole su scala globale, oltre a produrre un aggravamento degli squilibri tra nord e sud del mondo, ha amplificato le contraddizioni sociali all’interno dei paesi cosiddetti “sviluppati” imponendo, nei fatti, un nuovo ordine gerarchico, quello neo-liberista, capace di colonizzare ogni dimensione umana, nel segno della precarietà (cfr. Casalini 2017; Esposito 2015; Morini, 2016; Giolo 2017).
Gli stereotipi maschili, entro questo contesto, restano consolidati e radicati (cfr. Molfino 2006), assumendo anche nuovi spazi di conquista mediante i quali propagarsi come quelli della rete.
Questo stato di cose, a mio avviso, rende poco efficaci le politiche di pari opportunità se ridotte a mere “quote” e interpretate come risposta dei singoli a problemi (e conflitti) sociali: la trasformazione dei rapporti di lavoro, la diffusione di forme di occupazione flessibile e precaria, ad esempio, se penalizzano sia giovani sia ragazze, colpiscono più gravemente le donne, perché vanificano le tutele e i diritti conquistati in anni di lotte in materia di maternità, di conservazione del posto di lavoro in caso di matrimonio, di parità di retribuzione e di copertura previdenziale (cfr. Galoppini 1992).
L’obiettivo di una profonda riforma del sistema economico e sociale può così combinarsi con quello della costruzione di un nuovo patto sociale come fondamento delle società democratiche; quest’ultimo rappresenta una nuova frontiera della lotta delle donne e dei movimenti che la incarnano, una frontiera che consente di affrontare la crisi e di riposizionare anche la questione democratica.
Essa può essere affrontata se interagiscono, insieme, gli elementi che determinano i processi politici e istituzionali: le regole, i soggetti, la cultura (e l’immaginario ad essa connesso).
Sul piano delle regole, è cresciuta la consapevolezza dello scarto tra diritto formale ad essere rappresentanti e le situazioni concrete che ne impediscono o ostacolano la realizzazione.
Qui si pone il problema dell’eguaglianza di opportunità tra donne e uomini, di eventuali azioni positive per agevolare il conseguimento di un diritto politico che trova forti ostacoli alla sua affermazione, per ragioni culturali e di struttura stessa del potere.
In questa fase, la democrazia deve essere rinnovata sul piano sociale e culturale entro un’ottica qualitativa: le donne come soggetti attivi possono essere il segno e la forza di questo cambiamento (cfr. Leccardi 2007).
Può in tal modo cambiare la stessa cultura politica, istituzionale, democratica di un paese. La vitalità e la varietà dei soggetti sociali sono essenziali per aprire nuovi spazi alla democrazia, mentre forti interessi di natura economica e finanziaria tendono a chiuderli e a omologarli (cfr., in proposito, il contributo di Barbara Giovanna Bello in questo stesso fascicolo, nonché per le diverse forme di discriminazione e di ostacolo agli spazi di partecipazione Stojanovic 2014).
Il percorso che ho cercato di tratteggiare muove dal presupposto che proprio un orizzonte di democrazia paritaria implichi una strettissima interrelazione tra le dinamiche sociali, le istituzioni e la vita quotidiana delle persone, delle donne ma anche degli uomini. Si tratta di aspetti che chiamano in causa la dimensione culturale, comprensiva dei suoi aspetti simbolici e di immaginario.
Cogliendo la radicalità dell’assunto che la democrazia comincia “a due” – come sottolineava Luce Irigaray (1994), e ben prima la stessa Olympe de Gouges (cfr. Loche 2021) – per esprimere appieno il suo potenziale essa deve potersi costituire come spazio di condivisione del potere, arendtianamente, nel rispetto della pluralità e delle differenze e, al contempo, nel segno di un rinnovato senso di eguaglianza, che non recida le radici più profonde del femminismo stesso (collocate nel momento fondativo - e rivoluzionario - della modernità politica).
Questo conferisce alla parità - sostenuta con forza, da questo punto di vista, dalle Organizzazioni non governative nel 1995 alla Conferenza di Pechino – una dimensione molto più larga e rivoluzionaria della semplice politica delle pari opportunità concepite come quote.
Il concetto di parità, lungi dall’essere inteso come mera questione quantitativa, «rimette in questione il funzionamento sociale e l’immagine simbolica degli uomini e delle donne nella società» (Dal Re 2010).
La parità, prima di tutto, è una rivendicazione, una prospettiva, un progetto di eguaglianza tra i sessi, fondato sulla condivisione e cogestione del potere.
Sotto questo profilo, le quote e gli altri strumenti di riequilibrio lungo la direttrice delle pari opportunità, non sono che un mezzo per tendere alla sua realizzazione come obiettivo strategico ben più ampio e ambizioso.
Da questa angolazione, l’eguaglianza - e qui convergono ad esempio, nel segno di un orientamento che coniuga femminismo e dimensione giuridica, le lucide intuizioni di matrice storica di Emma Baeri (2007) con le rigorose argomentazioni giusfilosofiche di Letizia Gianformaggio (1995) e, nel suo solco, di Orsetta Giolo (2017) - non cancella le differenze, bensì mira a rimuovere il carattere di stigma sociale e giuridico basato su radicati stereotipi; al contempo, le promuove come condizione indispensabile di una trasformazione qualitativa, appunto, dell’ordine simbolico, giuridico, politico.
Un’idea di democrazia paritaria di questo tipo coglie il lato assolutamente imprevisto e trasgressivo dell’idea di eguaglianza e può tendere all’esito di un ribaltamento del sexual contract, ossia delle forme del patriarcato, compreso quello adattivo.
L’eguaglianza - praticata anche, ma non solamente, mediante forme istituzionali di azione positiva - può essere così intesa «sia come equità nell’accesso delle risorse sia come equivalenza nell’iscrizione nel diritto di cittadinanza e nella fruizione dei diritti che ne conseguono, per una compiuta e concreta libertà delle donne e degli uomini, nelle loro relazioni» (Baeri, 2007, p. 91).
Si tratta di una differente e diversa idea di eguaglianza che può essere politicamente perseguita, a partire dalla pratica democratica su base territoriale, su scala transnazionale e, ancora, significata o risignificata, anche mediante il linguaggio e la prassi del costituzionalismo democratico.
La democrazia paritaria può essere definita come la costruzione di uno spazio pubblico - e istituzionale - in cui tra uomini e donne vi sia una relazione non più gerarchica, ma appunto “alla pari”, essendo gli uni e le altre pienamente parte del “vivere insieme”, di una cittadinanza che si articola e si completa nei due generi. Essa rinvia ad un percorso che - entro un approccio giuridico-istituzionale, nonché costituzionalistico - attraversa l’intera storia del Novecento.
Cittadinanza, rappresentanza, costituzioni - scaturite a lungo, è sempre bene esplicitarlo, in un contesto in cui le donne non esistevano (non potendo né votare, né essere elette, né partecipare ai processi costituenti di scrittura delle carte costituzionali) - devono fare i conti la rivendicazione dell’eguaglianza tra i sessi, ossia con la prospettiva della parità.
Cittadinanza “di genere” e rappresentanza “di genere” sono espressioni che nelle ricostruzioni a posteriori scandiscono questo percorso che, dopo i regimi totalitari, pone la parità (e l’ideale della democrazia paritaria che si accompagna a quella di emancipazione) come questione costituzionale, oltre che politica e sociale.
Nell’articolato e complesso percorso di attuazione delle costituzioni, a un certo punto, si è affermata la consapevolezza che la potestà legislativa dev’essere esercitata con la piena partecipazione di entrambi i generi: la formazione delle norme e le decisioni a queste connesse devono effettivamente - e non solo formalmente - restituire la partecipazione attiva di entrambi i sessi.
Entro questa visione il passaggio fondamentale, e per nulla immediato, diviene quello di avere, come scriveva Lorella Cedroni, a ogni livello organi rappresentativi «“davvero” più rappresentativi, che diano cioè una “rappresentazione” più reale e veritiera delle due anime che compongono il genere umano» (Cedroni 1996; cfr. Corti 2009).
Si sviluppano così ragionamenti che in Italia e in altri paesi, come si è accennato, nel corso degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, sostengono l’inevitabile obbligo di “integrare” la rappresentanza praticata per decenni, con l’esclusione di fatto delle donne dai processi decisionali: un’esclusione ritenuta inconciliabile con l’idea di democrazia, traducendosi nella «assenza della maggioranza del “popolo sovrano” dalle sedi politico-decisionali» (Carlassarre 2002).
Quello che va messo in atto è allora un percorso, vero e proprio progetto, di garanzie, non di semplici «riserve»; ed è un percorso che investe non solo i partiti e il sistema istituzionale ma l’intera società perché la scarsa presenza di donne nelle istituzioni (non solo in quelle «politiche») è, anzitutto, una questione culturale, la dimostrazione dell’arretratezza di un paese, una questione - insomma - di qualità della democrazia, prima di tutto, non meramente di “quote”.
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