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Editoriale

Per un lessico del male: peccato, colpa, errore

Per secoli il riferimento al peccato originale, com’è narrato nella Bibbia (Genesi, 3), è stato la chiave di volta del resoconto cristiano della condizione umana nel mondo e ha contribuito a diffonderne, in svariate forme, una visione a tinte spesso fosche.
Agrippa d’Aubigné confessava di avere meno capelli sulla sua testa che peccati nell’anima. Anche Francesco di Sales, scrivendo a Mme de Charmoisy, ricorreva alla stessa metafora e l’appesantiva invitandola a meditare sul triste dato di fatto che, come ogni essere umano, ella aveva più colpe di quanti non fossero i “granelli della sabbia del mare”. Jean Delumeau, che riferisce queste testimonianze nel suo libro Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo (tr. it. Il mulino, Bologna 1983, p. 9) contrappone, forse un po’ troppo semplificando, al senso di “tranquillità” delle religioni orientali buddista e induista, l’“ansia” dell’Occidente e il suo plurisecolare “incubo” della dannazione.
Forse nessuno come Blaise Pascal, quando già si annunciava in molti modi e forme l’eclissi di questa concezione dell’originario dell’esistenza umana, ha calcato la mano sul peccato originale, sebbene in un’accezione notevolmente diversa da quelle appena accennate. Non si tratta, infatti, per lui, di insistere sul pessimismo così spesso legato nei secoli passati al dogma della caduta, ma di asserire con la massima forza e decisione che la caduta di Adamo ed Eva, benché costituisca il «mistero più lontano dalla nostra conoscenza», è però anche l’evento omettendo il quale «non possiamo avere alcuna conoscenza di noi stessi» (Pensées, in Oeuvres complètes, ed. di J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, fr. 438, p. 1207). Tutto gli ruota intorno e tutto esso illumina.
Una cospicua serie di filosofi (inutile enumerarli) e teologi (in prima linea i gesuiti), in vari gradi prigionieri del razionalismo moderno, s’impegnano, tra ‘600 e ‘700, a limare, per così dire, il dogma in questione e, almeno alcuni (tra cui notoriamente Kant) anche a denunciare l’assurdo morale implicito nell’idea di una colpa originaria commessa da un singolo e che si trasmette a tutto il genere umano. Da parte di un largo fronte cattolico “revisionista”, in questo stesso periodo, pur dopo aver ammesso (molto sottovoce) il peccato dei nostri padri, si insiste sulla tesi che la “natura” non ne è stata poi così macchiata da aver compromesso per sempre l’uso delle sue facoltà. Invece Pascal dice a chiare lettere che l’uomo è in grado di riguadagnare la sua “grandezza” - in terra per quel che può, in cielo plenariamente - solo a condizione che riconosca la sua “miseria”, derivata dal peccato.
Ma, malgrado il vero e proprio trionfo guadagnato contro i gesuiti con le Lettere provinciali, la battaglia alla lunga è ormai persa e Dostoewskji la ricapitola nella Leggenda del Grande Inquisitore. Intendiamo dire che, poco a poco, il senso profondo del peccato va sfumando, anche se in molti autori se ne conserva il lessico: la “riabilitazione della natura umana” di cui tratta Roger Mercier (La Balanche, Villemomble 1960) induce a parlare, per esempio nella lingua francese, di una “faute” il cui significato oscilla tra il fallo morale e l’errore. Lo spazio del primo è la coscienza, che viene pensata però sempre meno in relazione al soprannaturale (qui potrebbe essere ricordato Voltaire). Il luogo del secondo è costituito piuttosto dalla storia e dalla società (ricorre alla mente ovviamente Rousseau e la condanna del “primo che osò piantare un paletto” intorno al possesso, che col tempo diventerà “proprietà”: il filo che porta a Marx ed Engels è stato più volte tessuto dagli interpreti).
La coscienza è debole e può deviare, senza dubbio, ma è anche in grado di riguadagnare la sua purezza perché è parte di una natura umana ontologicamente buona, in cui non c’è un “ostacolo” iniziale e permanente che ne comprometta la dirittura. I gesuiti su questo ostacolo glissano, Rousseau crede di poter togliere questo scomodo e palesemente falso ingombro dogmatico. Quanto all’errore, esso fa calare ancora il baricentro del male compiuto dall’uomo, perché, come ogni errore - ci suggerisce la ragione calcolante - può, esattamente secondo quanto avviene nelle scienze, rimediare e riparare ai suoi passi falsi.
In entrambe queste versioni il peccato si trasforma o in slittamento del cuore dal quale si può sempre risalire o in sbaglio passibile ogni volta di rimedio (anzi, come nelle scienze, l’errore è fecondo perché consente di individuare i buchi neri della conoscenza e di eliminarli volta per volta).
In tutti e due i casi la filosofia di Rousseau è centrale: l’educazione di Emilio è tutta funzionale a preservare dal male la coscienza, questa “voce immortale”, mentre il “diritto naturale ragionato” può reindirizzare la specie umana verso la “società ben ordinata” mettendo riparo alla degradazione cui ha condotto la storia dell’ingiustizia politica narrata nel Discorso sulla disuguaglianza.
Quest’ultima interpretazione, che ci dice del carattere di radicale contingenza storico-sociale del male, avrà, com’è ben noto, una lunga vicenda e darà forza, stando all’autorevole lettura proposta da Ernst Cassirer, ai movimenti rivoluzionari; e l’avrà pure la teoria, variamente delineata, della “coscienza” e della sua “voce”, che è quella del dovere, mèta problematica perché l’uomo è “debole”, ma portatore di una dignità che si esprime nel buon uso della ragion pratica.
Si può discutere se queste alternative all’idea del peccato sostenuta e sviluppata da Paolo in avanti costituiscano una secolarizzazione del quadro morale cristiano (così la pensa per esempio Alexis de Tocqueville nella corrispondenza con Arthur de Gobineau in uno scambio di lettere di importanza cruciale su questi temi) o, proprio come sostiene Gobineau, siano elementi evidenti di una nuova morale, che trancia di netto il filo della tradizione (cfr. Tocqueville, Correspondance d’Alexis de Tocqueville et d’Arthur de Gobineau, in A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris t. IX, 1959).
Ciò che è difficile mettere in dubbio è che - a distanza di appena un secolo da questa corrispondenza - l’Olocausto interviene, con inaudita violenza, sconosciuta a ogni generazione precedente, a interrompere la continuità di una secolare tradizione, storica e teorica, in cui per secoli avevano giocato, ben al centro del campo, i concetti di peccato e di colpa. Infatti, la coscienza dell’Occidente non aveva mai del tutto rotto i ponti con un contesto di pensiero che, al di là di tutte le differenze, pur talvolta molto grandi, era rimasto omogeneo, anche quando aveva subito brusche torsioni. E si era conservato tale in virtù di una omogeneità di fondo su qualcosa che si potrebbe definire l’idea di “umanità”: grande o piccola, forte o debole, sicura o oscillante nelle sue manifestazioni, ma sempre bussola morale in un variabile intreccio di ragione e sentimento.
Quello che viene dopo l’orrore concentrazionario è ancora storia di oggi, perché sarebbe fuor di luogo affermare che quell’incubo non proietta ancora la sua ombra sul presente, come ha scritto con innegabile chiaroveggenza Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo.
Troppo complesso sarebbe anche solo tracciare un quadro sintetico di ciò che si cela dentro questa lunga ombra. Tra l’altro, alcuni non tarderebbero a sostenere che è uno sbaglio amplificare oltre misura il suo spessore fino ad arrivare a oggi. Prolungare all’infinito l’accanimento senza limiti contro il popolo tedesco non è forse l’altra faccia, paradossale, del revisionismo di quanti arrivano ad assolvere con disinvolta facilità l’accaduto e a ridurne l’inaudita gravità? Eppure sono proprio alcuni eventi della storia attuale - il risorgere del razzismo e dell’antisemitismo, la violenza sempre più capillare anche in tante occasioni della vita quotidiana, il disorientamento delle giovani generazioni, terribilmente esposte alla tentazione di obliare ogni idea del peccato e della colpa, l’indifferentismo delle classi politiche mondiali dinanzi alla distruzione del pianeta e all’emigrazione di massa dai Paesi disastrati dalla guerra e dalla povertà- a testimoniare quanto dura sia a morire la scia del male che parte dagli universi concentrazionari del secolo passato.
Ma, anche ammettendo che tutte le interpretazioni in conflitto, più o meno, siano fuori bersaglio oppure semplifichino eccessivamente ciò che semplificabile non è, rimane il fatto che mai l’Occidente - e non solo l’Occidente - è, dopo di allora, parso in balìa di un disorientamento morale così profondo e diffuso, che fa sentire i suoi effetti in tutti i campi, prima di tutti forse nella politica, in cui quelle che Weber chiamava le “potenze diaboliche” sembrano dominare minacciosamente il quadro non solo delle singole nazioni ma del mondo intero.

Inoltre, com’è stato osservato, la globalizzazione ha creato un nuovo avversario del Bene: l’Enciclica Sollicitudo rei socialis (1987), dopo aver ricordato che «Il dramma della situazione contemporanea, che sembra abbandonare alcuni valori morali fondamentali, dipende in gran parte dalla perdita del senso del peccato», sollecita a riflettere sulle «strutture di peccato», il cui radicamento non è più solo la coscienza individuale, ma le creazioni umane perverse che a un certo punto paiono sfuggire al controllo e al governo dell’uomo, mai come oggi assimilabile alla figura dell’“apprendista stregone”. Per esempio, quello che induce alcuni dei “trans-umanisti” all’apologia trionfalistica del dominio sul mondo-natura attraverso la potenza della scienza e della tecnica sempre più sofisticate può legittimamente configurarsi, per altri, come il vertice sommo e drammatico dell’alienazione degli esseri umani dal mondo reale, il quale - con una singolare eterogenesi dei fini che fa emergere una contraddizione palese di questa attuale versione del prometeismo -, invece di avviarsi verso “magnifiche sorti e progressive”, gli sta crollando addosso. E non diversi sono gli effetti di una globalizzazione affidata esclusivamente alle potenze della finanza, del mercato, delle armi.
La pandemia del Covid 19, lungi dall’essere una “punizione” divina per i peccati degli uomini, sembra piuttosto poter essere letta, per credenti e non credenti, a riflettere sulla fragilità dei poteri conoscitivi e operativi degli esseri umani: occasione e non punizione, quindi.
In queste condizioni lo spazio della speranza si fa sottile, anche se ciò non significa - come vorrebbe un realismo che sta riacquistando forza e adesioni nei più diversi ambienti, politici e non - che sia ormai del tutto consumato. Su tale insieme di temi questo numero di “Cosmopolis” invita a riflettere - mettendo a frutto competenze diverse e diverse sensibilità - sulle alternative della storia che ci stanno dinanzi e rispetto alle quali, se il senso di colpa può essere venuto meno, la colpa o, meglio, le colpe restano nella loro schiacciante oggettività.



Roberto Gatti


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