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Storia e struttura del Populismo italiano

FRANCA PAPA
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe

Tempi difficili per gli analisti politici. Il mondo che ci circonda appare sempre più travolto da un confuso destino di rovina, oppure faticosamente avviato verso una inevitabile ma negativa semplificazione. In disparate aree del mondo, lontane e vicine a noi, masse sterminate di uomini e donne scendono in piazza anche a rischio della vita e si contrappongono con durezza ai loro governi. Accade in Cile, in Venezuela, in Bolivia ma anche in Libano, in Iraq, ad Hong Kong come in Francia. Li spinge verso la disperazione la corruzione, la violazione dei diritti umani, la negazione del diritto al futuro, ma spesso e quasi dappertutto la miseria delle retribuzioni o la mancanza di lavoro. La siccità, la carestia, le guerre sospingono centinaia di migliaia di uomini verso le aree del mondo che appaiono più sicure e più ricche. Verso il Nord America e verso l’Europa un flusso ininterrotto di esseri umani testimonia il grado altissimo di sofferenza cui la barbarie della guerra, ma anche i mutamenti climatici, le carestie le siccità sottopongono tutte le forme di vita. A questa nuova e dilagante rovina guardano con rabbia e disperazione milioni di giovani e giovanissimi che scendono in piazza in tutto il mondo per chiedere una generale assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni ma anche un’inevitabile e drastica trasformazione del modello di sviluppo.
Difficile cercare un unico principio di tutta questa rovina, così ampia e trasversale ai continenti e alle generazioni, eppure qualcuno ci prova, e sono in molti a credere che si possa drammaticamente semplificare a proprio comodo fornendo immediatamente parole d’ordine comprensibili a tutti. È colpa della globalizzazione: la globalizzazione è fallita. La globalizzazione ha prodotto l’ingresso nell’economia-mondo di masse sterminate di esseri umani che chiedono lavoro, diritti, dignità, accesso alle risorse. In alcune aree del mondo, a ragione di questo, a ragione della fuoriuscita di milioni di individui dall’elementare destino della morte per fame, sono nati nuovi soggetti dell’economia globale (si pensi all’India e alla Cina) e questo ha prodotto, con l’esercizio della concorrenza, una riduzione delle risorse disponibili per le aree più ricche del pianeta. Se mangiano loro, dovremo tirare la cinghia noi, così predica il liberismo economico, come sempre ha predicato l’essenza profonda della sua legge: mors tua vita mea. E dunque occorrerà tornare indietro. Tornare alla vecchia e cara condizione degli Stati-nazione, con i loro confini vigilati, dentro l’amico fuori il nemico, ricostruire muri e fili spinati, istituire i dazi che difendono le merci nazionali. Così, dicono, potranno crescere i salari e rifiorire i consumi.
La responsabilità della globalizzazione fallita travolge agli occhi dell’opinione pubblica le classi dirigenti e le élites politiche che si sono macchiate del crimine di averla apprezzata e favorita, particolarmente in Europa, con la lealtà alle istituzioni europee fino alla costituzione della moneta unica, e con il sostegno a quei trattati che hanno impedito la progressione del debito pubblico senza controllo e, addirittura, hanno sostenuto ed auspicato l’approdo all’unità politica.
La Brexit è un esempio mirabile dell’efficacia di questa stupida sequenza di banalità, ma lo sono altresì il grande successo dei partiti sovranisti, o meglio nazionalisti, della destra o della destra estrema in tutta Europa ed anche il successo di Trump negli Stati Uniti (che è il punto cruciale dell’intera fase politica) e quello di Bolsonaro in Brasile che è una grave minaccia per l’equilibrio bio-climatico dell’intero pianeta, proprio perché, qualsiasi cosa ne dicano gli acuti sostenitori della filosofia politica del sovranismo, nulla più esiste nel pianeta che non sia assolutamente e intensamente interdipendente.
A nulla serve la elementare considerazione che il mercato capitalistico è mercato-mondo già al momento della sua costituzione e che senza libera circolazione delle merci e degli uomini non sarebbe stata semplicemente possibile la società industriale e che la riduzione degli apparati produttivi allo spazio ristretto dei consumi interni porterebbe rapidamente le società nazionali europee ad una tale riduzione di risorse e di reddito da far rimpiangere il più remoto passato. A nulla serve mostrare con piena evidenza che non è lì che va cercata l’origine della crisi, origine che forse non è neppure raggiungibile con l’analisi di un unico fulcro.
Se non sono disponibili spiegazioni semplici, non sono praticabili parole d’ordine a misura di social e dunque adatte a questi circuiti banali di formazione dell’opinione pubblica, in una società che non legge giornali, a mala pena fruisce dell’intrattenimento in televisione, e meno che mai ascolta messaggi che chiedono più di qualche minuto d’attenzione, che non capisce quello che accade alla sua vita e che accumula rancore contro tutto.
Le società europee, se pure a macchia di leopardo, appaiono, a mio avviso, abbastanza preparate ad un processo di rivoluzione passiva; e probabilmente questa sta già avvenendo. La crisi del modello politico democratico e dei partiti che lo hanno storicamente sostenuto non discende dalla generale domanda di cambiamento che si è prodotta dal fallimento della globalizzazione.
Questi fenomeni vengono da lontano in Europa e la mistificazione che si produce intorno alla fenomenologia della crisi è solo l’ultimo stratagemma di molti e diversi soggetti politici ed economici nel mondo che ora hanno deciso di dare una stretta, perché ci sono le condizioni, di produrre consenso intorno ad una una trasformazione verso la democrazia illiberale. Perché forse questo è il dato nuovo di cui tener conto: il capitalismo non ha più bisogno di democrazia, anzi, forse il modello cinese appare perfino più funzionale ad un ritmo intenso di accumulazione. Ogni sistema politico che consenta un grado più intenso di accumulazione della ricchezza, a discapito dei diritti, dei consumi e della emancipazione di chi lavora, appare più utile a produrre profitto.
Forse per questo il “caso italiano” può servire come campione di analisi utile.

In Italia intorno al caso Moro la storia cambia verso. Gli eventi che segnano la storia italiana tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, cioè il rapimento, la prigionia e l’uccisione di Aldo Moro, segnano l’inizio di un ciclo profondamente involutivo della storia politica italiana che in qualche modo non si è mai concluso.
Molto ampia è la serie di effetti che quell’evento produce nel tessuto profondo della società italiana e quegli effetti si riveleranno molto presto e, anche a grande distanza, irreversibili. Comincia da quel punto un lungo processo di crisi dei due grandi partiti politici di massa che erano stati protagonisti della storia italiana dal dopoguerra in poi, crisi della forma partito (come vedremo se pur brevemente), crisi della forma dello Stato, che a questa forma-partito era legat fin dalla costruzione dell’architettura della Costituzione.
Ciò che quell’evento gravissimo dispiega allo sguardo più attento degli analisti politici, ma anche a quello più superficiale e comunque attonito della pubblica opinione, è la straordinaria fragilità dello Stato e la totale inefficacia degli attori politici, dei partiti di fronte all’emergenza. Certo, il paese era provato da una lunga serie di azioni delittuose agite da gruppi eversivi di diversa matrice, ma in altri la reazione delle forze politiche era sembrata più pronta e più efficace, l’analisi più lucida e più determinata.
Di fronte all’agguato di via Fani, nella lunga fase delle ricerche, dell’interlocuzione con le Brigate Rosse, il Governo, il Parlamento, i Partiti, la struttura dello Stato appaiono sostanzialmente impotenti. Perché questo avviene? Si capirà solo dopo molti anni che la ragione profonda del delitto Moro era appunto proprio quella che in quei giorni si mostrava evidente: decapitare il modello politico italiano.
Nella figura e nell’opera di Moro giungeva a compimento, infatti, un lungo cammino di maturazione delle due culture politiche di riferimento del sistema politico italiano, ciascuna attraverso un proprio autonomo percorso evolutivo. La dottrina del “compromesso storico” di Enrico Berlinguer e la teoria della “democrazia inclusiva” di Aldo Moro stavano conducendo il paese verso una convergenza che doveva guidare verso una modernizzazione democratica assai innovativa.
Questo progetto oltrepassava in forma originale la contrapposizione per così dire “tra le classi” dei vecchi modelli politici europei, che riproduceva anche la divisione in blocchi della struttura della “guerra fredda”. La prospettiva era quella di un modello di “economia sociale di mercato”sostenuto e sospinto da una larghissima base di consenso, quella appunto di due grandi partiti politici popolari, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.
Con la morte di Moro questo progetto viene brutalmente espunto dalla storia politica italiana ed insieme ad esso si spezza in due la storia delle culture politiche che lo avevano sostenuto. Incomincia la fine di quei partiti e l’involuzione del sistema politico italiano.
Gli anni che seguono chiudono il ciclo degli “anni di piombo”. Le prospettive della società italiana si fanno più anguste. Nei grandi partiti avvizzisce la spinta propulsiva, che era costituita dal disegno della costruzione di una larga unità di popolo tale da e sospingere il paese verso l’obiettivo di una società migliore meno segnata dalle diseguaglianze e più concentrata sui diritti di ognuno di accedere alle risorse necessarie a una vita dignitosa per mezzo del lavoro. Il bene comune, quello sviluppo e quel progresso che era sembrato per un momento necessario per tutti e dunque bisognoso dello sforzo e del sacrificio di ciascuno, di ciascuno secondo le sue possibilità e le sue capacità, scompare dall’orizzonte delle forze politiche italiane.
Da quel giorno in poi, fatta salva la breve stagione unitaria della lotta contro il terrorismo, che poi rapidamente scompare appena ottenuto l’obiettivo, sarà per sempre una parte contro l’altra, un partito contro l’altro senza una prospettiva strategica, a gestire ciascuno il suo spazio sempre più assediato e ristretto. Tornano a guidare il gioco gli interessi particolari.

Nel dicembre del 1979, a paradossale risarcimento della eclissi della grande politica e dell’esaurirsi progressivo delle tensioni ideali che avevano accompagnato il cammino della repubblica dall’Assemblea Costituente fino agli anni ’70 e che avevano pensato il tema dell’allargamento delle basi della democrazia italiana nella visione di Moro e di Berlinguer, Craxi si inventa, sulle pagine dell’Avanti, un oggetto destinato ad avere un inesauribile successo nel corso degli anni fino ai giorni nostri: la governabilità.
La difficoltà a governare l’Italia non discende da una questione politica. Non dalla circostanza che una grande quantità di cittadini è esclusa dal governo del paese per ragioni che attengono alla stringente spartizione del mondo in blocchi contrapposti. Non al particolare che, tra gli esclusi, vi sono i lavoratori, cioè i produttori materiali della ricchezza. Non dal fatto che a questa “opposizione” fanno riferimento la maggior parte degli intellettuali che ha prodotto la storia della Repubblica. e non si governa come si potrebbe, se la democrazia non è “decidente”, è perché occorre risolvere qualche difetto “tecnico” della nostra Costituzione.
Craxi inventa così la Grande Riforma. Il cuore di questa riforma sarebbe stata l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Nel corso degli anni, diverse commissioni bicamerali propongono modifiche della Carta: sono da subito presenti i temi ancora oggi all’ordine del giorno: la funzione legislativa attribuita prevalentemente alla Camera dei deputati, la riduzione del numero dei parlamentari, la fiducia accordata al solo presidente del consiglio, la “sfiducia costruttiva”. Questo lavoro, che ha inizio nel 1983 (commissione Bozzi) e procede fino al 1998 (commissione d’Alema) si infrange per iniziativa di Silvio Berlusconi, che avanza la richiesta del “cancellierato”, ma siamo già in pieno populismo.
A partire dagli anni ’80 e contestualmente alle difficili vicende della Grande Riforma prende spazio nel dibattito politico un lemma destinato ad avere grande successo anche nello spazio di un’opinione pubblica diffusa e che prepara la penetrazione massiva dell’antipolitica e del populismo. Partitocrazia è il termine che definisce un ruolo padronale dei partiti nelle dinamiche della vita pubblica. È un termine dispregiativo che viene utilizzato nelle pagine di Repubblica, anche dal suo autorevole direttore Eugenio Scalfari, proprio negli anni in cui il giornale raggiunge ragguardevoli dimensioni di vendita e circola ampiamente nelle mani dei militanti della sinistra storica. La battaglia contro la partitocrazia diventa trasversale e coinvolge ex democristiani come Mario Segni, i Radicali di Pannella e una forza politica appena formata come la Lega Nord di Bossi. Anche alcuni ambienti della sinistra ne sono influenzati. Sono al centro il finanziamento dei partiti, le pratiche clientelari, la “lottizzazione” delle cariche pubbliche. In realtà l’obiettivo è proprio colpire la democrazia rappresentativa, la repubblica parlamentare, i “corpi intermedi” in quanto tali (partiti, sindacati, associazioni) che si devono ridurre per fare spazio al rapporto diretto tra il popolo e il capo politico.

Mentre il paese è impegnato in vivaci polemiche intorno a questi temi l’Italia perde di vista la nuova grande rivoluzione industriale che prende forma e si appresta a travolgere il sistema della grande industria e a respingere nell’archeologia industriale i comparti fondamentali e trainanti dell’economia italiana. Il fordismo è finito. L’informatica sta per divenire la nuova frontiera dell’economia- mondo. Ed è una perdita bruciante. In Italia l’Olivetti ha prodotto il primo grande Computer moderno, lo aveva acquistato la Nasa per il lancio dell’Apollo 11. Era il 1965, l’ingegner Perotti aveva continuato a lavorare al programma P101 fino a mettere a punto la “Perottina”, il primo vero Personal Computer. Tra il 1970 e il '71 si scopre il sistema dei cristalli liquidi per il Display. La ricerca continua, vi lavorano italiani e americani in California, ma con poco sostegno. La politica non ci crede, lo Stato non sostiene lo sforzo di innovazione. Nel 1980 a Cupertino si mette a punto l’M20, il PC di punta della Olivetti, vi lavorano 140 persone di cui più della metà americani. Errori, brevetti venduti, brevetti rubati, Olivetti chiude in California una struttura di ricerca di 250-300 persone nel 1994, annientata dalla concorrenza, dal provincialismo della gestione di Ivrea. Apple mette sul mercato il primo PC nel 1976, undici anni dopo il primo computer di Olivetti.
L’avvento delle nuove tecnologie, la scoperta dell’intelligenza artificiale cambiano profondamente anche la forma del lavoro. Presto il lavoro tradizionale della grande fabbrica si trasforma e l’informatizzazione dei processi produttivi riduce ulteriormente lo spazio umano della interattività con la macchina. La macchina fa da sola, presto sarà solo robotica, e il ruolo dell’intelligenza umana si assottiglia e si riduce oltre i limiti che già aveva prodotto il fordismo. Già si intravede un futuro non tanto lontano in cui ciascuno, che lavori o no, stringerà in mano un display, un “videofono” da cui possa pervenire alla sua vista o al suo udito l’esito di conoscenza o di decisione che viene da lontano e in un luogo remoto. Una lenta ma inesorabile modificazione antropologica incomincia a farsi strada anche in Italia, si modifica la mentalità del cittadino, cambiano anche i “luoghi” di formazione dell’opinione pubblica. L’elettore si adatta progressivamente alle nuove forme della comunicazione politica. Presto diventerà “spettatore” della politica. Questa trasformazione si connette in modo progressivo alla critica della partitocrazia ed alla richiesta dell’implementazione dei poteri alle funzioni apicali dello Stato: il “presidenzialismo” di Craxi e il “cancellierato” di Berlusconi (più avanti) sono l’esatto corrispondente della guerra alla Partitocrazia ed il supporto necessario è la riduzione del cittadino a spettatore.
Ma intanto non tira aria buona in Europa. Nel 1979 Margaret Thatcher diventa premier in Inghilterra e nel 1981 Ronald Regan viene eletto presidente degli Stati Uniti. Inizia un ciclo fortemente improntato al liberismo. I caratteri della fase che si apre in Europa sono fortemente connotati dalla riduzione drastica della spesa pubblica. L’Italia si impoverisce per la implementazione del debito pubblico che nasce dalla brusca interruzione della spinta allo sviluppo e alla innovazione. Il Welfare italiano diventa sempre più insostenibile e i tagli reiterati di spesa non colmano mai il disavanzo.
L’impoverimento delle classi popolari e dei ceti medi è l’ultimo tassello del percorso di formazione della “mentalità populista”: critica distruttiva dei partiti politici, richiesta di poteri più forti per una o più funzioni decisionali apicali, riduzione della partecipazione politica a fruizione visiva, impoverimento e riduzione del welfare per tutti.

Ma il grande traghettatore dalla repubblica dei partiti verso il populismo è Francesco Cossiga, esplicitamente e autorevolmente da Presidente della repubblica eletto, quasi all’unanimità, dal parlamento alla prima chiama nel 1985. È impressionante pensare che Cossiga era lì, in via Caetani davanti al portellone del bagagliaio della Renault rossa a guardare il cadavere rannicchiato di Aldo Moro. Proprio lui, il ministro dell’interno che aveva immaginato sofisticati piani antiterrorismo, che aveva decapitato i gruppi dirigenti dei sistemi di sicurezza italiani, l’uomo di “Gladio”, l’uomo di fiducia dei servizi segreti americani. Nessuno più di lui è lontano dal pensiero di Moro, nessuno è più ossessionato dall’anticomunismo e dal paradigma della guerra fredda. Certo si può dire che dalla fine degli anni ottanta, in coincidenza con la seconda fase del suo mandato, Cossiga si impegna in una ininterrotta serie di esternazioni contro la “Repubblica dei partiti” che gli guadagnano il titolo di “Picconatore”. Ma è soprattutto lo stile che sorprende e innova il repertorio della comunicazione politica: il Presidente si rivolge direttamente ai cittadini, attraverso il mezzo televisivo, saltando deliberatamente ogni mediazione e tutti i canali istituzionali consolidati.
Ciò accade anche perché, nel frattempo, molti e radicali cambiamenti sono intervenuti nello scenario internazionale; e da questi sono derivate incisive modificazioni anche nel sistema politico italiano. Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino.
Craxi lascia il governo del paese nel 1987 dopo aver inaugurato una larga discussione sulla Riforma Istituzionale, ma anche sul “decisionismo politico” che aveva segnato fortemente lo “stile” del suo servizio alla Repubblica. Nel 1989 il segretario del PCI Achille Occhetto (12 novembre) annuncia che il Partito avrebbe cambiato nome cancellando per sempre la denominazione “comunista” alla sua intestazione e dà forma ad un processo che porterà, al prezzo di scissioni e defezioni significative alla fondazione del Pds (Partito democratico della sinistra) nel 1990.
La crisi della Democrazia Cristiana affonda le sue radici nella fine della guerra fredda che la caduta del muro di Berlino segnala e nella fine conseguente della funzione di katéchon contro il comunismo che aveva costituito la sua ragione fondante.
Cossiga percepisce l’accelerazione del processo degenerativo del sistema politico italiano. Ma anche per lui, come per Craxi, la crisi del sistema politico mette a tema l’aggiornamento della forma di governo, la fine della prima repubblica, e più specificamente in Cossiga la crisi doveva comportare la distruzione dei Partiti, divenuti ormai punto concentrato di corruzione e malaffare rivolto contro “la gente”, che il Presidente si assumeva il compito di rappresentare.
La storia della presidenza Cossiga finirà nel modo più infausto. Travolto dal caso Gladio, in un conflitto lacerante con Andreotti (presidente del Consiglio), sfiorato dalla richiesta della messa in Stato d’accusa, Cossiga si dimette nell’aprile 1992 in polemica aspra col suo partito.
Mentre tutto va in rovina, nel 1990, con il forte sostegno di Bettino Craxi, il Parlamento approva la legge Mammì che riconosce il monopolio dell’imprenditore Berlusconi, il duopolio tra Rai e Fininvest per la raccolta televisiva, autorizza la presenza di telegiornali all’interno delle televisioni commerciali.
Il 6 maggio del 1990, alle elezioni amministrative la Lega Nord di Umberto Bossi raccoglieva il 4% dei voti su base nazionale, ma in Lombardia raggiungeva il 18,9% davanti al PCI (18,8%) e dietro alla DC (28,6%). Il partito del nord, che si era costituito dalla fusione di diverse aggregazioni regionali, portava in dote istanze secessioniste ma poi, anche e soprattutto un tratto che diverrà determinante nella successiva fase politica: il “plebiscitarismo”.
Per la prima volta dopo il fascismo si assisteva in Italia ad adunanze massive di popolo che investivano direttamente il capo politico, per acclamazione, come si vide poi negli anni nei raduni di Pontida. Mai ancora era accaduto che un movimento politico facesse uso propagandistico di miti e di simboli riferiti direttamente “al sangue” e “alla terra”. Il fenomeno, che ebbe una larghissima eco sui media, inventò l’esistenza di un “popolo padano” e di una “terra padana” e li pose al servizio di una causa molto popolare e facilmente comunicabile: la secessione fiscale e la rottura del patto di cittadinanza su cui era fondata la nazione. L’ideologo della Lega fu Gianfranco Miglio.
Miglio era allora Preside della Facoltà di Scienze politiche alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e aveva a lungo aderito alla Democrazia Cristiana. Studioso del Cameralismo tedesco aveva fondato e sostenuto negli anni ‘60 la Fondazione italiana per la storia amministrativa. L’approdo al pensiero di Schmitt lo porta alla popolarità in Italia. Nel 1972 cura, assieme a Pierangelo Schiera, la traduzione di alcuni saggi pubblicati dal Mulino col titolo Le categorie del politico. Sulla scorta delle categorie di Schmitt, Miglio interpretò la caduta del muro di Berlino (1989) come la fine dell’età degli stati moderni cui doveva succedere il ritorno al medioevo: la costituzione di comunità nei-federali, corporazioni dotate di potere politico ed economico. Di qui il suo appello a riscoprire i sistemi politici che avevano preceduto storicamente la formazione degli Stati Nazionali, a riscoprire quel variegato modello medievale costituito dai ceti, dalle corporazioni, dalle civiltà comunali.
Per questa via Miglio giungeva alla Lega. Meno chiaro appare invece il percorso che conduce, negli stessi anni, la filosofia italiana ad una lunga e molto fortunata stagione di studi su Carl Schmitt che mutua da questo autore una grande quantità di concetti decontestualizzandoli e radicalizzandoli oltre ogni limite fino a concentrare nella sua opera una grande quantità di risposte al tema aperto in Italia della crisi del sistema politico.
E tuttavia credo che ci sia una ragione se la discussione tra i più importanti gruppi intellettuali italiani prende questa piega e non un’altra. La percezione della crisi del sistema dei partiti ingenera nella comunità scientifica l’idea di trovarsi al cospetto della fine delle forme liberali di rappresentanza politica e, quindi, anche delle funzioni di unificazione nazionale che erano state interpretate dal Parlamento fin dalla nascita della Costituzione repubblicana. Così il tema sul quale la discussione si concentra è quello della “decisione politica” che, in Schmitt, è il punto da cui scaturisce la “sovranità” e dunque lo Stato.
E tuttavia tutta la discussione sospinge l’attenzione verso la “leadership”, cioè verso la necessità del decisore che, come è noto, in Schmitt si individua in un luogo esterno rispetto allo Stato.
Uno spazio specifico viene impegnato nella tematizzazione della schmittiana identificazione della politica come conflitto (amico-nemico). In questo l’interpretazione di Schmitt finiva col sostenere il percorso in atto in Italia verso il populismo (leaders e piazze) e verso la “democrazia del maggioritario” (con un voto in più si governa). Per questa via non veniva mai articolata una risposta alla crisi della forma-partito e del modello dello stato liberale e questo, a lungo andare, divenne un fattore potente di crescita del populismo in Italia.
Ma il peggio deve ancora venire. Il 17 febbraio 1992 la procura di Milano ordina l’arresto di Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Non era che l’inizio. Tra il ‘92 e il ‘93 tutti i partiti furono investiti dall’inchiesta “Mani Pulite” della magistratura milanese e venne messo in luce un diffuso “sottobosco” di malaffare finalizzato prevalentemente al finanziamento dei partiti. Le inchieste travolsero soprattutto il PSI e la DC, ma finirono col toccare tutto il sistema dei partiti. Naturalmente non ci fu modo di indirizzare questa crisi verso il vero tema che emergeva dalle indagini: il finanziamento della politica in un paese democratico, come previsto dalle norme di legge allora vigenti, era del tutto insufficiente Si preferì dare voce alle piazze, che divennero protagoniste in forme irrazionali e a volte abbiette di un vero e proprio linciaggio pubblico che aveva come oggetto i Partiti, i privilegiati, i potenti. È il tema della critica della “casta”, tanto caro anche alla propaganda di questi giorni, che è un tema qualunquista, populista e sostanzialmente di destra.
E quindi fu la destra che l’impugnò con decisione. In Parlamento la destra e la Lega sventolarono il cappio e le manette. E mentre a sinistra (il PDS era restato quasi immune) Occhetto si illuse di poter lucrare da una catastrofe che avrebbe inghiottito di colpo tutto il sistema politico italiano, il populismo cercò e trovò la destra in Silvio Berlusconi. Perché se la politica non si può finanziare in modo trasparente, allora farà politica solo chi ha possibilità di disporre di una grandissima quantità di risorse.
La fine della “Repubblica dei partiti” fu accelerata da un altro importante fenomeno politico che era effetto del discredito che aveva investito i partiti; diverrà rapidamente la causa della palese inutilità e irrilevanza dei partiti nella storia della seconda e della terza repubblica.
Nel 1991 si celebrò un referendum largamente partecipato per l’abolizione della preferenza plurima sulla scheda elettorale e a favore della preferenza unica. La riforma approvata istituiva il sistema della preferenza unica e garantiva una minore riconoscibilità del voto e un ridotto controllo clientelare. Ma il secondo referendum, anche questo promosso da Mario Segni, introduceva la legge maggioritaria al Senato. Conseguenza dei referendum fu la legge elettorale di tipo misto, ma prevalentemente maggioritario (il 75% dei collegi erano uninominali) che prese il nome di “Mattarellum” dal nome del relatore che la portò in Parlamento (Sergio Mattarella).
Comincia così l’era della cosiddetta “democrazia del maggioritario”. L’effetto di questa legge elettorale, cui faceva riscontro la legge per l’elezione dei sindaci e quella per l’elezione dei presidenti di regione, tutte di tipo maggioritario, sulla vita residua dei partiti fu immediato. Il meccanismo maggioritario concentrava ed accresceva enormemente il costo delle campagne elettorali. I partiti non avevano finanziamenti e la scelta dei candidati non poteva avere alcun riscontro nelle tradizionali “indicazioni di partito”. Così il principale requisito per la scelta dei candidati divenne la disponibilità di ricchezza da investire nella propaganda o la presenza di finanziatori disposti a sostenere finanziariamente il candidato che, una volta eletto, avrebbe “restituito” in denaro o in “natura” quanto aveva ottenuto. Intorno ai candidati si crearono “comitati elettorali” formati da portatori di interessi che surclassarono rapidamente i partiti. La “moralizzazione della politica” che ne conseguiva mi pare evidente.
Inoltre questo meccanismo (chi ha un voto in più vince), nella sua straordinaria banalità, senza contrappesi e senza bilanciamenti, per quanto potesse apparire ai più comprensibile e popolare, in un paese sempre sostanzialmente spaccato in due tra destra e sinistra, produceva una democrazia zoppa. Non ne derivò alcun progresso nella direzione della governabilità e si produsse invece una continua pulsione verso la modificazione della legge elettorale che ancora permane.
Così, dal ciclone di Tangentopoli, nelle elezioni del 1994 nasceva una forza politica nuova, che si guardava bene dal definirsi partito, che utilizzava appieno il paradigma del populismo: un leader forte, molto ricco, intensamente visibile e un popolo largo, diffuso, sempre convocato e raggiungibile. Il leader era il monopolista delle televisioni commerciali italiane Silvio Berlusconi e il popolo è quello degli spettatori dei programmi televisivi. Il partito coincide all’inizio con la sua azienda, la Fininvest, e si chiama Forza Italia. Berlusconi scende in campo con un video televisivo preregistrato e tecnicamente ben confezionato. Si presenta come colui che è in grado di sgomberare il campo dalle chiacchiere dei politicanti senza mestiere e di costruire un nuovo “miracolo italiano”.
Berlusconi compone una coalizione di centrodestra con la Lega al nord e il MSI al sud. A questa aggregazione fanno capo anche i radicali di Pannella e il Centro Cristiano Democratico di Pier Ferdinando Casini che si dota di un programma liberista ispirato a Reagan e alla Thatcher. Vinse le elezioni debolmente contrastato da un “Fronte progressista” capitanato da Achille Occhetto e dai centristi del Patto per l’Italia che raccoglievano le forze residue dei partiti tradizionali.
E tuttavia vinse di misura, con il 42,8% dei seggi, anche se, in verità, il paradigma che proponeva si era già fatto strada nella mentalità degli italiani. La disillusione nei riguardi della politica, il rifiuto dei partiti, la sfiducia nelle istituzioni la ricerca del cambiamento a tutti i costi e la ricerca di un uomo nuovo, forte e risolutore. L’antipolitica, un altro sentimento-guida del populismo moderno sorreggeva bene la speranza di aver trovato in Berlusconi l’uomo della provvidenza. La personalizzazione della politica, la fiducia nel personaggio, la convinzione di poter entrare in una connessione sentimentale con l’imprenditore che si era “fatto da solo” attraverso il mezzo televisivo che faceva bella mostra dei mondi luccicanti delle fiction.
Negli stessi anni mutazioni analoghe stavano investendo le più importanti democrazie occidentali. Il lungo ciclo liberista che investiva il mondo stava impoverendo drasticamente gli strati più poveri delle popolazioni. L’avvento di un nuovo ciclo della storia del capitalismo, dell’informatica, della cibernetica che smantellava pezzo dopo pezzo la civiltà fordista e la centralità della fabbrica gettava nella disoccupazione e nella fame milioni di persone nel mondo, minava nel profondo la fiducia nella politica democratica ed apriva la strada a forme confuse e drammatiche di protesta che non potevano essere rappresentate nello spazio della politica degli stati.
Si apriva così un ciclo lungo della storia italiana dominato dall’antipolitica, dalla ricerca del cambiamento ad ogni costo, dalla personalizzazione, dal populismo e dal plebiscitarismo.
L’antipolitica italiana giunge “al potere” lungamente preparata, come abbiamo cercato di dimostrare da vicende specifiche della nostra storia recente, ma reca comunque alcuni segni peculiari storicamente determinanti il profilo della piccola borghesia italiana e delle classi subalterne, soprattutto quando queste non trovano canali adatti alla loro rappresentanza politica. La crisi del sistema dei partiti e dei corpi intermedi fa emergere le peculiarità degli strati popolari e dei ceti medi italiani. Essa assume toni diversi: da quelli apparentemente più nobili che recitano “non è questo la politica, la politica è ben altro”, a quelli più rozzi che gridano “sono tutti ladri”, a quelli più opportunistici che sussurrano “tanto non cambia mai niente”. In generale aderiscono ad una dialettica aspra “piazza contro palazzo” e quasi sempre affermano di essere portati ad assegnare fiducia “alla persona”. Berlusconi prevale perché appare come un imprenditore di successo, estraneo alla politica, responsabile della sua fortuna personale e quindi efficiente, competente e capace di risollevare le sorti del paese.
Ma furono poi molti gli uomini provvidenziali nel corso degli anni che seguirono. Segni fu l’uomo dei referendum che dava voce alla società civile, Di Pietro il magistrato che incriminava la casta in nome del popolo, Bossi l’uomo che dava voce al popolo del nord, Grillo l’uomo che la dava lla rabbia della piazza e del popolo dei cittadini, Renzi, il giovane segretario del PD che “rottamava” i potenti per dare spazio e parola al popolo della sinistra.
Il fenomeno del populismo non è solo italiano, ma appare in questo ultimo ventennio come abbastanza diffuso in Occidente. Esso appare sostenuto e stimolato dalla modalità in cui, da tempo, andava maturando il processo di formazione dell’Unione Europea, modalità scarsamente democratica, assai poco partecipata, molto fortemente improntata dai vincoli dell’Unione monetaria e dalla disciplina di bilancio e poco interessata ad una vera integrazione politica tra gli stati e dalla grande crisi finanziaria che travolge l’economia-mondo nel 2006 a causa dei mutui subprime negli Stati Uniti e che si diffonde poi in tutto il pianeta generando miseria, disoccupazione, una lunga scia di insicurezza nelle possibilità del capitalismo.
La situazione divenne drammatica in Europa nel 2011 con l’esplosione della cosiddetta “crisi dei debiti sovrani”, che si manifestò pesantemente in Italia con un fortissimo incremento dello spread che costrinse il paese a una brusca svolta nel senso dell’austerità (governo Monti) e produsse l’effetto di una ulteriore disillusione nei confronti della politica e scatenò ancora più radicalmente la rabbia sociale contro le istituzioni e contro l’Europa.
L’esplosione del Movimento 5 stelle si spiega così, come l’insurrezione del popolo contro il palazzo, la totale insofferenza verso le “narrazioni” ideologiche tradizionali, la convinzione puramente demagogica che qualunque cittadino possa ricoprire incarichi di responsabilità e di governo sia nelle grandi città che nello Stato, con gli esiti che ormai appaiono pienamente evidenti.
Mentre questa drammatica semplificazione abbaglia gli elettori in tante aree del mondo, i problemi si fanno sempre più complessi. La mutazione climatica spinge verso la povertà e la fame aree sempre più vaste del pianeta. L’esiguità delle risorse a disposizione rende insopportabile il sistema delle diseguaglianze che si fanno sempre più acute.
Il bisogno di politica si fa sempre più vasto e stringente e quelli su tappeto non paiono problemi alla portata dell’“uomo solo al comando”. E tuttavia una soluzione alla crisi delle democrazie liberali tarda ad arrivare.


Bibliografia

De Rosa G. - Monina G. (2003, a cura di) L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, 4 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli.
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