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Dietro la maschera dell’ordine. Innocenza, colpa e sacrificio ne L’esclusa di Pirandello

MARIA FELICIA SCHEPIS
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica
Illustre Amico,
Lei conosce le vicende di questo mio romanzo. (…) un’innocente, scacciata dalla società – per
esservi riammessa – deve prima passare sotto le forche dell’infamia, commettere cioè davvero quella
colpa di cui ingiustamente era stata accusata
(Pirandello, p. LXVI).

Così scrive Luigi Pirandello all’amico Capuana in una lettera del dicembre 1907, riassumendo in poche battute la complicata storia di Marta Ayala, protagonista del suo primo romanzo, L’esclusa che, di seguito, leggeremo attraverso alcune categorie antropologiche di René Girard.


L’ordine dei Padri

La cittadina siciliana descritta ne L’esclusa è un luogo geograficamente isolato sul confine tra l’Ottocento e il Novecento, terrorizzato dai cambiamenti che dallo sfondo storico minacciano di mettere in crisi la rassicurante ripetizione del sempre uguale. Mancante di una denominazione specifica, tale città è forse Girgenti, costante «catalizzatore della fantasia pirandelliana» (Sciascia 1996, p. 43), ma potrebbe essere una qualunque comunità chiusa che si autoregola con le ferree leggi della tradizione, con i suoi divieti, le sue gerarchie, le sue maschere sociali; dove “quel che pensa la gente” rappresenta il potere sovrano.
Pirandello ci presenta una situazione triangolare che annuncia la rottura di un equilibrio di coppia. Nella scena cruciale della storia Marta è sorpresa dal marito Rocco con una lettera in mano. La lettera testimonia lo scambio epistolare con un altro uomo, un certo Gregorio Alvignani, un promettente parlamentare brillante ed erudito: questo terzo incomodo fra marito e moglie desidera la sua donna; l’intruso vuole usurpare il suo ruolo! Ancor più odioso «il rivale insolente», direbbe Girard, perché dotato di prestigio, di un certo inconfessabile «fascino» (2005, p. 15). Per Rocco quella corrispondenza è un fatto, prova certa di adulterio, attentato alla rispettabilità di un marito, di una stimabile famiglia, violazione di un sacro tabù dell’intera comunità. Dopo avere raccolto rabbiosamente la lettera, «caduta come una foglia secca» sul pavimento, caccia di casa Marta «a urtoni, a percosse», senza darle possibilità di chiarimento, e ancor più senza riguardo alla sua incipiente maternità (cfr. Pirandello, p. 18).
In realtà la colpa non sussiste, il fatto è vero solo apparentemente. Come l’antico Otello shakespeariano, Rocco vede il male dove regna una perfetta innocenza. La sua gelosia è ingiustificata poiché Marta gli è fedele:

Aveva forse amato l’Alvignani? Ma via! Non le pareva neanche ammissibile che qualcuno potesse crederci sul serio. Tutto il suo torto consisteva nel non aver saputo respingere, come doveva, quelle lettere dell’Alvignani. Le aveva respinte, ma da inesperta, rispondendo (ivi, p. 28).

Aveva solo ceduto al piacere di uno scambio intellettuale su questioni filosofiche che l’Alvignani le aveva sottoposto corredandole, «per disgrazia», di una certa «composta sentimentalità». Delle frasi d’amore, in quella furtiva corrispondenza, «non se n’era curata, o ne aveva riso, come di superfluità galanti e innocue» (ibidem). L’oggetto del suo desiderio, in quella relazione, è ben altro: sembra desiderare tacitamente – attraverso la mediazione di quell’uomo letterato – l’immagine di un’altra se stessa colta ed erudita; immagine a cui aveva dovuto rinunciare per assecondare la convenienza sociale del matrimonio. Un innocente sogno segreto. E tuttavia la realtà, a partire dalla travolgente gelosia di Rocco, sarà interpretata in senso tragicamente diverso.

Per un momento il giovane marito è assalito da una domanda esistenziale dal sapore tutto moderno: «Che debbo fare?» (ivi, p. 10). Un barlume di pensiero autonomo che subito rientra. Preoccupato di salvare le apparenze, si aggrappa alla rassicurante legge dei Padri, che trova ispirazione nella solidità dell’esperienza passata. Ora, senza bisogno di impegnarsi a pensare altrimenti, «la casa paterna (…) lo riprendeva», mentre «la sua casa maritale era rimasta vuota, buja» (ivi, p. 9). Quel buio si prolungherà per tutto il romanzo, avvolgendolo sino alla fine come una caotica oscurità primordiale che tutto confonde.
Percepiamo buio subito nella casa paterna, dove ritroviamo Rocco la sera «dopo la disgrazia» (ivi, p. 3). È quello in cui vive il gretto pater familias Antonio Pentagora, pur convinto di essere invece l’unico, in una famiglia di ciechi, a saper vedere la fatalità inesorabile dei maschi di casa: «il marchio dei cervi» (ivi, p. 65). Sciocchezza il credere di poter cambiare l’infamia delle corna, come una legge predetta un tempo da suo padre e toccata anche a lui, quando aveva dovuto ripudiare la propria moglie Fana, erroneamente considerata «una santa!» (ivi, p. 8). La figura di Fana resterà evanescente sullo sfondo del racconto, prima di palesarsi alla fine, per svelare il vizioso rituale familiare bisognoso di tritare vittime per mantenere in piedi il proprio equilibrio. Il fatto successo a Rocco è per il Pentagora la conferma di un destino già “apparecchiato”, come il posto che gli ha riservato per la cena, alla quale si prepara come non fosse successo nulla, considerando cinicamente sufficiente, per non perdere la rispettabilità sociale, l’enorme ricchezza materiale accumulata: «per fortuna era ricco: dunque, forte» (ivi, pp. 65-66).
Il buio si infittisce a casa di Francesco Ayala, il padre di Marta. Da un padre ci si aspetta protezione dalle ostilità del mondo, non il rifiuto. Ma anche costui, come il Pentagora, è orgoglioso schiavo del pregiudizio sociale. Convinto che il fatto della figlia gli farà perdere l’immagine di un’onorevole vita priva di falle, senza interrogarsi sulla fondatezza dell’evento si rinserra nell’oscurità di una stanza per la vergogna. La vergogna rappresenta una «catastrofe dell’identità». «Non si tratta soltanto di essere visti dagli altri diversamente da come avremmo desiderato»; noi stessi all’improvviso «ci scopriamo altro da ciò che sentivamo di essere». Per questo, contrariamente al senso di colpa «che può invocare riparazione», la vergogna è senza via d’uscita (Mazzù 2011, pp. 200-201). Chiuso in quella stanza, l’Ajala infatti si ammala fino a morire. Acritico ingranaggio di un meccanismo censore, con il suo gesto legittima indirettamente la condanna sociale che di là a poco infliggerà alla figlia tutta la comunità. «Non per nulla s’è chiuso al bujo: – constata Marta – così, come un cieco, mi condanna» (Pirandello, p. 39). La sua morte, che provoca come naturale conseguenza, nella stessa notte, la perdita del figlio che Marta porta in grembo, mortifica la legge dell’amore per riconoscere la superiorità della legge dell’onore: quel codice non scritto di riferimento collettivo su cui si costruisce una reputazione sociale degna di rispetto.


Dal triangolo al cerchio

Come salvare l’onore, è il problema di Rocco. Che cosa sarà domani, quando tutto il paese saprà ch’egli ha scacciato di casa la moglie infedele? Sarà sufficiente sfidare all’alba il rivale a duello, come gli suggerisce il fratello? Il ridicolo incontro – che vede l’esperto Alvignani umiliare la sua grossolana inesperienza in fatto di armi, lasciandolo andare con un semplice sfregio alla guancia – non risolve lo scandalo. L’affare deborda oltre le mura domestiche, si offre in pasto alla curiosità pettegola di quel piccolo mondo, suscita indignazione nei concittadini perbene: chi prende le parti di Rocco, chi difende l’Alvignani. Propagandosi rapidamente di bocca in bocca, di malalingua in malalingua, si concentra infine contro Marta, considerata la sola colpevole di quel turbamento. Come ha riflettuto Girard, se la rivalità mimetica fra due uomini che desiderano la stessa donna divide (mimesi d’appropriazione), tale rivalità, nel diffondersi come un virus fra tutti gli altri (mimesi dell’antagonista), necessariamente trova un capro espiatorio, indicato come responsabile del malessere generale, che sarà motivo altresì della guarigione collettiva (cfr. 1983, p. 44).
Questo è proprio degli stereotipi persecutori che si determinano nelle situazioni di crisi sociale; crisi che favoriscono la costituzione di “folle”, cioè di assembramenti popolari spontanei, mosse a purgare l’intero organismo sociale dall’elemento impuro che lo corrompe. Basta che i persecutori si convincano che anche «uno solo, possa rendersi estremamente nocivo all’intera società, malgrado la sua debolezza relativa», perché la violenza di tutti si convogli su quest’ultimo (Girard 1987, p. 34). È necessario tuttavia che la vittima sacrificabile possa ricevere la violenza da tutti ma che a sua volta non provochi una nuova violenza di vendetta; che sia qualcuno appartenente a certe categorie predisposte a subire vessazioni. Da sempre, sottolinea lo studioso francese, in una società declinata al maschile, la donna che perda la tutela del marito o del padre può diventare facile oggetto di persecuzione. Insieme desiderata e respinta, considerata una minaccia sempre latente alle regole e alla sicurezza del gruppo dominante per la sua indole imprevedibile, la donna, «grazie alla sua debolezza e alla relativa marginalità, (…) può assumere un ruolo sacrificale» (Girard 1997, p. 200). L’avvenente Marta, oggetto di rivalità tra due uomini, rappresenta una “macchia” per la morale pubblica. Ripudiata dal marito e abbandonata dal padre, è la vittima ideale al centro di un cerchio vittimario che pretenderà il suo sacrificio per ristabilire l’ordine collettivo.

Ma prima di essere giustiziata, la vittima deve essere umiliata. È Rocco ad offrire alla piazza l’oggetto della sua gelosia, esponendolo crudelmente al pubblico ludibrio. La sua immagine sporcata è portata in giro per la città per «calamitare sulla sua persona tutti i cattivi germi» (cfr. ivi, p. 398).

[Rocco] era tornato in paese in compagnia di una donnaccia venduta; se l’era portata nella casa maritale, l’aveva costretta a indossare le vesti di Marta e (…) offriva spettacolo alla gente, conducendola a passeggio, in carrozza, così parata (Pirandello, p. 33).

Simile ai fantocci nel giorno del carnevale, la prostituta travestita degli abiti di Marta si presta alla degradazione estrema della moglie esibita alla derisione del pubblico, a quella risata intimamente aggressiva che sgorga da un piacevole senso di superiorità che ci attribuiamo di fronte all’altro che è fuori dai canoni della conformità sociale (Freud 1978, p. 174). È la risata di chi, nel mostrare i denti come un’antica minaccia di morte, si nutre senza pietà della debolezza umana celata dietro una comica caricatura. Una risata che evoca l’emozione degli antichi spettacoli del Colosseo, dove il prigioniero condannato veniva schernito e preso a sassate lungo il cammino che lo portava al centro dell’arena.
L’impulso violento contro la fuori-legge ha contagiato tutti: la folla è pronta per la «metamorfosi dei tranquilli cittadini in bestie furibonde» (Girard 1997, p. 191).


Tutti contro una

Bastano poche voci a muovere alla razzia una moltitudine: la folla inizia a gonfiarsi, «matura, si espande, si riflette negli occhi di tutti» fino a versare nel linciaggio di chi ha polarizzato i sospetti di tutti (Girard 2005, p. 91).
Il momento propizio, nel romanzo, si presenta il giorno della festa popolare dei Santi Patroni Cosimo e Damiano, descritti – non a caso – come i «Santi della salute, i salvatori del paese nelle epidemie» (Pirandello, p. 62), con il potere di guarire affezioni e malanni d’ogni tipo.
Le feste del Santo Patrono in generale sono occasioni di grande forza aggregativa per i fedeli, che procedono in un pacato corteo, a passo misurato, dietro un’icona sacra. Ma questa descritta da Pirandello in una delle pagine più toccanti del romanzo appare tutt’altro che un atto devozionale, si offre piuttosto come l’occasione per lo scatenamento dionisiaco di istinti selvaggi e primordiali. La città – si racconta – è svegliata all’alba da «uno strepitìo indiavolato giù per la strada». Un’invasione fragorosa di gente, come un’onda del mare in tempesta, si dirige dalle periferie verso il centro, fra «urli, grida scomposte (…), fischi spaventevoli» (ivi, pp. 57-58), in attesa di portare in trionfo per le vie della città i due Santi liberatori. Finalmente il rito ha inizio. La folla è animata da un impeto furibondo, chi sbraccia, chi piange, chi tira a sé la bara dei Santi, chi viene persino “pestato”, mentre il fercolo avanza quasi di corsa, resistendo a stento alle scosse della disordinata violenta processione. Nel procedere per la città, quel rito si rivela nel suo autentico obiettivo: una specie di caccia all’uomo per stanare chi si sia reso indegno «di guardare i Santi». Se il fercolo cioè – spiega Pirandello – si fermava improvvisamente e la folla, imprecando, costringeva coloro che erano affacciati a ritirarsi, «era segno che fra essi doveva esserci qualcuno che (…) aveva fatto parlar male di sé». Il popolo insomma, in quel giorno «si rendeva censore» (ivi, pp. 62-63) per riscattare le convenzioni offese.
Ed infatti la battuta di caccia si conclude sotto il balcone di Marta. Il fercolo si arresta giusto dove la ragazza è affacciata, ignara del gesto che l’attende. Come fosse preparata contro di lei sin dall’inizio, la «folla fanatica», guidata dal padre vendicatore, il suocero Pentagora, urlando inferocita con gli occhi e le braccia verso di lei, batte ripetutamente contro la ringhiera di ferro del balcone la testa di uno dei Santi Cosimo e Damiano. «A ogni testata tremava la casa» (ivi, p. 64). Solo la maestrìa dello scrittore siciliano riesce a muovere, attraverso una straordinaria esasperazione caricaturale, tutta la crudeltà di quell’atto di linciaggio verso colei che deve apparire agli occhi di tutti l’abbandonata da Dio. Marta rientra in casa terrorizzata. Ecco la creatura innocente vilipesa e condannata sommariamente, senz’appello. La folla ora si calma; giustizia fatta, ritorna la quiete.
La vittima emerge dal silenzio che l’avvolge. Forse non casualmente Pirandello pone al capezzale del letto di Marta una figura d’avorio dell’Ecce homo, l’immagine del Cristo sofferente coronato di spine, insultato e oltraggiato senza motivo da una folla che «adotta ad occhi chiusi le accuse generiche» contro di Lui per crocifiggerlo (Girard 1987, p. 167). Solo i Vangeli, dice Girard, sono capaci di svelare chiaramente che la vittima è un capro espiatorio, riconoscendone l’innocenza. Ma nessuna compassione evangelica in quel corteo dietro ai Santi, nessuna pietà in quell’appello alla giustizia divina che niente ha di divino, solo il sapore di una vendetta dall’eco arcaica, tutta umana. La folla non ha cuore e non sente ragioni, se non le ragioni della violenza. Una violenza che resta misconosciuta, avviluppata nella menzogna necessaria (méconnaissance): poiché la vittima per i persecutori non è una persona ma il male che rappresenta, lo scatenamento di quella violenza libera dalla responsabilità i singoli e giustifica il prezzo che si deve pagare per ottenere l’ordine. Capovolta la situazione, tutti innocenti, dunque, quando la colpevole è una sola.
«Ogni volta che si parla di catarsi, di purificazione, domina l’idea di evacuazione e di separazione» (Girard 1997, p. 370). La sentenza verso Marta è chiara, infatti: l’espulsione, come per ogni vittima espiatoria o, come la chiama Pirandello, l’esclusione. Per lo scrittore siciliano non vi è altra vita possibile se non quella determinata dalla convivenza sociale. Quando l’uomo infrange i condizionamenti morali e psicologici, allora automaticamente la comunità d’appartenenza lo rifiuta, lo scaccia via. Girard rinforza questa convinzione: ciascuno, afferma, si definisce attraverso le proprie appartenenze; soprattutto in un universo tradizionale, fortemente socializzato, «si fa corpo con esse». Ma le appartenenze, lungi dal garantire la pace, «sono organizzazioni di rapporti mimetici» che generano a contrario ostracismo, esclusioni e, di conseguenza, violenza (cfr. 2006, pp. 259-268). Quanto più è desiderabile l’appartenenza, tanto più l’esclusione è percepita come una violenza. Una violenza psicologica che genera una morte simbolica, anche più crudele di quella fisica. Essere tagliati fuori dalla propria comunità significa essere banditi da ogni relazione, privati di un nome, collocati fuori pur rimanendo fisicamente dentro, come in una terra di nessuno.


Una contro tutti

Sono soltanto figure femminili a fare quadrato intorno a Marta. Oltre alla madre, la sorella Maria e l’amica Anna Veronica, risonanze di nomi evangelici, sono capaci di autentica charitas, di cui sono incapaci le figure maschili descritte nel romanzo. E tuttavia sono donne di un’umanità quasi trasparente, relegate in un ruolo marginale, vittime della «sanguigna violenza» di un mondo patriarcale perbenista, che le lascia naufragare in un «silenzioso martirio di spose» (De Castris 1992, p. 38, nota 18). Marta, diversamente da loro, non intende abbandonarsi a quel naufragio. Pirandello, il grande smascheratore della Vita occultata dietro le Forme (Tilgher 1923, p. 136 ss.), le ha affidato il “vizio di ragionare”: quel congegno del pensiero, capace di scardinate le ipocrisie delle vita sociale, adesso le impedisce di accettare l’esclusione, suscitando, a contrario, un impulso verso la ricerca di una vita libera, fuori dal mortifero schema del gruppo.

Di che doveva pentirsi? Che aveva fatto, qual peccato commesso da meritare tutti quei castighi, quelle pene, e l’infamia, la sciagura del padre e del figliolo, il perpetuo lutto in casa, e forse la miseria, domani? Accusarsi? pentirsi? (…) Accettare umilmente la condanna, senza ragionarla (…)? No! No! (Pirandello, p. 53).

Il suo “no” è una rivolta contro l’ovvio darsi delle cose. Come il biblico Giobbe esaminato da Girard, Marta protesta con energia la sua innocenza, rifiutando di unire la propria voce a quella di tutti gli altri. In tal modo interrompe la prospettiva unica dei persecutori che hanno bisogno di credere unanimemente alla sua colpevolezza. Perché il linciaggio risulti perfetto occorre infatti che la vittima si sottometta spontaneamente al verdetto della folla: nessun consenso è più prezioso del suo. Vi è in gioco la verità unica, che si impone a tutti, senza eccezione. Nel mantenere il suo punto di vista contro l’unanimità che converge su di lei, Marta è «un capro espiatorio mancato» (Girard 1994, p. 52). La mostruosità che tutti hanno attribuito a lei, rimbalzando sui persecutori, rischia di sconvolgere il meccanismo che avrebbe dovuto divorarla.

I bravi concittadini non si aspettavano certo questa resistenza. Allenteranno il cerchio? Marta intravede nella ripresa degli studi, rimpianti fin dal giorno delle nozze, il modo per spezzare il vincolo di proprietà che la società ha preteso sulla sua persona. L’abilitazione all’insegnamento le avrebbe garantito la libertà:

avrebbe così guardato in faccia la vigliacca gente che nel giorno della festa selvaggia l’aveva pubblicamente oltraggiata. Pensando all’enorme folla imbestialita nel vino e nel sole, tumultuante con le braccia levate sotto i balconi (…) Marta sentiva più forte l’impulso alla lotta (Pirandello, p. 73).

Animata dall’«impulso alla lotta» supera brillantemente gli esami di diploma, diventa così maestra elementare. Dà tutta se stessa per essere riconosciuta dalla comunità in questo suo nuovo ruolo, ma comprende subito che non si tratta dell’agognata via d’uscita. Rifiutata dai «padri di famiglia» che non accettano per le figlie un’insegnante «che aveva fatto parlare così male di sé», boicottata dalle allieve, ignorata come sia trasparente dai colleghi, scopre che tutti le sono ancora contro. I persecutori non hanno affatto rinunciato alla loro vittima. Anzi. Per la «gente onesta», preoccupata della «salute morale di tutto il paese scandalizzato» (ivi, p. 94), Marta con la sua inattesa ribellione ha mostrato di infrangere un limite ben più rigoroso del classico patto coniugale.
È ancora Rocco, precursore e complice della violenza collettiva contro di lei, a rivelare con inasprita rabbia le ragioni dell’ulteriore scandalo: venuto a conoscenza del progresso lavorativo della moglie, vi vede «soltanto l’ardita e sprezzante volontà di lei di levar la fronte contro tutto il paese, quasi dicendo: “Basto a me stessa (…) non mi curo della vostra condanna”» (ivi, p. 79). Maestra no, mai; quella volontà di indipendenza della moglie, che espone in modo ancor più grave al disonore il cognome maritale, è inaccettabile. Inaccettabile, invero, per l’intera onorata comunità.
La famosa lettera, occasione dell’antico fatto, rivela ora una più grave colpa. Lascia palesare il desiderio di alfabetizzazione – un tempo coltivato segretamente e adesso perseguito palesemente – non usuale per una donna dell’epoca, un esercizio al pensiero e alla scrittura delegato tradizionalmente all’ordine maschile. Come ha affermato Girard, gli individui tendono a considerare “criminale” chi trasgredisce «le differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale» (1987, p. 33). Nell’indebolire le differenze di ruolo, Marta è il principio di disordine in un momento storico critico, esposto ad importanti trasformazioni. Rappresenta la «legge del novum» (Sichera 2005, p. 25) che fa paura a chi sente scricchiolare il sistema delle proprie rassicuranti gerarchiche. La sua emancipazione dalle restrizioni tradizionali è interpretata come immediata espressione della volontà di snobbare la «condanna» del gruppo di appartenenza. È una hybris che rincara l’intenzione di punizione nei suoi confronti. Privata ripetutamente del posto di lavoro e ripetutamente umiliata, Marta decide allora di lasciare la città per scampare nella lontana Palermo. O meglio, vi è costretta, come per una segreta strategia di quel gioco delle parti.


Una vana linea di fuga

Marta si dirige nella nuova città come in esodo verso la terra promessa, sperando di poter condurre una vita “eccentrica” – fuori dal centro sacrificale cui finora è stata votata – assumendosi anche il compito, tradizionalmente maschile, di mantenere e proteggere la madre e la sorella portate con sé.
È primavera e lei rifiorisce in tutto lo splendore di donna giovane e bella, con un nuovo lavoro d’insegnante. Ma è uno stato di grazia apparente. Il cerchio vittimario si allargherà sin là per stringerla ancora più ferocemente. Troppo appariscente, senza marito, senza la protezione di un padre, è ancora al centro di rivalità mimetiche. Per strada, nei negozi, sul luogo di lavoro è polo di convergenza del morboso desiderio degli uomini attratti dal fascino della sua gratuità. «Nessuno, è vero l’aveva molestata; ma si sentiva ferita dai tanti sguardi; le pareva che tutti la guardassero in modo da farla arrossire; e andava impacciata, a capo chino (…)» (Pirandello, p. 107). Senza volerlo, scatena passioni da cui cerca disperatamente di svincolarsi. «Ma che volevano da lei tutti costoro? Per chi la prendevano? E quegli altri due, quel grosso imbecille e quel piccolo che le indirizzava pubblicamente i suoi versi?» (ivi, 119). Fra i tanti, il collega Matteo Falcone, grottesco personaggio dall’aspetto penosamente deforme, ossessionato da lei sino alla follia: Marta è disgustata fino al ribrezzo dalle sue proposte amorose, è inorridita dalla violenza del suo desiderio, come se in esso si specchi la mostruosità di un desiderio collettivo autorizzato a riversarsi contro una donna non protetta dal sacro vincolo del matrimonio.
In più, le lettere dell’amica Anna Veronica portano notizie di ulteriori calunnie dalla vecchia città, di ulteriori parole di fango lanciate contro di lei come miriadi di frecce contro il nemico, segno che «la persecuzione» perdura ancora «da lontano» (ivi, p. 119). La preda è stanca. Non le resta che prendere atto dell’impossibilità di ogni evasione: lei è l’esclusa, isolata come una monade, incapace di comunicare pensieri e sentimenti senza che questi vengano deformati, destinata ad essere non qual è, ma come gli altri pensano che sia. Tutto il mondo intorno non attende altro che commetta il crimine di cui l’accusano, «per consegnare alla comunità un empio debitamente autenticato» (Girard 1994, p. 127). Allora, che sia finalmente colpevole! Il carnefice, uno per tutti, sarà proprio Gregorio Alvignani, il quale, tolta la maschera del raffinato gentiluomo, la raggiunge a Palermo in un momento di vacanza dagli impegni politici romani, attraendola nel suo alloggio con la scusa di riscoprire insieme quelle antiche conversazioni sulle belle lettere. Attesa da tempo, come il cacciatore appostato attende la preda nella posizione meno protetta, per lui Marta non è che un oggetto del desiderio «fin dal primo giorno che l’aveva veduta» (Pirandello, p. 139), di cui si ciba senza rimorso, giustificando la sua coscienza travolta dall’assalto delle circostanze, protetto dall’impeccabilità di onorato deputato. Mentre lui attraverso di lei sembra gratificare un capriccioso narcisismo, Marta gli cede senza concedersi. Lo segue come se lui avesse un «diritto naturale su di lei, e lei il dovere di seguirlo» (ivi, p. 137). In quella relazione l’Alvignani è un semplice medium affinché si compia la logica del meccanismo sacrificale dentro cui tutti l’hanno voluta. Il suo ruolo potrebbe essere custodito nell’etimologia del cognome, come qualcuno ha evidenziato: «veramente ella ha incontrato l’uomo dell’alvignia, altro nome dell’alonia, che nella tarda latinità indica (…) una bevanda di vino e fiele in uso presso i monaci, facilmente accostabile alla mistura offerta a Cristo prima della crocefissione» (Sichera, p. 110). Nell’assumere quel veleno, Marta si sente «piombata nel suo fondo, dove tutti, tutti, la avevano spinta, quasi a furia d’urtoni». Impossibile ormai riprendere la lotta, «era finita» (Pirandello, p. 141).
La storia sta per toccare il finale atteso sin dall’inizio. Marta scopre di attendere un figlio dall’uomo che non ama. Adesso vede nitidamente la sua immagine negli occhi degli altri votata al «sacrifizio» (ivi, p. 176). Un sacrificio da portare avanti sino in fondo, sino al «martirio» (ivi, p. 121): il suicidio, la morte violenta inferta da sé a se stessa ma commissionata da tutti, l’offerta di sé che liberi dalle conseguenze della sua colpa la madre e Maria – che lei adesso non potrà più proteggere dall’infamia – e, insieme, tutta la comunità. Ora sì, l’unanimità è perfetta, la vittima ha accolto interamente il punto di vista dei persecutori. Il meccanismo vittimario può funzionare.


Ore di passione

Marta si prepara al gesto estremo, quando, con un colpo di scena, si palesa la figura di Fana, ripudiata un tempo dal vecchio Pentagora con la medesima imputazione di infedeltà: un’esclusa, come lei. In quelle ore terribili le giunge la notizia che la suocera, dopo aver vissuto nella più squallida miseria a Palermo, ora è sul punto di morire. Marta vuole specchiarsi in quella che crede sarà anch’ella tra poco: «Sarà un vittima anche lei. Voglio vederla, conoscerla» (ivi, p. 170). Proprio “come lei”, Fana ha un ruolo decisivo nell’epilogo della vicenda, quello di vittima sostitutiva. Tutte le vittime sostitutive, dice Girard, assomigliano a coloro che esse sostituiscono, dovendo essere il più possibile simili al mostruoso che il gruppo crede di vedere nella vittima originaria (cfr. 1997, p. 355). Fana è straordinariamente vicina a Marta pur se appare venire da molto lontano, è la maschera perfetta per il rituale che dovrà ricomporre l’ordine; è anche un inganno alla violenza giacché le offre qualcos’altro per sfamarsi (cfr. Barberi 2006, pp. 285-298).
L’ingresso nella sua casa conduce nell’oscurità di una notte di passione, sottolineata da un temporale che sembra avvolgere ogni cosa «in un veemente eccesso di distruzione» (Pirandello, p.171). Buio alla fine come all’inizio del romanzo, dentro il quale tutto ancora potrà succedere. Nel bujo rantola Fana, avvolta in un pestifero odore esalante da «un bicchiere a metà pieno d’una mistura verdastra» (ivi, p. 174). Forse un farmaco, tremendo come un calice amaro. Marta rimane assorta a contemplare l’orribile figura del suo imminente destino.
Dopo lunghe ore giunge in quella casa Rocco, fatto chiamare dalla stessa Marta per assistere all’agonia della madre. E in un certo senso per assistere, a nome di tutti i persecutori, alla sua agonia.

In realtà Rocco stava cercando da tempo la moglie, dicendosi guarito da una lunga “malattia”. Ignaro degli ultimi sviluppi, dichiara al mondo di essere pronto a riconciliarsi con Marta, malgrado la gelosia. Una gelosia che, a differenza di quella distruttiva del mitico Otello, lungi dal decretare la fine di un amore, si rivela la molla da cui può riaccendersi la passione. Una passione che Girard direbbe scaturire dal desiderio secondo l’altro: «basta convincersi che tale oggetto è già desiderato da un terzo al quale s’annetta un certo prestigio», scrive lo studioso, perché l’oggetto sia «immediatamente desiderabile agli occhi del soggetto» (2005, p. 11). La stessa gelosia contro il prestigioso Alvignani, che ha acceso il dramma, è il sentimento che ora dispone Rocco a concluderlo, in una metamorfosi che trasformi l’odio in una rinnovata concordia.
I due sposi si ritrovano per la prima volta dopo il fatto faccia a faccia, come all’inizio. Rocco appare trasfigurato, ha «un’espressione nuova, ridente, quasi infantile» (Pirandello, p. 179). Crede sia sufficiente proporre a Marta di ritornare a casa, perché si concluda l’increscioso incidente. Tuttavia Marta lo spiazza, dichiarando la sua attuale colpevolezza. Inizia a parlare mettendosi a nudo, mettendo a nudo, insieme, la verità del meccanismo vittimario che ha fatto di lei un capro espiatorio:

Che sono?... Sono ciò che la gente, per causa tua, m’ha creduta e mi crede ancora, e sempre mi crederebbe (…). Vedi che n’hai fatto di me? Ero sola… mi avete perseguitata… ero sola e senza ajuto... Ora sono perduta! (…) non lo intendi che tu, tu stesso, con le tue mani, e tutti, tutti con te, m’avete ridotta fino al punto d’accettare ajuto da lui? So bene quel che mi resta da fare: sono caduta sotto la guerra vostra (…) (ivi, pp. 182-183).

E freddamente lo consegna alla conclusione violenta che quella persecuzione attende: «Debbo morire!». Rocco appare incapace di comprendere il funzionamento della “guerra” mimetica che egli stesso ha innescato – il sistema, si è detto, funziona se non si ha coscienza del suo meccanismo. Sente solo l’orgoglio di marito ferito di fronte alla certezza dell’adulterio, adesso che, per paradosso, era venuto con l’intento di chiedere perdono alla moglie per non aver creduto alla sua innocenza. E tuttavia l’idea della morte che Marta ha appena evocato assume in lui una «terribile immagine» (ivi, p. 184) che la accomuna alla madre, portandolo a superare il «ribrezzo che il corpo della moglie, pur tanto desiderato, gl’incuteva» (ivi, p. 188). È la stessa Fana a provocare il riavvicinamento, stringendo, in un ultimo gesto prima di spirare, le mani dei due sposi nelle sue (ivi, p. 180), come in un rituale di riconciliazione davanti al sacrificio espiatorio. La morte sostitutiva di Fana è catartica: insieme vendica la colpa e libera dal male; rappresenta il kairòs, il tempo propizio per il “miracolo” che risolve il dramma. Tale sacrificio, compimento di un lungo linciaggio, è sufficiente a ristabilire la pace tra i due sposi, come in una sorta di «resurrezione» (Girard 1998, p. 534). Ci lascia credere Pirandello che da lì a poco Marta potrà essere riconsegnata alla comunità di appartenenza che, ad imitazione di Rocco, sarà disposta a passare dalla mimesi violenta alla mimesi di riconciliazione. L’ordine pacifico di una comunità, si è detto, si ristabilisce grazie a colui che lo aveva inizialmente turbato. La potenza malefica della vittima, causa della violenza iniziale, ora, in virtù della sofferenza patita, può apparire la potenza miracolosa che fa cessare i conflitti.
Il buio notturno è interrotto dal canto dei galli. Prima uno, poi un altro più lontano, poi un terzo… Il canto del gallo ricorda la notte di passione del Cristo tradito, ma anche l’annuncio dell’aurora, l’avviso di un risveglio in nuova luce.


Quale conclusione?

Immaginiamo i due sposi sulla via del ritorno verso casa. Il caos sembra rientrato, l’armonia ricostruita. Ma c’è ancora un dettaglio non indifferente che lascia il finale aperto. E il figlio? Nella ricostituzione della Forma che reintegra Marta, sfugge l’imprevisto della Vita: Marta, abbiamo appreso, è di nuovo incinta come nel momento della catastrofe, ma dell’amante. Ha confessato tutto a Rocco tranne il suo stato: «Il figlio è mio… mio soltanto» (Pirandello, p. 187), dice tra sé e sé. Come interpretare questa rivendicazione segreta del figlio clandestino, che ci fa supporre, realisticamente, che a Rocco sarà attribuita, a sua insaputa, una paternità non sua? È lasciato a noi sceglierne il senso.
Ad un primo sguardo, il verbo ri-vendicare evoca l’idea di vendetta che risponde a vendetta. Far credere a Rocco che sia suo il figlio di un altro è forse la meritata rivalsa della moglie contro tutto il male ricevuto dal marito, secondo la logica dell’occhio per occhio, dente per dente? Certo, la restituzione dell’oltraggio subìto sarebbe una vendetta in piena regola. Una vendetta che noi lettori stessi potremmo involontariamente sostenere, mossi ad un sorriso vagamente irrisorio pensando all’immagine comica del poveretto doppiamente beffato, posto così al centro di un virtuale pubblico ludibrio. In questo rimbalzo l’eterno meccanismo sacrificale avrebbe rapidamente aperto un altro cerchio vittimario, questa volta intorno a Rocco.
Eppure resta la sensazione che possa nascondersi un significato diverso in questo finale aperto, un significato che possiamo tentare di cogliere abbandonando il superficiale piano comico per farci guidare da quel “sentimento del contrario” proprio dello sguardo umoristico pirandelliano, che lascia scorgere la realtà oltre l’apparenza, in una nudità disarmante.
Riconsideriamo Marta non nella veste di moglie ma in quella di imminente madre. La ritroviamo allora non contro il marito, ma per il figlio. Marta, ricordiamo, è l’unica, nel romanzo, a non misconoscere le dinamiche sacrificali del meccanismo vittimario: come può, chi sa quelle dinamiche, non volerne smontare il funzionamento? Ancor più per proteggere un figlio che già prima di nascere è carico del segno vittimario poiché concepito fuori-legge, fuori dalle regole delle convenzioni sociali, verosimilmente destinato perciò al ruolo di capro espiatorio. In tale prospettiva la sua scelta si porrebbe come limite segreto ad una violenza a servizio dell’ordine dei Padri proiettato a salvare le Forme – sotto il cui peso, non dimentichiamo, è rimasto sepolto il primo bambino di Marta morto prima di nascere, in piena guerra mimetica. Sembra emergere allora in quella sua rivendicazione, non l’esigenza di vendetta, bensì l’appello silenzioso al riconoscimento di una giustizia differente; una giustizia a fondamento della legge delle Madri, «nell’ordine dell’amore e non della forza», della pietà soccorrevole e non della morte (cfr. Mazzù 1999, p. 144). Un senso custodito nel verbo vindicare tributato dal latino classico e del medioevo, che indica l’idea del rivendicare a sé e non punire, proteggere, difendere (su questo significato cfr. M.S. Barberi 2017, pp. 33-57). In tale direzione Marta appare come una figura soteriologica, intenzionata a fare da riparo all’innocenza del figlio futuro e, insieme, all’innocenza a priori di qualsiasi vittima in quanto espulsa o scelta dalla comunità a morire al posto suo. Rappresenterebbe l’eco lontana dell’antico messaggio evangelico.
Ma si tratta solamente di congetture. Pirandello, si è detto, ha lasciato a noi la possibilità di maturare l’ultima parola.


Bibliografia

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- (2006), Il centro segreto di una scala a chiocciola. Riflessioni di antropologia mimetica su Vertigo di Alfred Hitchcock, in M.F. Schepis (a cura di), Il messaggio dell’imperatore, Giappichelli, Torino.
L. A. De Castris (1992), Storia di Pirandello, Laterza, Roma-Bari.
S. Freud (1978), Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, trad. it., in Id., Opere, a cura di C.L. Musatti, 12 voll., vol. V, Boringhieri, Torino.
R. Girard (2006), Le appartenenze, in Mazzù D. (a cura di), Politiche di Caino. Il paradigma conflittuale del potere, Transeuropa, Ancona-Massa.
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- (1994), L’antica via degli empi, trad. it. di C. Giardino, Adelphi, Milano.
- (1987), Il capro espiatorio, trad. it. di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano.
- (1983), Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, trad. it. di R. Damiani, Adelphi.
D. Mazzù (2011), Vergogna e catastrofe dell’identità, in D. Mazzù – M. S. Barberi (a cura di), Katastrophé. Tra ordine culturale e ordine naturale, Giappichelli, Torino.
- (1999), Il complesso dell’usurpatore, Giuffrè, Milano.
L. Pirandello (2011), L’esclusa, Garzanti, Milano.
L. Sciascia (1996), Pirandello e la Sicilia, Adelphi, Milano.
A. Sichera (2005), Ecce Homo! Nomi, cifre e figure in Pirandello, Leo S. Olschki Editore, Firenze.
A. Tilgher (1923), Studi sul teatro contemporaneo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma.



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