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L’irregolarità normale.
“Illegalizzazione” e asservimento del lavoro migrante

LORENZO MILAZZO
Articolo pubblicato nella sezione “Schiavitù contemporanee”

Le politiche dell’irregolarità

Secondo l’Istat a gennaio del 2016 erano «regolarmente presenti» in Italia quasi 4 milioni di stranieri «non comunitari» (Istat 2016). In base alle stime della fondazione ISMU gli “irregolari” erano circa 435.000 (Blangiardo 2016, p. 73). Se si considera che molti di loro sono arrivati in Europa in modo regolare (Bloch, Sigona e Zetter 2014, p. 3 e p. 44) – anche se in effetti gli sbarchi sono considerevolmente aumentati a partire dal 2014 (Papavero 2015) – e che la gran parte dei “regolari” sono stati almeno per qualche tempo “irregolari” in passato (Ambrosini 2013, p. 33; Miazzi 2013, p. 134; Allievi e Dalla Zuanna 2016, p. 136), si comprenderà perché secondo alcuni la «differenza» fra migranti “regolari” e “irregolari” non sia «politicamente decisiva» e, in ogni caso, l’irregolarità non possa essere considerata una «caratteristica della condizione migrante nel suo complesso» (Mezzadra e Ricciardi 2013, p. 20). Tanto più che, stando agli studi meno risalenti, le stratificazioni e le segmentazioni che caratterizzano il mercato del lavoro migrante non potrebbero più ricondursi all’opposizione binaria fra “regolari” e “irregolari” (Bommes e Sciortino 2011, p. 217), la presenza dei quali negli ultimi anni, in alcuni comparti produttivi almeno, si sarebbe peraltro assai significativamente ridotta (Rigo e Dines 2017, pp. 95 ss.; Rigo 2015, p. 8; Sciurba 2015, p. 94).
In realtà, la prima conclusione è condivisibile, ma la seconda no. Ed anzi, la prima conclusione è condivisibile perché non lo è la seconda: la differenza fra “regolari” e “irregolari” non è «politicamente decisiva» perché l’irregolarità è una «caratteristica della condizione migrante nel suo complesso».
Frammentare la «condizione migrante» fino a rendere paradossalmente irrilevante ogni distinzione fra i diversi statuti nei quali si articola può essere utile a promuovere pratiche efficaci di soggettivazione e di «rivolta contro il “principio del confinamento”» (Mezzadra 2006, p. 87), a condizione che non si trascuri in questo modo, per un verso, la politicità degli stessi «processi di illegalizzazione» (Rigo 2007, pp. 92 e 144) e la loro natura complessa, conflittuale e asimmetrica e, per altro verso, il fatto che tali processi producono forme del tutto peculiari di marginalità e di conflitto (Bloch, Sigona e Zetter 2014, pp. 21, 36-37, 46). E senz’altro è opportuno sottolineare il rischio che l’insistenza sulla particolare vulnerabilità degli “irregolari” possa contribuire ad occultare il «carattere sistemico» e generalizzato dello sfruttamento globale del lavoro (Rigo 2015, p. 7), purché non si sottovalutino gli effetti sistemici determinati proprio da questi processi (al di là del numero di coloro che sono effettivamente illegalizzati).
Da questo punto vista, la differenza fra migranti “regolari” e “irregolari” è politicamente irrilevante non perché gli “irregolari” siano relativamente “pochi” (Koser 2005, p. 9; Possenti 2012, p. 121) – anche se, stando alle stime della fondazione ISMU, negli ultimi anni il loro numero sembra sia in realtà aumentato (Blangiardo 2016, p. 73) – o perché i confini di status che dividono gli uni dagli altri siano spesso incerti (Anderson 2013, p. 116), e neppure, in fondo, perché «non ci sono migranti irregolari (o illegali), ma solo individui che hanno – in uno spazio specifico e per un tempo specifico – uno status irregolare (o illegale)» (Bommes e Sciortino 2011, p. 216), bensì perché l’“irregolarità” è cifra stessa di ogni disciplina migratoria proibizionistica che, come la nostra, esponga la gran parte dei migranti al rischio dell’illegalizzazione e, di conseguenza, a quello della deportazione (Cuttitta 2007, p. 46; Caputo 2009, p. 84; Possenti 2012, pp. 23 e 112-113; Santoro 2013, p. 232).
Ma forse, ancor prima, la distinzione fra “regolari” e “irregolari” non è politicamente decisiva perché nelle società di destinazione il migrante in quanto tale è avvertito come costitutivamente e istituzionalmente irregolare, ed è destinato a restare tale anche quando intervengano (o addirittura quando siano intervenuti prima del suo arrivo) fattori positivi di natura ostativa – anche, talora, di carattere geopolitico, come nel caso dell’allargamento dell’Unione (Bommes e Sciortino 2011, p. 217; Sciurba 2015, p. 94) – che ne impediscano la deportazione (cfr. Mezzadra 2011, p. 124).
In ogni caso, non può certo ritenersi politicamente irrilevante il fatto che migliaia di persone muoiano ogni anno nel tentativo di attraversare senza autorizzazione i confini dell’Unione (Del Grande 2016). E non è politicamente irrilevante perché la loro morte non è un’ineluttabile fatalità, bensì l’esito più o meno diretto della scelta di proibire ad alcuni “stranieri” (vedremo in seguito quali) di farlo legalmente (Palidda 2008, p. 122; Cuttitta 2012, pp. 37 ss.; Itzcovich 2013, p. 439; De Lucas 2015, pp. 14, 48, 52, 79-83, 93-95). Anziché parlare di «vittime dell’immigrazione» (come si fa nella Legge n. 45 del 21 marzo 2016, che ci prescrive di ricordarle) sarebbe forse meno ipocrita parlare di “vittime delle politiche migratorie proibizionistiche”.


2. Cittadinanza, razza, classe

Certo si potrà osservare che “clandestinità” e “irregolarità” non sono fenomeni naturali ma neanche qualità che l’ordinamento ascrive ai migranti indipendentemente dalle loro condotte: se non vi fosse, oltre a chi traccia un confine, chi lo attraversa o rimane senza autorizzazione oltre la sua linea, non vi sarebbe «immigrazione irregolare» (Ambrosini 2013, pp. 76-77). La stessa Corte costituzionale, del resto, pronunciandosi sulla contravvenzione di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» sembrerebbe chiarire i termini della questione osservando che «la condizione di cosiddetta “clandestinità”» non è «un modo di essere della persona» o «una condizione personale o sociale», bensì piuttosto «la conseguenza della stessa condotta resa penalmente illecita», sia essa attiva o omissiva (Corte cost., 8 luglio 2010, n. 250).
Ma se la conclusione della Corte appare per alcuni versi scontata, per altri versi è invece sconcertante: è chiaro, infatti, che chi ha sollevato la questione, rilevando che l’art. 10 bis del Testo unico sull’immigrazione incrimina una particolare condizione personale o sociale, intendeva in realtà richiamare l’attenzione sulle condizioni personali e sociali dalle quali la norma fa dipendere la rilevanza penale di condotte che in assenza di tali condizioni sarebbero del tutto lecite. Quel che conta, qui, non è la condotta in sé considerata, bensì che a tenerla siano alcuni e non altri, e in questo senso non aveva certo torto Donini quando, già nel 2009, intravvedeva chiaramente delinearsi «una forma peculiare di diritto penale d’autore per discriminazione di cittadinanza, e dunque per provenienza geopolitica» (2009, p. 119).
A taluni fini almeno, questo genere di discriminazione è pacificamente ammesso tanto dal diritto internazionale quanto dagli ordinamenti nazionali (Ruggeri 2011, pp. 8 ss.; Di Filippo 2012a, p. 84). Del resto, si è osservato, «[l]a cittadinanza non implica l’eguaglianza, come si crede. Semmai, implica una distinzione irriducibile fra cittadini e non-cittadini» (Barberis 2015, p. 328) e «può […] facilmente convivere con violazioni del principio di uguaglianza davanti alla legge che si diano al di fuori del recinto o della classe dei cittadini» (La Torre 2004, p. 227). E tuttavia, non è affatto scontato che discriminare chi si considera uno straniero sia di per sé meno arbitrario che discriminare chi sia ascritto a una razza, a una casta o a un ceto diversi dai propri (Carens 1987, p. 252; Ferrajoli 1994, pp. 288-289; Trujillo 2007, pp. 37-38; Macioce 2014, p. 137; Greblo 2015, pp. 9, 66-67, 89-90; Diciotti 2016, p. 582). Tanto più che, se riuscissimo a liberarci dal velo del costituzionalismo color-blind, vedremo chiaramente che fra l’una e l’altra forma di discriminazione esistono in realtà nessi piuttosto evidenti (Gotanda 2005; Mindus 2014, pp. 22 ss.).
Autorevoli giuristi hanno definito senza mezzi termini razziste alcune delle leggi che hanno caratterizzato – e che in certi casi continuano a caratterizzare, nonostante gli interventi delle Corti – il «diritto speciale» dei migranti (Caputo 2006, pp. 350 ss. e 2009, p. 85; Margara 2009; Ferrajoli 2010, pp. 119 ss.). Le loro conclusioni potranno forse apparire eccessive e si potrà forse dubitare che il sistema di apartheid istituito da tale diritto abbia fondamenti esplicitamente razziali, ma è difficile negare che imponendo al mondo i propri confini l’Europa coloniale abbia «incorpora[to] nella nozione stessa di cittadinanza un razzismo antropologico irriducibile» (Balibar 2003, p. 140) che riproduce i propri effetti nell’iterazione contemporanea di quei confini: «data la natura razzializzata degli stati moderni», discriminando gli stranieri in base alla loro nazionalità, le politiche migratorie dell’Unione di fatto finiscono per discriminarli anche in base alla loro “razza” (Anderson 2013, pp. 42-46). Ed in ogni caso, osserva Anderson, se in molti si sono dati la pena di sostenere che tali politiche non hanno alcun fondamento razziale, nessuno sembra si sia preoccupato di negare la loro natura esplicitamente classista, come se, peraltro, nella «condizione postcoloniale» (Mezzadra 2008) razza e classe non si sovrapponessero spesso l’una all’altra (Anderson 2013, pp. 41 e 43).
Come è noto il Manuale per il trattamento delle domande di visto e la modifica dei visti già rilasciati (il cosiddetto “Manuale procedure”) in uso presso gli uffici consolari degli stati appartenenti all’Unione invita i consolati a valutare il rischio di immigrazione clandestina elaborando «“profili” dei richiedenti» sulla base della loro «situazione socioeconomica» (Di Filippo 2012b, pp. 207-208 e 2015, p. 3; Campesi 2015, pp. 34-35) avvalendosi di indici presuntivi quali «la situazione lavorativa», il «livello salariale», «la regolarità delle entrate», «il livello di reddito», «lo status sociale nel paese di residenza», «il possesso di una casa o di un bene immobile» (7.12).
Si provi a immaginare che effetto farebbe una norma la quale vietasse di fatto ai cittadini la cui condizione lavorativa fosse precaria, il cui livello salariale fosse ritenuto insufficiente, le cui “entrate” fossero irregolari, il cui patrimonio non fosse considerato “adeguato”, il cui “status sociale” non fosse “elevato”, di varcare, ad esempio, i confini del comune di Portofino (se non al seguito, e al servizio, di coloro che vi risiedono “legittimamente”) e si comprenderà quale sia la natura delle regole in base alle quali in pratica è disciplinato l’ingresso degli stranieri nel territorio degli stati dell’Unione.


3. Irregolarità “al lavoro”

Ciononostante, sarebbe un errore ritenere che le politiche migratorie proibizionistiche servano a tenere i poveri del mondo fuori dai confini della metropoli postcoloniale (Basso 2010, p. 13; Possenti 2012, p. 22). Per quanto l’irregolarità costituisca un tratto idealtipico dell’immigrazione, essa non dà alcuna certezza agli immigrati, neppure quando siano attualmente “irregolari”, che in effetti saranno deportati. Le discipline proibizionistiche segnano le porte delle case in cui vivono, ma raramente le sfondano; marchiano i loro corpi, ma raramente li concentrano; li rendono «deportabili», ma raramente li deportano (De Genova 2005; Chauvin e Garcés-Mascareñas 2014).
Come si legge nel Dossier statistico immigrazione 2016, dei 34.104 “irregolari” rintracciati nel 2015 ne sono stati espulsi 15.979, ossia il 46,9%, e dal 2005 «l’incidenza di coloro che, dopo l’intervento delle forze dell’ordine, hanno lasciato l’Italia non ha mai superato il 55%» (Idos 2016, pp. 154-155). Dei 5.371 internati nei Cie nel 2015 ne sono stati espulsi 2.776 (Idos 2016, p. 156) e nel 2014 sono stati deportati 2.771 stranieri dei 4.968 trattenuti (Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato 2016, p. 16). Poiché a gennaio 2014 gli “irregolari” erano circa 350.000, 404.000 a gennaio del 2015 e 435.000 nello stesso mese del 2016 (Blangiardo 2016, p. 73), a quanto pare tramite i Cie sono stati deportati fra lo 0,64% e lo 0,79% degli “irregolari” presenti in Italia fra l’inizio del 2014 e la fine del 2015. Se i Cie sono serviti a qualcosa, di sicuro non sono serviti ad “identificare” e ad “espellere”. Se non avessero avuto altra funzione che questa, è ragionevole ritenere che il legislatore, anziché dar loro un nuovo nome («Centri di permanenza per i rimpatri») e prescriverne il potenziamento e la moltiplicazione, stanziando 13 milioni di euro per la loro realizzazione e più di 34 milioni per la loro gestione (art. 19 del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla Legge 12 aprile 2017, n. 46), li avrebbe chiusi tutti da tempo.
Salvo rare eccezioni, ovunque siano state adottate, le politiche proibizionistiche sono servite soltanto a produrre esse stesse illegalità (Castles 2004; Koser 2005, pp. 2-3 e 14; De Genova 2005, p. 213 e ss., Sivini 2005, p. 58; Calavita 2005, pp. 11, 43 ss.; Palidda 2008, pp. 83 ss. e 118; Casalini 2010, pp. 467-468; Inda 2011, p. 82; Chimienti 2011, pp. 1342-1344 e p. 1351; Santoro 2013, p. 243; Mezzadra e Neilson 2013, pp. 22, 50, 132, 142-150; McBritton 2014, p. 174). Sarebbe molto probabilmente errato ritenere che tali politiche siano deliberatamente ordinate a formare masse di lavoratori iper-precari da dare in pasto al “capitale globale”, ma anche la ben nota tesi di Hollifield (2004, p. 887) secondo la quale «la logica economica del liberalismo» spingerebbe gli stati ad aprire i loro confini alla forza lavoro straniera mentre quella «politica e giuridica» li indurrebbe a chiuderli, in modo da conservare inalterata «la composizione etnica della società», in effetti convince assai poco. In realtà i mercati del lavoro metropolitani non esigono affatto che gli stati aprano i loro confini alla forza lavoro «esogena», ma che attraverso le discipline proibizionistiche la «imbriglino» (Moulier Boutang 2002), in modo da contenerne il costo, consentirne la selezione, assicurarne la “docilità”. Gli umori razzisti e xenofobi che alimentano le politiche di chiusura non sono affatto in contrasto con «i fabbisogni dell’economia» (Ambrosini 2010, p. 90). E in questo senso l’illegalizzazione assume un significato politico che va ben al di là del numero degli “irregolari” (Koser 2005, p. 9), e in essa è forse possibile cogliere una fra le più significative manifestazioni attuali della violenza legale che, nelle sue diverse forme, è sempre stata necessaria ad assicurare ai sistemi economici postcoloniali la quota di lavoro “servile” o “semi-servile” dalla quale hanno continuato strutturalmente a dipendere (Cohen 1987, p. 2; Moulier Boutang 2002, pp. 69 ss., 95, 103 ss., 231; Mezzadra e Neilson 2013, pp. 56 e 84).
Ora, è vero che molti sconsigliano di contrapporre al lavoro libero dei nativi quello servile dei migranti, rilevando che «l’idea stessa di “lavoro libero” è […] storicamente situata» (Anderson 2013, p. 148), e che ogni tentativo di distinguerlo dal lavoro non-libero è in realtà un tentativo di giustificare quelle forme specifiche di coazione al lavoro che di volta in volta si sono ritenute compatibili con la libertà personale del lavoratore (Steinfeld 2009, p. 13). Ma sostenere che non è trattato come uomo “libero”, neppure “formalmente”, bensì come un “servo” chi, avendo lasciato il proprio padrone e rifiutandosi di lavorare per ogni altro padrone (Moulier Boutang 2002, p. 260), dovrà vivere nell’ombra, come un fuggiasco, per non farsi catturare, rinchiudere e deportare, non significa ritenere che fra le due condizioni intercorra una linea naturale di separazione (Steinfeld 2009, p. 13) né, tantomeno, considerare implicitamente “accettabili” forme diverse e meno evidenti di coazione al lavoro. Sottolineare che le discipline proibizionistiche, specie quando fanno dipendere il permesso di soggiorno dal contratto di lavoro, asserviscono il lavoro dei migranti (o ne iterano la “libertà” determinandone l’ennesima risignificazione) non implica l’accettazione della dicotomia fra lavoro libero e forzato né, tantomeno, una rinuncia alla critica complessiva degli attuali rapporti di produzione. Una cosa, in ogni caso, è certa: il mito della “Fortezza Europa” da tempo è tramontato. I muri che ovunque si innalzano, lungi dall’essere invalicabili, sembra siano fatti per imprimere il marchio dell’irregolarità su coloro che li valicano, più o meno regolarmente, in modo da assicurarne «l’inclusione selettiva e differenziale» (Mezzadra 2008, p. 102; cfr. Perocco 2010, pp. 390 ss. e Possenti 2012, p. 110).


4. Irregolarità istituzionale

L’irregolarità, si è detto, costituisce un tratto idealtipico della condizione migrante nel suo complesso. In fondo non soltanto gli “irregolari potenziali”, ma anche i migranti la cui presenza non può più essere illegalizzata sono avvertiti come istituzionalmente e costitutivamente “irregolari”: «per i migranti […] la condizione di estraneità è allo stesso tempo sociale e giuridica, al punto che essi possono subire una illegalizzazione sociale indifferente alla legalità della loro condizione giuridica» (Ricciardi 2017, p. 115).
Nel discorso pubblico sull’immigrazione l’immigrato è per definizione colui al quale è vietato risiedere nel territorio dello stato e che può pertanto esserne espulso a meno che non gli sia, o gli sia stato, tacitamente concesso o esplicitamente permesso di restare, a prezzo di una diminuzione più o meno rilevante del suo statuto personale che è in realtà implicita nella stessa natura ottriata del suo diritto. In questo senso, nella migliore delle ipotesi la «deportabilità» (De Genova 2005) fa dell’immigrato, anche qualora egli non sia in effetti più deportabile, un «eterno ospite» (Kanstroom 2010, p. 6).
Da questo punto di vista, l’irregolarità tipica dell’immigrato non dipende neppure esclusivamente dalla sua cittadinanza, giuridicamente intesa (Mindus 2014): se, per un verso, non tutti gli stranieri che vivono nel territorio dello stato sono avvertiti come “immigrati” (Ambrosini 2010, p. 23; Calavita 2007, p. 42), per altro verso alcuni continueranno ad essere considerati tali anche quando saranno riusciti ad ottenere la cittadinanza dello stato che li “ospita”. Un italiano figlio di “immigrati” resterà un “immigrato” (si dirà: “di seconda generazione”) fintanto che continuerà a condividere la marginalità sociale ed economica dei suoi genitori, e fino ad allora sarà ben visibile e ad ogni istante gli si ricorderà il suo debito nei confronti di chi lo ha “accolto”. La marginalità del migrante riproduce in questo modo la sua irregolarità “istituzionale” e ne è a sua volta riprodotta, e per quanto stabile possa apparire la sua condizione giuridica, egli continuerà ad essere percepito (e talora a percepire se stesso) come un “irregolare legalizzato” anche quando sarà ormai a pieno titolo un italiano.
In questa prospettiva il lessico dell’accoglienza, dell’ospitalità, e forse anche dell’integrazione, nel quale è implicita l’idea che l’altro sia comunque «fuori luogo», anziché togliere l’irregolarità costitutiva del migrante e la sua altrettanto costitutiva subalternità, in certa misura le conferma (Sayad 2002, p. 306), e il migrante (di prima, seconda, terza generazione) lo avverte chiaramente (Djouder 2007, p. 90). Ma se davvero, come sostiene Djouder (2007, pp. 102-103), il solo fine dell’integrazione è quello di assicurare che il meteco «mantenga il suo ruolo di subalterno, di povero, di oggetto da sfruttare, di lavoratore scomodo ma docile» (cfr. Perocco 2010, pp. 389-390 e 409; Perrotta 2014, p. 154), allora parlare di «integrazione subalterna» (Ambrosini 2005, p. 95) non può che sembrare pleonastico.
Ed è significativo, a questo riguardo, che il legislatore italiano abbia considerato utile a favorire l’integrazione dei richiedenti protezione internazionale «l’implementazione [del loro] impiego […] su base volontaria» – «… e gratuita», come si chiarisce nel Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 12 del 10 febbraio 2017 – «in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali» (art. 8, lettera d del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla Legge 13 aprile 2017, n. 46; cfr. anche Gjergji 2016, pp. 95-98).


Conclusioni.

In conclusione, se «il confine, quale strumento di differenziazione, inscrive i limiti esterni della cittadinanza dentro le perimetrazioni interne tra cittadini e sudditi» (Rigo 2007, p. 155), allora solo i migranti potranno porre rimedio alla loro subalternità, ridefinendo autoritativamente le condizioni della loro esistenza politica e rinegoziando i contesti normativi dai quali dipendono i loro statuti e la qualificazione delle loro condotte, in modo da togliere (anziché risolvere) il problema dell’autorizzazione. In questo senso, ogni loro «atto di cittadinanza» non potrà che «costituire costituenti» (Isin 2008, p. 39; ma si veda Ricciardi 2017, p. 116). E vi sono, a questo riguardo, buone ragioni per essere ottimisti: se infatti gli sforzi profusi per assicurare l’integrazione dei nuovi venuti sono proporzionali al grado di subalternità che si vuole loro imporre, essi sono proporzionali anche, per altro verso, al loro grado di insubordinazione.
Quanto a “noi”, che, a torto o a ragione, riteniamo di costituire «il legittimo corpo sovrano di uno Stato democratico» (Fistetti 2015, p. 18), potremo opporre resistenza e persistere nella pretesa di governare gli esclusi come nostri “dipendenti”, o invece, assai probabilmente quando vi saremo costretti, partecipare con loro al processo attraverso il quale ogni cittadinanza autenticamente democratica ridefinisce incessantemente se stessa. Quel che proprio non potremo fare, invece, è autorizzare (democraticamente) gli esclusi ad essere autori della loro esistenza politica.


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