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Critica del potere e natura umana in Foucault

VINCENZO SORRENTINO
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

L’intera riflessione di Foucault è attraversata dal rifiuto dell’idea di natura umana intesa come norma. Tuttavia vorrei mostrare come tale rifiuto non sia privo di incrinature e aspetti problematici, che emergono proprio alla luce di alcuni assunti di fondo della filosofia foucaultiana. Il filosofo francese è chiaro: occorre una genealogia, “una forma cioè di storia che renda conto della costituzione dei saperi, dei discorsi, dei campi di oggetti, ecc., senza aver bisogno di riferirsi ad un soggetto che sia trascendente rispetto al campo di avvenimenti che ricopre, nella sua vuota identità, lungo la storia” (1977b, p. 11). La genealogia analizza i meccanismi di potere al fine di portare alla luce le dinamiche di formazione dei discorsi e di costituzione dei soggetti. Essa mostra che “nulla nell’uomo – nemmeno il suo corpo – è abbastanza saldo per comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi”, che “viviamo senza punti di riferimento né coordinate originarie, in miriadi d’avvenimenti perduti” (cfr. 1971, pp. 43-44). Sotto questo profilo, è significativa la critica della nozione di sessualità concepita come “dato invariabile”, dimensione naturale biologicamente radicata: la sessualità, infatti, è il correlato di meccaniche di potere e strategie di sapere che sono storicamente determinate (cfr. 1976a, p. 113).
La filosofia critica di Foucault non vuole fondarsi su un paradigma normativo di natura. Egli, ad esempio, rifiuta le idee - che considera centrali, ad esempio, nei lavori dei Francofortesi - di “liberazione” e “disalienazione”, intese come recupero della nostra identità perduta, liberazione della nostra natura imprigionata. Tali obiettivi vengono determinati, a suo parere, in base ad una concezione del soggetto che è tradizionale, in quanto fondata sui concetti di natura e di essenza (cfr. 1981a, p. 88). Per Foucault, invece, si tratta di “rifiutare quello che siamo”, dando vita a “nuove forme di soggettività” (cfr. 1982, p. 244). Parlando poi dei diritti umani, di cui riconosce l’importanza come strumento politico, egli dichiara di non volerli associare all’idea di natura umana (cfr. 1981b, pp. 258-259).
Foucault rifiuta spesso di attribuire alla propria filosofia critica un carattere prescrittivo: la funzione dell’intellettuale, a suo giudizio, non va concepita - sulla base dei modelli forniti dal saggio greco, dal profeta ebreo e dal legislatore romano - come legislatrice (cfr. 1977c, p. 155). La filosofia non è chiamata a “disalienare il soggetto”, ma a “definire le forme nelle quali il rapporto con sé può eventualmente trasformarsi” (2008, p. 326). Per il filosofo francese non si tratta di fornire dei paradigmi di identità alla luce dei quali orientare le pratiche di trasformazione di sé. Quella dell’intellettuale va concepita come un’azione “negativa”, ossia limitata a destabilizzare le strutture che potrebbero impedire alle persone di relazionarsi autonomamente a se stesse, aprendo così lo spazio per l’esercizio dell’immaginazione politica.
Quando Foucault afferma di non prescrivere nulla intende dire che non prescrive alcun contenuto: non ci dice cosa è meglio fare, quale modello di società e di soggettività cercare di realizzare. Ciò nonostante, è chiaro che il suo discorso sulla libertà sottende un’indicazione normativa, in quanto la libertà viene ritenuta preferibile al dominio. Ma non solo. A negare la libertà, per Foucault, non sono di per sé i rapporti di potere, bensì gli stati di dominio. Egli definisce le “relazioni di potere” come relazioni all’interno delle quali si cerca di dirigere la condotta dell’altro. Si tratta di rapporti mobili, che possono modificarsi e che non sono dati una volta per tutte, di giochi strategici aperti tra le libertà. Gli “stati di dominio”, invece, si creano quando un individuo o un gruppo sociale riescono a bloccare delle relazioni di potere, a renderle immobili, irreversibili. Ciò che conta, a parere del filosofo francese, è riuscire a darsi delle regole di diritto, delle tecniche di gestione e un ethos, capaci di evitare che i giochi di potere si fissino in stati di dominio. Il potere è qui inteso come rapporto, sempre reversibile, in cui si cerca di “governare”, ossia di “strutturare il campo di azione possibile degli altri”, di guidare la loro condotta. A differenza degli stati di dominio, le relazioni di potere presuppongono sempre la libertà di coloro che vi sono coinvolti, la loro capacità di resistenza; là dove uno dei termini della relazione subisce una violenza illimitata da parte dell’altro, ed è quindi a sua totale disposizione, non vi è più potere. È proprio perché la libertà è ovunque che i rapporti di potere attraversano tutto il campo sociale (cfr. 1982, pp. 248-249; 1984e, pp. 275, 284-285, 291-293). Occorre perciò, in primo luogo, combattere la fissità degli stati di dominio e delle connesse forme di soggettività per aprire nuovamente lo spazio alle forme mobili del potere e alle dinamiche dell’autocostituzione di sé. Si tratta, in altri termini, di affermare la contingenza del divenire contro ogni relazione che pretende di assumere la forma dell’essere atemporale: troviamo qui la stessa logica di fondo della critica nietzscheana della metafisica. Il dominio e il soggetto (inteso come sub-jectum) sono le forme ipostatizzate che assumono i rapporti di potere e il sé.
La contingenza è dunque un essenziale presupposto ontologico della critica foucaultiana, che però viene assunto dogmaticamente e al quale viene attribuita una valenza normativa. Si tratta, afferma il filosofo francese, di evidenziare i processi di costituzione di ciò che è: ma dalla messa in luce di questi processi all’affermazione della contingenza di ciò che è, mi sembra che il salto sia enorme. Cosa ci dice che ciò che è non sia frutto di una predestinazione? Della volontà di un Dio nascosto? Che non sia destino? Che gli uomini agenti non siano che strumenti? Cosa ci fa pensare che quello che appare contingente non sia stato voluto nei minimi dettagli da un Essere superiore o che non sia un momento necessario di un processo ciclico esteso sull’arco di milioni di anni, in cui i fatti sono destinati a ritornare? La contingenza non è forse il correlato di una fede (cfr. Severino 1981, pp. 34-35, 88-89, 104-105)? Certo se gli eventi mondani sono il frutto della volontà di un Dio libero di farli accadere o meno, essi sono contingenti in relazione a Dio; tuttavia non lo sono in alcun modo in rapporto all’uomo: ma è proprio quest’ultimo tipo di contingenza ad essere in gioco quando parliamo della libertà come facoltà umana. Dunque, il fatto che agli uomini appaia che “ciò che è non è sempre stato” non ci dice necessariamente che esso poteva non essere ciò che è, che non fosse già da sempre inscritto nell’ordine delle cose che sarebbero state o che non sia la conseguenza di un atto di libertà trascendente rispetto alla storia umana. La genealogia ci mostra, forse, il carattere derivato del soggetto, i processi di costituzione che ne sono alla base, ma non dimostra la contingenza di tali processi.
La contingenza, in quanto presupposto ontologico della critica è, allo stesso tempo, il correlato di un giudizio di valore: essa, infatti, è considerata non come un mero dato, bensì come un fatto positivo, in quanto condizione della libertà. Foucault afferma che la constatazione che le cose “sono state fatte” implica che esse “potranno anche esser disfatte” (cfr. 1983, p. 322). Naturalmente si tratta di un principio non generalizzabile, dal momento che anche eventi che consideriamo contingenti e provocati dall’uomo possono avere effetti irreversibili, ossia creare situazioni che non possono più essere “disfatte”: si pensi, ad esempio, ad un omicidio. Ma anche limitandoci a quei casi per i quali la proposizione foucaultiana risulti valida, l’affermazione secondo la quale qualcosa può essere, almeno in parte, cambiato perché contingente non implica, di per sé, l’auspicabilità di tale cambiamento, dunque dell’attività critica e delle pratiche di libertà. Queste ultime si basano su una determinata valutazione della contingenza e, di conseguenza, della possibilità di trasformare il reale. Proprio nel momento in cui diventa chiaro il nesso tra critica e questione dell’essere emerge il carattere intrinsecamente normativo delle coordinate ontologiche che delineano lo spazio dell’attività critica.
Questa correlazione tra normatività, ontologia e libertà emerge anche se consideriamo il problema del rapporto tra filosofia critica e interrogazione sulla natura umana. Foucault, lo abbiamo visto, contrappone le prospettive critiche che mirano alla realizzazione delle autentiche potenzialità umane, dell’essenza dell’uomo occultata, repressa, alienata, alla propria filosofia critica, volta alla mera de-ipostatizzazione di ogni forma di dominio e di soggettività. Mentre le prime presuppongono un paradigma normativo di natura umana, la seconda si basa su una filosofia della contingenza che nega l’idea stessa di natura umana. È interessante, sotto questo profilo, la posizione assunta dal filosofo francese nel dibattito con Chomsky del 1971. Egli rifiuta di ancorare la critica a criteri morali (la giustizia) o antropologici (la natura umana). Ai primi contrappone l’idea della lotta per la conquista del potere (cfr. 1974, p. 67). Chomsky gli obietta che quest’ultima non può essere ritenuta un fine in sé, altrimenti non riusciremmo a distinguere un regime sanguinario da uno che non lo è. Foucault risponde in maniera insoddisfacente e afferma che la nozione stessa di giustizia opera all’interno di una società di classi, per cui nella società senza classi probabilmente non si userà più questa nozione (cfr. p. 70). Qui Foucault si appoggia ad un modello di società assunto come normativo, cosa che altrove rifiuta di fare (cfr. pp. 56-57). Il paradigma dei rapporti di forza intesi come rapporti di dominazione - a cui ricorre frequentemente negli anni ’70 - è a maglie troppo larghe, non consente di distinguere tra moventi e fini dell’azione politica. Foucault stesso sembra percepirlo e ricorre ad un paradigma ideale di società che, però, visto il rifiuto di argomentare la sua giustezza, viene assunto in maniera acritica.
In merito, invece, al rifiuto di considerare la natura umana - intesa, secondo la definizione che Chomsky fornisce durante il dibattito, quale “complesso di schematismi, di principi organizzativi innati che guidano l’agire sociale, intellettuale ed individuale” (cfr. pp. 26, 47) - come un criterio normativo alla luce del quale criticare la società presente e delineare i contorni di quella futura, il filosofo francese si chiede: “non si rischia di definire questa natura umana - che è allo stesso tempo ideale e reale, celata e repressa sino ad ora - con termini presi a prestito dalla nostra società, dalla nostra civiltà, dalla nostra cultura?” (p. 59; cfr. anche p. 60). Foucault è chiaro e perentorio: le nozioni di natura umana, di giustizia, di realizzazione dell’essenza degli esseri umani, sono costituite all’interno della nostra civiltà (cfr. pp. 26-28, 47, 59-60, 72-73).
In relazione alla questione della natura umana, o degli universali antropologici, Foucault assumerà negli anni posizioni che oscilleranno tra la tesi della non esistenza di tali universali e la sospensione metodologica della questione. Ad esempio, in Le parole e le cose egli illustra la funzione ricoperta dalla nozione di “natura umana” all’interno dell’episteme classica e sostiene che etnologia e psicoanalisi (ma lo stesso vale per la linguistica), lungi dall’illuminare “la parte più segreta della natura umana” e individuare “ciò che nell’uomo potrebbe esservi di specifico, d’irriducibile, d’uniformemente valido ovunque l’uomo è dato all’esperienza”, “dissolvono l’uomo” (cfr. 1966, pp. 86-87, 333-336, 405-408).
La genealogia nietzschena, nel cui solco Foucault colloca la propria ricerca, demolisce i presupposti stessi della nozione di natura umana. Essa, infatti, mostra che le cose sono senza essenza; in quanto “storia effettiva”, reintroduce nel divenire ciò che era stato ritenuto immortale nell’uomo, “non si fonda su nessuna costante”, non lascia “nulla al di sotto di sé che abbia la stabilità rassicurante della vita o della natura”, poiché riconosce che non abbiamo punti di riferimento (cfr. 1971, pp. 32-36, 42-44, 51). Infine, il filosofo francese afferma che la storia ci mostra che “le cose si sono sempre formate alla confluenza di incontri casuali” (1983, p. 322). Su questo registro la categorica negazione della nozione di natura umana, della possibilità stessa che si diano universali antropologici, appare correlata all’affermazione del carattere contingente del reale e finisce per rappresentare, al pari di quest’ultima, una posizione assunta dogmaticamente.
Per un altro verso, però, Foucault talvolta sembra avere un atteggiamento più cauto, più problematico, attestandosi sul principio di una sospensione metodologica della questione degli universali antropologici. In un passaggio, che credo sia utile leggere per esteso, egli scrive: “assumere come filo conduttore di tutte queste analisi la questione dei rapporti tra soggetto e verità implica alcune scelte di metodo. Innanzitutto, uno scetticismo sistematico nei confronti di tutti gli universali antropologici. Il che non significa un rifiuto immediato, generale e definitivo, ma che non bisogna ammettere nulla di quest’ordine che non sia rigorosamente indispensabile; tutto quello che ci viene proposto nel nostro sapere come universalmente valido, per quanto riguarda la natura umana o le categorie che possono essere applicate al soggetto, necessita di essere verificato e analizzato: rifiutare l’universale della ‘follia’, della ‘delinquenza’ o della ‘sessualità’ non vuol dire che quello a cui si riferiscono queste nozioni non sia nulla o che esse non siano altro che chimere inventate per il bisogno di una causa discutibile; si tratta, tuttavia, di qualcosa di più della semplice constatazione che il loro contenuto varia con il tempo e le circostanze; significa interrogarsi sulle condizioni che permettono, in base alle regole del dire il vero o il falso, di riconoscere un soggetto come malato mentale o di fare in modo che un soggetto riconosca la parte più essenziale di sé nella modalità del suo desiderio sessuale. La prima regola di metodo per questo genere di lavoro è perciò questa: aggirare il più possibile gli universali antropologici (ovviamente anche quelli di un umanesimo che fa valere i diritti, i privilegi e la natura di un essere umano come verità immediata e atemporale del soggetto), per interrogarli nella loro costituzione storica” (1984c, pp. 250-251; cfr. anche p. 252).
La messa tra parentesi del problema degli universali appare qui una scelta di metodo, dovuta all’esigenza di fare una storia delle pratiche nella loro costituzione storica. Quando Foucault pone la questione in questi termini sembra, dunque, non escludere la possibilità che si diano degli universali antropologici. In realtà, già negli anni ’60, parlando delle diverse forme di interdizione del linguaggio, aveva affermato probabilmente che esse siano presenti in ogni cultura (cfr. 1964, p. 479). Molti anni dopo, in alcuni dei suoi ultimi interventi, accennerà al fatto che le nostre azioni si basano anche su regole di comportamento universali (cfr. 1988b, p. 138) e che il modo di pensare dell’uomo “dipende anche da categorie e strutture formali molto generali e universali. Tuttavia il pensiero è cosa diversa dai rapporti sociali. Le categorie universali della logica non forniscono un’analisi adeguata del modo in cui le persone effettivamente pensano” (1988a, p. 4). Poco dopo egli torna su un tema che gli è caro, ossia sul fatto che l’obiettivo delle sue analisi è quello di mostrare l’arbitrarietà, la contingenza, di certe istituzioni, per indicare gli spazi di cambiamento possibile (cfr. p. 5). Il fatto che possano darsi coordinate universali dell’esperienza non toglie che al loro interno siano possibili numerose forme di rapporti sociali contingenti. Come scrive in un altro testo del periodo: “il dispiegamento di queste forme universali [del pensiero, n.d.a.] è esso stesso storico” (1984b, p. 235). Dunque, anche ammettendo un radicamento antropologico universale di determinati fenomeni, la sua mera messa in luce non ci direbbe ancora nulla in merito alla specifica configurazione che essi hanno assunto in contesti determinati. In questi passaggi -è importante ribadirlo- Foucault non afferma, come fa altre volte, che tutto è contingente: non si tratta, infatti, di “mettere sulle nostre spalle tutta la pesantezza della nostra storia”, ma di considerare che le cose sono “fragili”, poiché sono costituite più da contingenze che da necessità (cfr. 1981c, p. 182). A questo va aggiunto che in What is Enligthenment? troviamo un riferimento all’uomo come essere libero che sembra sottendere un’idea di natura umana incentrata, appunto, sulla nozione di libertà: l’ontologia critica di noi stessi è definita come “un lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto esseri liberi” (1984a, p. 229). Si tratta di un punto importante.
Nella conferenza sul tema Qu’est-ce que la critique? il filosofo francese definisce l’atteggiamento critico come “l’arte di non essere governati o, se si preferisce, l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo”, e nella conclusione parla della “volontà decisoria di non essere governati” (cfr. 1990, pp. 38, 62). Nel corso del dibattito gli viene fatta notare la sua oscillazione tra due diverse connotazioni dell’atteggiamento critico: una relativa, l’altra assoluta. È interessante la risposta di Foucault: “non credo in effetti che la volontà di non essere governati affatto sia qualcosa di simile a un’aspirazione originaria. Ritengo piuttosto che la volontà di non essere governati sia sempre volontà di non essere governati così, in un certo modo, da questo o da quello, a un dato prezzo (p. 71). Egli dichiara che è stato un errore aver fatto riferimento alla volontà di non essere governati in alcun modo e che non intendeva alludere “a una sorta di anarchismo fondamentale, a una libertà originaria assolutamente refrattaria a ogni governamentalizzazione”; poi, però, precisa: “non l’ho detto, anche se non significa che lo escludo categoricamente” (ib.).
In sintesi, là dove la questione degli universali è sospesa per motivi metodologici, Foucault dimostra di essere coerente in relazione al suo dichiarato scetticismo. Non altrettanto, mi pare, accade quando assume in maniera dogmatica la tesi della non esistenza di universali antropologici o quando, al contrario, fa riferimento all’“universale” quale criterio normativo della critica e della lotta politica: “la mia morale teorica è opposta. È ‘antistrategica’: essere rispettosi quando una singolarità si solleva, intransigenti appena il potere viola l’universale (universel). Scelta semplice, opera ardua: perché bisogna spiare un po’ al di sotto della storia, ciò che la spezza e la agita e, contemporaneamente, vigilare, un po’ a ridosso della politica, su quello che la deve limitare incondizionatamente” (1979b, pp. 135-136). O ancora: “coloro che protestano per un solo iraniano costretto al supplizio nel fondo di una prigione della Savak si immischiano con l’affare più universale (universelle) che esista” (1979a, p. 70). Ma cos’è l’universale che costituisce un limiti inviolabile? E cosa ne fa, non solo un fatto, ma un valore da tutelare e promuovere? Mi pare che tali domande restino senza risposta, probabilmente anche perché, al di là di alcuni accenni, non è certo questo il piano sul quale generalmente Foucault cerca di impostare il proprio discorso critico.
In ogni caso, va rilevato come la prospettiva foucaultiana non sia riducibile ad una forma di relativismo che equipara tutte le pratiche sociali in quanto frutto di rapporti di sopraffazione: “esiste una cittadinanza internazionale che ha i suoi diritti, i suoi doveri e che impegna a ribellarsi ad ogni abuso di potere, quali che ne siano l’autore e le vittime” (1984d, p. 707). Egli parla pure dei “diritti intangibili” che ogni governo deve garantire agli individui, anche a coloro che sono processati (cfr. 1979a, p. 69), e afferma che “al potere bisogna sempre opporre leggi invalicabili e diritti incondizionati” (1979b, p. 135) I diritti non sono qui, come in altri scritti foucaultiani, delle maschere del potere disciplinare, ma delle leve per la lotta contro gli abusi del potere, degli importanti strumenti di libertà: “Amnesty International, Terres des hommes, Médicins du monde sono iniziative che hanno creato questo nuovo diritto (ce droit nouveau): il diritto degli individui privati di intervenire effettivamente nell’ambito delle politiche e delle strategie internazionali” (1984d, p. 708). E a proposito dei diritti umani: “può darsi che l’umanesimo non sia affatto universale, e che sia invece da circoscrivere a una ben determinata situazione. […] Ciò non vuol dire che dobbiamo sbarazzarci di quelli che chiamiamo diritti umani o del concetto di libertà, bensì che non possiamo dire che la libertà o i diritti umani devono avere certi confini. Ad esempio, se ottant’anni fa si fosse domandato se la virtù femminile fosse un elemento costitutivo dell’umanesimo universale, la risposta sarebbe stata unanimemente affermativa” (1988a, p. 9).
Ci troviamo, dunque, di fronte a due posizioni diverse. Talvolta Foucault sembra ancorare la sua critica a dei contenuti specifici, a dei criteri di giudizio - come i diritti di cittadinanza, i diritti umani, l’infelicità (cfr. 1984d, p. 708) - a partire dai quali valutare i rapporti di potere. Il problema, come abbiamo visto, è che l’assunzione di tali criteri resta sostanzialmente priva di argomentazioni che la sostengano. Sotto questo profilo mi sembra che non siano privi di fondamento il rilievo di “criptonormativismo” (cfr. 1985, pp. 285, 288) che Habermas muove a Foucault e l’osservazione secondo la quale la genealogia “si astiene dalla questione se talune formazioni del discorso e del potere possano essere giustificate piuttosto che altre” (p. 285).
Generalmente, però, Foucault assume quale criterio normativo della critica la libertà stessa, intesa come pratica dell’autonomia, senza ulteriori determinazioni contenutistiche: il presupposto del discorso foucaultiano è allora una filosofia della contingenza. In questo modo il filosofo francese introduce un paradigma di tipo ontologico, che però, oltre ad essere assunto in maniera dogmatica, lascia irrisolto un problema. Un’ontologia della contingenza, se forse è in grado di offrire un criterio per la lotta contro gli stati di dominio, non riesce comunque a fornirne alcuno per criticare e combattere i dispositivi che non hanno la pretesa di fissare i rapporti di potere in configurazioni, interpersonali e sociali, sottratte alla contingente mobilità della vita. Come giustificare la lotta contro assetti sociali determinati all’interno di giochi di potere aperti? Non certo in nome dei principi di libertà e di contingenza, che in realtà non vengono negati. L’assenza di contenuti normativi è qui intenzionale, dal momento che costituisce la condizione essenziale per il darsi di una libertà, intesa come creazione di sé, che si sostituisce ai codici morali e antropologici. Si profila, allora, una sorta di estetica della contingenza, dal momento che quest’ultima sembra diventare un valore in sé, punto di partenza e meta ultima di un atteggiamento critico concepito quale pratica, fine a se stessa, di costante messa in discussione dell’esistente, quale ribellione senza fine. Ma in assenza di ulteriori criteri di demarcazione per valutare i rapporti di potere, la filosofia critica foucaultiana rischia di risultare poco utile proprio in relazione a quel “concreto” del potere su cui tanto insiste il filosofo francese. Certo, in presenza di regimi che pretendono di imporre come necessari, e dunque irreversibili, gli assetti di potere che essi instaurano, una filosofia critica capace di de-ipostatizzare tali assetti risulta importante, anche se poi non offre elementi per la creazione di nuove e preferibili configurazioni sociali e forme di soggettività. Là dove, però, i soggetti riconoscono il carattere contingente, e dunque reversibile, delle relazioni di potere - ed è questo che avviene nelle società in cui i principali attori politici accettano le regole della dialettica democratica -, la filosofia della contingenza diventa un’arma piuttosto spuntata per la critica. In questo caso, infatti, le specifiche opzioni politiche e forme di soggettività finiscono per equivalersi per il semplice fatto di essere considerate contingenti.
Resta poi aperta una questione più di fondo. In un’intervista rilasciata negli ultimi anni della sua vita Foucault dichiara: “quello che cerco è un’apertura permanente delle possibilità” (1981b, p. 260). Ma se questa capacità di apertura, come credo, è ciò che più di ogni altra cosa caratterizza gli esseri umani, la riflessione di Foucault finisce per arrestarsi proprio là dove la filosofia dovrebbe muovere i suoi primi passi; ossia sulla soglia di un’interrogazione sull’ex-sistere - lo star fuori di sé nell’apertura del possibile - quale modalità specifica del vivere umano. La mia impressione è che soltanto una filosofia dell’esistenza potrebbe impedire che il fine che Foucault stesso attribuisce al pensiero critico non appaia né velleitario né sospeso nel vuoto. Ma Foucault, lo sappiamo, volge il suo sguardo altrove.


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