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La Natura umana, i pianoforti e il “contro natura”. Snodi teorici a partire dalla lezione di Jacques Maritain

GIOVANNI GRANDI
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

«Ci mettiamo d’accordo qualche giorno prima, naturalmente»; «Ecco, alla fine si è rivelata la sua vera natura!»; «Una linea retta non esiste in natura»; «Lo hanno ritrovato in una posizione innaturale»; «Per le foto del matrimonio, sullo sfondo, vorremmo un paesaggio naturale»; «Il calcolo mentale gli riesce naturale»… Quante volte nel parlare ordinario ricorriamo all’idea di “natura” o alle sue declinazioni? Le varianti sono innumerevoli, eppure il più delle volte non è necessario specificare che cosa intendiamo dire; è il contesto del discorso a chiarire se con il richiamo a “natura” vogliamo suggerire un semplice “come al solito”, indicare il tratto primario di una personalità, alludere alla realtà fisica di cui abbiamo esperienza, riferirci allo spettro delle possibilità fisiologiche oltre il quale si entra nel disfunzionale, nel guasto, nel patologico, o invece parlare di boschi, mari, monti o comunque di quel che non è opera umana, oppure segnalare qualcosa di spontaneo, una sorta di talento particolare.
Questa polisemia la troviamo anche nella scrittura di Jacques Maritain. Pur scartando i casi in cui le espressioni sono ascrivibili ad un utilizzo colloquiale («la natura delle cose», «per sua natura» o simili) quel che rimane non è un concetto univoco, e non potrebbe essere altrimenti, perché anche nella riflessione filosofica i “discorsi” in cui la nozione ricorre sono diversi.
Vorrei qui invitare a sostare su alcuni aspetti che investono l’accostamento tra l’idea di “natura” e l’“umano”, tra i molti che in effetti potrebbero catturare l’attenzione.
Anzitutto segnalerei proprio la diversità dei “discorsi” o – se si vuole – delle problematiche per la cui trattazione Maritain fa ricorso all’idea di “natura”, evidenziando naturalmente quel che investe la questione della “natura umana”. In secondo luogo vorrei concentrarmi su quello che forse è il nodo teorico – ma poi morale e politico – che Maritain ha ben colto e che oggi, su molte questioni, risulta critico (per la nozione stessa): se la “natura umana” esprime un dover essere, come individueremo e soprattutto tratteremo il “contro natura”?


1. La natura e i suoi “discorsi”

Jacques Maritain si è immerso nell’universo concettuale del pensiero classico antico e medievale agli inizi del Novecento. Non era questa la matrice culturale della sua formazione, lo erano piuttosto il socialismo e, in ambito filosofico, le nuove idee di Bergson; non c’è dubbio che il cambio di rotta sia il frutto di un forte travaglio personale, che lo ha condotto ad abbracciare simultaneamente il cristianesimo e l’autore di riferimento del pensiero cattolico, Tommaso d’Aquino. Negli scritti precedenti agli anni Venti la saldatura tra la dimensione intellettuale ed esistenziale è netta e, per sua stessa ammissione retrospettiva, spigolosa nei toni: l’«ardore del neofita» (Maritain 1979, p. 11) lo spingeva ad impegnarsi in questioni epistemologiche e metafisiche, ma anche in riletture d’insieme della parabola del pensiero filosofico, da cui emergeva come leit motiv una critica a tutto campo della modernità. In questo scorcio iniziale di pensiero e scrittura, la nozione di “natura” compare sia associata alla lezione aristotelica e tommasiana (nel senso classico di “essenza”), sia associata allo spirito moderno nel tratto del “naturalismo”. «Naturalismo, soggettivismo, scientismo ed egocentrismo» sono indicate come «le malattie del pensiero moderno» (Maritain 1979, p. 116) e la contestazione non è dissimile dal punto di vista teorico rispetto a quel che emerge negli sviluppi contemporanei del dibattito: il problema denunciato è la riduzione del reale all’immanente e del sapere scientifico al campo e al metodo delle discipline sperimentali (Maritain 1979, p. 61).
Al di là del confronto con la prospettiva naturalista – di cui però era qui utile quantomeno segnalare la presenza, fin dagli esordi – la nozione risulta in seguito costantemente impiegata con riferimento alla tradizione più classica, attingendo a discorsi diversi, eppure tra loro intrecciati.


1.1 Il discorso filosofico

L’accezione più classica a cui Maritain fa riferimento è certamente quella riferibile alla nozione di “essenza”, l’ousia di Aristotele confluita, insieme alla physis, nel termine filosofico latino natura, -ae. Gli anni Venti e gli anni Trenta, in particolare con Distinguere per unire o I Gradi del Sapere (1932), vedono Maritain impegnato specialmente in campo epistemologico e metafisico: qui “natura” indica inequivocabilmente i tratti distintivi di una realtà, l’essenza propria di un ens, che l’intelligenza vede nell’objectum, astrae nel conceptus ed esprime comunicativamente con un nomen. Questa base classica – anche se occorre ammettere che Maritain ha compiuto uno sforzo originale di sistemazione delle articolazioni del sapere nelle loro connessioni – è quella che sostiene il sottinteso riconosciuto anche dal senso comune: quando si parla della “natura” di una data realtà, ci si riferisce agli aspetti che la caratterizzano permanentemente e soprattutto universalmente. In breve (ma non senza problematicità): stessa natura, stesse caratteristiche strutturali. Questa accezione la riprenderò più oltre, osservandone i risvolti in un passo che chiama in causa questa attesa di universalità applicata alla “natura umana”.


1.2 Il discorso teologico

Il secondo discorso in cui compare l’idea di “natura” è quello teologico. Qui la nozione si semantizza in modo diverso, perché prende significato venendo inserita in una figura di coppia, che la vede accostata alla nozione di “grazia”. “Natura” non significa più genericamente “essenza”, ma – ed è già questa una semplificazione – potremmo dire che si contrae proprio nel riferimento alla struttura dell’umano (la “natura umana”) colta dal punto di vista della sua apertura al divino. Gratia non tollit naturam, sed perficit, recita il celebre adagio (Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 2 d. 9 q. 1 a. 8 arg. 3). In questo “discorso” confluiscono una miriade di questioni: la natura umana può da sé accedere al divino? La grazia è necessaria per incontrare Dio? È necessaria perché l’uomo compia il bene? Se lo è, vuol dire che la natura è insufficiente, o peggio malvagia? Dio avrebbe creato qualcosa di insufficiente o malvagio? Oppure quella umana va pensata come una natura buona, ma ferita, bisognosa di soccorso? Ma cosa pensare delle situazioni di male in cui il soccorso, pure atteso e invocato, non pare affatto esserci? La grazia si ferma allora di fronte alla libertà?
C’è un autentico ginepraio di risvolti alle spalle della figura di coppia “natura-grazia”, che Maritain ha intuito avere un impatto sull’antropologia davvero notevole. Non è un caso probabilmente che gli ultimi studi, più in forma di approcci esplorativi, si siano concentrati proprio sull’idea della “natura ferita”, declinazione che prova ad includere quella che chiameremmo la “condizione umana”, una condizione carica di fatiche, di contraddizioni, di fragilità, che accende il desiderio di essere superata. Superata come, però? Maritain non ha potuto misurarsi con il tema del perfezionamento dell’umano così come lo sviluppano le prospettive transumaniste, però è indubbio che quanto alla dinamica – in quel perficit della grazia – nel discorso teologico troviamo già l’idea che la “natura” non abbia in sé (o quantomeno non così come si dà concretamente nella vita) la completezza attesa dall’umano. In quanti modi però si può declinare la dinamica del perfezionamento? Qui si capisce che il fine, il “dove si vuole arrivare”, diventa dirimente. Ma da dove lo si desume questo fine? Dalla “natura umana”? E in che modo? Sono alcune delle questioni che riprenderò più oltre.


1.3 Il discorso filosofico

Come se non bastasse, in Maritain troviamo almeno una terza accezione rilevante per semantizzare la nozione di “natura”, che investe a sua volta l’umano e che prende significato da un altro accostamento, quello tra natura e cultura, più precisamente tra quel che emerge a livello del bios e quello che può emergere dalla creatività e dall’intelligenza umana. Su questa ulteriore figura di coppia si fonda la celebre «distinzione preliminare» proposta in L’uomo e lo stato tra la “comunità” e la “società”:

«La comunità e la società sono entrambe delle realtà etico-sociali veramente umane e non soltanto biologiche. Ma in una comunità prevale l’opera della natura ed è più stretto il suo legame all’ordine biologico; in una società prevale l’opera della ragione e un più stretto legame alle attitudini intellettuali e spirituali dell’uomo» (Maritain 20033, p. 6).

Qui si nota chiaramente che nel campo della “natura” e della sua opera confluiscono gli aspetti più basilari delle aggregazioni umane, comuni con altri viventi, quelli che potremmo chiamare i vincoli di sangue o di parentela (ordine biologico), mentre è l’opera della ragione a qualificare il tipicamente umano, cioè tutto ciò che diventa architettura civile, non più riflesso di una provenienza comune ma di un telos liberamente condiviso.
Quale accezione esprime, qui, la “natura”? Non è la “natura umana”, perché questa è caratterizzata classicamente proprio dalla razionalità, non è la “natura ferita”, perché come partner di coppia non ha la grazia ma appunto la ragione e la cultura come opera di questa, non è la più generica “essenza” del linguaggio metafisico. È la “natura” intesa come quell’insieme di attitudini comuni ai viventi, dotati o meno di ragione che siano, non ancora toccate dai dinamismi della libertà.

Un quadro complesso, dunque.
Chiaramente, variando di contesto, l’accezione di “natura” che Maritain di volta in volta impiega nella riflessione sull’umano, in buona misura, si chiarifica da sé. Rimane però che se si volesse dire a che cosa si riferisce in ultima analisi l’espressione “natura umana”, che cosa includa e che cosa escluda, che cosa la caratterizzi e che cosa sia accessorio, proprio la molteplicità dei discorsi e delle angolature rende problematica la cosa.
Uno dei punti di massima tensione della nozione, in cui si percepisce la problematicità del quadro, ritengo si possa rintracciare in un passo decisamente interessante de I diritti dell’uomo e la legge naturale. Qui Maritain riesce magistralmente a sintetizzare tutto quello che si può concatenare partendo dall’idea che ci sia una “natura umana”, giungendo a dire che questa contempli una “normatività” che deriva da alcuni fini e che tuttavia questi fini non funzionano meccanicamente come un magnete, ma occorre che siano scoperti e scelti.
Sostengo che si tratti di un punto critico perché dinanzi a certe problematiche emergenti nell’attuale dibattito antropologico, la formulazione stessa di Maritain evidenzia dei vicoli ciechi, da cui si esce soltanto ammettendo che la linea di demarcazione tra quel che è necessario e univoco nella “natura umana” e quel che è diversamente declinabile possa essere messa in discussione.
Su questo problema teorico, che il lavoro del filosofo francese consente di focalizzare, vorrei portare ora l’attenzione.


2. Una coppia critica: “natura umana” e “legge naturale”

Uno dei dispositivi concettuali più dibattuti in ambito filosofico morale è senza dubbio quello di “legge naturale”, lì dove lo si intenda come qualcosa di inscritto nella “natura umana”. Talvolta si utilizza anche l’espressione “legge morale naturale”, che tuttavia è riferibile alla tradizione giusnaturalista più che a quella tommasiana a cui si rivolge Maritain. In effetti Tommaso d’Aquino, nella celebre quaestio 94 della I-II della Summa Theologiae non impiega mai (né nel resto altrove del De lege) la locuzione “legge morale naturale”, il che quantomeno suggerisce che la lex naturalis non andrebbe letta rigidamente in senso deontologico, come se esprimesse già un dover fare morale a cui attenersi. La “legge naturale” esprime piuttosto quella che potremmo chiamare un’“esigenza sentita”, percepita universalmente, con cui misurarsi.
Esaminiamo dunque il passo di Maritain, che vale la pena di commentare puntualmente.
Si apre con una prima coordinata:

«[...] Suppongo che voi ammettiate esservi una natura umana e che questa natura umana è la stessa presso tutti gli uomini».


Qui entra in campo il primo cardine: parlare di “natura umana” significa riferirsi a qualcosa che è comune a tutti gli uomini e caratterizzante. È la questione dell’universalità segnalata sopra.
La seconda coordinata è introdotta richiamando alcune delle caratteristiche che – si assume – tutti riconosciamo all’umano:

«Suppongo che voi ammettiate anche che l’uomo è un essere dotato di intelligenza, e che, in quanto tale, agisce comprendendo quello che fa e quindi ha il potere di determinare se stesso ai fini che egli persegue».


Qui troviamo il tema della “natura razionale”, che viene declinata classicamente secondo i tratti dell’intelligenza (comprendere mezzi e fini) e della volontà (determinare se stessi).
Il terzo passaggio rappresenta la prima saldatura:

«D’altra parte, avendo una natura, essendo costituito in un certo determinato modo, l’uomo ha evidentemente dei fini che rispondono alla sua costituzione naturale e che sono gli stessi per tutti (corsivo mio) – come per esempio tutti i pianoforti che, qualunque sia il loro tipo particolare e dovunque essi siano, hanno per fine di produrre suoni che siano giusti».

Il passaggio è delicato, perché qui Maritain ha già un problema specifico in mente, e cioè come tenere da un lato la libertà individuale di determinarsi – appena riconosciuta come tipica dell’umano – e dall’altro tenere che se c’è una natura universale, questa include anche l’esistenza di fini universali, non arbitrariamente intercambiabili.
Questo punto è particolarmente delicato. Per dirla parafrasando i termini della cosiddetta legge di Hume: quanto dover essere possiamo dedurre dall’essere? Quanti e quali “fini universali” possiamo trarre dalla “natura umana”?
L’esempio di Maritain è qui istruttivo, perché mette in luce il cuore del problema. Tutti i pianoforti sono fatti per suonare. E questa si può dire che sia la “natura” del pianoforte. Possiamo anche includere l’apparentemente accessoria estensione che segnala che sono fatti «per produrre suoni che siano giusti». Potremmo anche convenire che la “natura” di un pianoforte prevede che sia accordato. Ma la nota musicale di riferimento, il La, da dove lo prende? Se lo dà da se stesso? La “natura” del pianoforte include una qualche informazione universale sulla nota che fa da cardine per l’accordatura?
Un pianoforte, poniamo, che fosse accordato in La a 415 Hz non suonerebbe come tutti gli altri accordati in La a 440 Hz (la frequenza convenzionalmente fissata per la nota di riferimento per l’accordatura). Che dire di questo pianoforte diversamente accordato: produce o no «suoni giusti», “secondo natura”? Che cosa farne poi? Qui si profilano alcune soluzioni: «Se non producono suoni giusti – continua Maritain –, essi sono cattivi, bisogna riaccordarli, o sbarazzarsene come buoni a nulla».
Capire se essere accordati su una particolare nota rientra o meno nella “natura” non è affatto irrilevante. In un certo senso stiamo dicendo che il destino del pianoforte si gioca qui.
Se ci spostiamo sull’umano, mutatis mutandis, ritroviamo questioni molto simili: per cosa è fatto essenzialmente l’uomo? Il problema teorico del contenuto della nozione di “natura umana” emerge grazie al paragone: se la “natura umana” ha come caratteristica universale il comprendere e volere, ciò che si può dire è che l’umano sia chiamato – in analogia con il pianoforte – a riflettere bene e a prendere liberamente delle buone decisioni. Ma il “La antropologico” che stabilisce il punto di riferimento per l’accordatura umana (per il buono) da dove lo si trae? Non sta infatti nell’essere dotati di intelligenza e di libera volontà, così come la nota maestra del pianoforte non sta nell’essere dotato di corde e di tasti.
Maritain ha sollevato in qualche modo questo problema, anche se nella soluzione bisogna ammettere che non è stato soddisfacente. Prosegue così:


«Ma poiché l’uomo è dotato di intelligenza e determina a se stesso i propri fini, tocca a lui accordare se medesimo ai fini necessariamente voluti dalla sua natura. Ciò vuol dire che vi è, per virtù stessa della natura umana, un ordine o una disposizione che la ragione umana può scoprire e secondo la quale la volontà umana deve agire per accordarsi ai fini necessari dell’essere umano. La legge non scritta o diritto naturale non è altro che questo» (Maritain 19932, p. 56).


Il problema delle conclusioni è piuttosto evidente: quali sono i «fini necessariamente voluti dalla natura (umana)»? Se sono il riflettere e il decidere liberamente, allora sono un riflesso chiaro della “natura” e, potremmo dire, siamo dinanzi ad una tautologia. E, infatti, tradizionalmente ciò che Maritain intende con la locuzione “legge non scritta” non è affatto il complesso dell’intendere e del volere.
Ma se questi fini sono qualcosa di altro, come il La per il pianoforte, allora come si scoprono? E soprattutto, i modi della scoperta consentiranno di dire una volta per tutte che questi fini sono «necessariamente voluti» dalla “natura umana”?


3. La legge naturale e il “contro natura”

Vorrei ora riflettere sull’applicazione di quanto considerato fin qui nell’ambito delle relazioni affettive, perché questo rappresenta uno dei luoghi specifici in cui tutte queste linee convergono e generano molti interrogativi.
Riepiloghiamo gli elementi forniti da Maritain sulla “natura umana”.
La nozione implica universalità, l’idea di qualcosa di valevole per tutti. Quali sono i tratti valevoli per tutti che rispondono all’idea di “natura”? Sintetizziamo: l’intendere bene e il volere bene. C’è poi il livello ulteriore, che riguarda appunto la declinazione concreta del bene, che possiamo paragonare all’accordatura, e che dipende dalla nota di riferimento. Il paragone di Maritain suggerisce che questo genere di nota, nell’umano, risponda a quel che si scopre a livello di legge non scritta o diritto naturale.
Se ora andiamo alle fonti tommasiane, i “precetti della legge naturale” sono quelli di cui si tratta nel celebre art. 2 della quaestio 94 (corpus):

«Prima di tutto troviamo nell’uomo l’inclinazione a quel bene di natura che egli ha in comune con tutte le sostanze: cioè in quanto ogni sostanza tende per natura alla conservazione del proprio essere. E in forza di questa inclinazione appartiene alla legge naturale tutto ciò che giova a conservare la vita umana e ne impedisce la distruzione. – Secondo, troviamo nell’uomo l’inclinazione verso cose più specifiche, per la natura che esso ha in comune con gli altri animali. E da questo lato appartengono alla legge naturale «le cose che la natura ha insegnato a tutti gli animali», come l’unione del maschio con la femmina, la cura dei piccoli e altre cose del genere. – Terzo, troviamo nell’uomo un’inclinazione verso il bene che è conforme alla natura della ragione, e che è propriamente umano: come l’inclinazione naturale a conoscere la verità su Dio, e a vivere in società».


Stringiamo ora il campo al secondo “precetto”: cosa implica dire che «l’unione del maschio con la femmina» appartiene alla “legge naturale”? Siamo, è d’obbligo segnalarlo, ormai fuori dal problema di cui si stava occupando Maritain.
Si aprono diverse possibilità.
La prima è quella più rigida: se le “leggi naturali” evidenziano coordinate dello stesso rango rispetto a quel che è riconosciuto come tipico della “natura umana” (l’intendere e il volere), se mostrano dei fini «necessariamente voluti dalla natura umana», allora è necessario che tutti gli esseri umani procreino, e che lo facciano attraverso l’unione del maschile con il femminile. Nessuno, chiaramente, accetterebbe questa applicazione dell’idea di “necessità”. Un pianoforte, per motivi diversi, potrebbe anche non suonare. Questo non lo rende ipso facto un pianoforte “contro natura” o da buttare. La “necessità” non può essere letta come se fosse obbligatorio vivere in coppia e adempiere alla procreazione.
La seconda possibilità è più modulata: pur non essendo necessario unirsi, qualora lo si faccia, risponde alla “natura umana” che questo necessariamente avvenga tra un uomo e una donna. E se avviene diversamente? Ecco il “contro natura”, contro il necessario per natura.
La suggestione esemplificativa di Maritain qui ci aiuta a cogliere il punto problematico: si tratta di capire se i pianoforti per natura devono necessariamente essere accordati in La a 440 Hz, nel caso si decidano a produrre suoni. Se così fosse, ogni diversità cadrebbe nel “contro natura”; e se i pianoforti “contro natura” «sono cattivi, bisogna riaccordarli, o sbarazzarsene come buoni a nulla» il da farsi risulta chiaro anche fuori dall’analogia. Mutatis mutandis questa è niente meno che la tesi secondo cui l’omosessualità va curata, e se non può esserlo allora l’unica via che rimane è di non “esercitarla”.
C’è la possibilità (per la teoria, intendo) di ammettere che esista anche un’altra accordatura, per quanto inusuale? Sarebbe come dire: nella “natura” del pianoforte è inscritto che debba essere necessariamente accordato, ma non necessariamente in La a 440 Hz.
Questa possibilità (per la teoria della “natura umana”) dipende da quanto è stringente il modo in cui si fa la scoperta di quei fini che sono raccolti nelle “leggi naturali”. Come si scopre il “La antropologico”? Il modo in cui rinveniamo questa precisa nota maestra dell’accordatura affettiva umana, porta con sé un vincolo di necessità tale da saldarlo al cuore della nozione di “natura umana”, al punto da escludere ogni altra accordatura? Come si scopre la necessità dell’eterosessualità (ammesso, ed è dubbio, che questo problema sia tematizzato nella quaestio della Summa)?
Occorre approfondire questo tema maritainiano della “scoperta dei fini” che chiamiamo “naturali”. La chiave metodologica ce la offre proprio Tommaso: «Tutte le cose verso le quali l’uomo ha un’inclinazione naturale la ragione le apprende come buone, e quindi da farsi, mentre le contrarie le apprende come cattive e da evitarsi» (S. Theol., I-II, q. 94, a. 2, co.). Attenzione che Tommaso è molto chiaro: il punto di partenza è la recensione delle inclinazioni, non una teoria. Dall’ascolto meditato di queste inclinazioni si traggono i “precetti della legge naturale”, che – come scrivevo sopra – hanno più il carattere di “esigenze sentite”, largamente condivise al di là delle culture e delle tutele civili, che non il significato primo di “obblighi morali da adempiere”.
Chiudiamo dunque il ragionamento: se (il condizionale qui rimane d’obbligo) ci fossero degli uomini e delle donne che, per inclinazione naturale – cioè per come sono e non per induzione o scelta – apprendono come buona l’attrazione per una persona del loro stesso sesso, potremmo ammettere che l’ascolto meditato di queste inclinazioni conduca a mettere a fuoco un altro modo di vivere l’unione, non per questo “contro natura”, proprio come l’essere accordato in La a 415 Hz non rende “contro natura” un pianoforte, per quanto lo qualifichi come diverso dalla maggior parte degli altri (e destinato a specifiche esecuzioni musicali)?
È un’ipotesi di rivisitazione dello snodo teorico, che andrebbe saggiata anche su altri fronti chiaramente.
Quel che pareva rilevante evidenziare è che l’idea che via sia una “natura umana” gioca in modo molto diverso a seconda di quel che entra o esce nel paniere del “necessario”. La riflessione di Maritain, pur chiaramente non potendo ritenerla impegnata nei possibili sviluppi che suggerivo di sondare, mostra che esiste una porzione del paniere, quella appunto dei “fini necessari” che non emerge per deduzione ma attraverso un processo di scoperta meditata nella consultazione della vita, e per questo soggetta a rivisitazione. Tommaso mostrava che questa scoperta passa attraverso l’osservazione e l’ascolto delle inclinazioni che gli uomini e le donne manifestano, che colgono come loro connaturali e che non possono essere ascritte a capriccio personale o a portato culturale. Quel che rimane passando al setaccio di questo filtro – molto esigente, va detto – diventa ingrediente significativo nell’accordatura umana, la quale – va detto anche – in nessun caso si gioca poi esclusivamente sul secondo “precetto della legge naturale”.
Se quel che rimane, nello specifico, fosse una duplicità di accordatura affettiva, il confine del “necessario” potrebbe arretrare senza contraddizioni, attestandosi su quel che l’inclinazione continua a restituire come autentico universale, ovvero la tensione all’unione. E qui si aprirebbe lo spazio più schiettamente morale: unione occasionale? Unione a tempo determinato? Unione plurima? O piuttosto unione esclusiva, fedele, durevole? Che cosa è atteso dall’umano al di là delle coordinate di base poste dalla sua “natura”? Questioni forse ben più rilevanti, che qui non è possibile sviluppare.
Probabilmente rimane che la nozione di “natura umana” solleva oggi più problemi di quanti non ne risolvesse un tempo. Tuttavia esplorarne più a fondo i contenuti, i nessi di necessità, la possibilità di precisarli e di riqualificarli è un compito che rimane aperto e che Maritain sicuramente ha interpretato come pochi altri, misurandosi con le questioni emergenti del suo tempo.


BIBLIOGRAFIA

Grandi G. (2013), Educazione e natura umana. Snodi di applicazione di un’idea, in Conte M., Grandi G., Terravecchia G.P. (Eds.), La generazione dell’umano. Snodi per una filosofia dell’educazione, “Anthropologica 2013”, Edizioni Meudon, Portogruaro (VE), pp. 15-34.
Maritain J. (1922), Antimoderne; tr. it. (1979), Antimoderno, Logos, Roma.
Maritain J. (1942), Les droits de l’homme et la loi naturelle; tr. it. (19932), I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano.
Maritain J. (1951), Man and the State; tr. it. (20033), L’uomo e lo stato, Marietti, Genova-Milano.
Tommaso d’Aquino (2014), Summa Theologiae; tr. it. Edizioni Studio Domenicano, Bologna.



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