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Filosofia politica in stile italiano

SIMONA FORTI
Articolo pubblicato nella sezione Sulla filosofia italiana

1. Geografie epistemiche e imperialismo filosofico

Quasi un ventennio fa’, un caro amico di origine ungherese con molti più anni di me, traduttore in lingua spagnola di Heidegger e di Adorno, mi disse una cosa che lì per lì non compresi. Tra gli ultimi rappresentanti di quella generazione di intellettuali europei costretti dalla storia ad emigrare da un paese all’altro, Zoltan Szankày argomentò che la libertà della filosofia dalla logica di mercato stava finendo. Noi, “giovani filosofi” - continuò - ci saremmo dovuti muovere al passo di una logica neo-liberale e neo-imperialistica, la cui dinamica centro-dell’impero/periferia avrebbe marginalizzato progressivamente chi non riusciva a farsi accreditare dal centro.
Non vi è dubbio che oggi globalizzazione del dibattito filosofico significhi in primo luogo anglofonizzazione e che la tanto evocata internazionalizzazione sia soprattutto una nord-americanizzazione, anzi una ‘statunizzazione’. È chiaro infatti, lo ammettano o no, che tanto coloro che lamentano l’irrilevanza della filosofia italiana (Ferrara e Farneti 2012) quanto coloro che sostengono la prominenza di un’ “Italian Theory” (Gentili, Stimilli, a cura di, 2015) giudicano da un apriori modellato sul ‘Citation Index’, per così dire.
Dico questo non per fare dell’antiamericanismo a buon mercato. Tale situazione, infatti, non comporta solo svantaggi e marginalizzazione per noi ‘provinciali’. Se la mancata pubblicazione in inglese, su determinate riviste o presso specifici editori, penalizza in termini di visibilità studiose e studiosi europei di grande qualità, e se, al contrario, il marketing culturale USA a volte conferisce statuti prestigiosi a pensieri brillanti, ma di poco spessore, è tuttavia indubbio che oggi, proprio anche grazie alla logica della comunità del ‘basic english’, le possibilità di comunicazione, circolazione e confronti tra le idee si moltiplicano come mai prima. Inoltre, a differenza dei sistemi di co-optazione delle elites intellettuali della vecchia europa, i metodi di selezione nel cuore dell’impero sono in media meno consociativi e più aperti al merito. Non è però mia intenzione addentrarmi in quella che comunque sarebbe una complicata analisi di sociologia della cultura. Desidero soltanto esplicitare le assunzioni spesso inconsapevoli o taciute dei criteri di giudizio implicati nella valutazione odierna della qualità della produzione culturale, nel nostro caso della produzione filosofica. E se anche la domanda che ispira questo numero di Cosmopolis riguarda non tanto la qualità, ma la specificità della filosofia italiana, la risposta non può fare a meno di interrogarsi sui parametri con cui si giudica oggi e sul riferimento alle realtà ‘esterne’ tra cui avviene il confronto necessario per emettere un giudizio.
Nel dopoguerra, almeno per quanto riguarda la filosofia politica, questo esterno con cui confrontarci e in base al quale giudicarci era fornito dalla filosofia tedesca, dai suoi autori e dal suo rigore nell’indagine testuale. La tradizione tedesca è tuttora molto più importante in Italia che in altri contesti europei. Negli anni Sessanta, si privilegia la filosofia francese, il suo impatto politico e sociale. Oggi non vi è dubbio che il metro della nostra riuscita o della nostra irrilevanza consista nei criteri di eccellenza, di prestigio e di successo che si affermano nel mondo anglosassone, in particolare nord-americano. Se anche i contenuti del pensiero italiano continuano a nutrirsi di filosofia tedesca e di filosofia francese, se continuiamo a lavorare su e attraverso Nietzsche, Weber, Heidegger, Arendt, Foucault, Derrida e così via, per affermare il nostro riconoscimento dobbiamo prima passare per gli Stati Uniti.
Un esempio eclatante, anche se tratto dall’ambito letterario, è la traiettoria del successo della scrittrice o dello scrittore che pubblica con lo pseudonimo di Elena Ferrante. Certo, noi la conoscevamo da tempo, alcuni di noi l’hanno letta ai tempi del L’amore molesto. Qualche sua opera era stata tradotta in francese, tedesco e spagnolo. Ma la sua notorietà oggi in Italia arriva a seguito dello strepitoso successo ottenuto negli Stati Uniti, dove è oggetto di un vero e proprio culto. Più interessante ancora, perché non solo relativo a una questione di marketing, è il caso di Primo Levi. Letto, amato e studiato a partire dalla pubblicazione presso Einaudi di Se questo è un uomo, ma assurto, finalmente e con ragione, ad autore immortale, in Europa e in Italia, grazie alla crescente attenzione che gli studiosi statunitensi gli stanno dedicando. Nell’ultimo decennio si sono moltiplicate monografie in lingua inglese sulla sua opera, ed è recentissima l’importante pubblicazione presso Liveright delle opere complete: cosa del tutto eccezionale per un autore italiano.
Del resto è del tutto evidente come anche la recente istituzione degli organi per la valutazione della ricerca in Italia si ispiri ai criteri valutativi messi a punto nel mondo di area anglosassone. Tuttavia, come qualche volta accade in provincia, si pecca di eccesso di zelo nell’imitazione: mentre negli Stati Uniti, in Canada, in Gran Bretagna è da qualche tempo ormai che si mette in discussione la possibilità di valutare l’eccellenza umanistica sui parametri di quella delle scienze dure, in Italia vi è l’incessante rincorsa di indicatori presunti oggettivi.
Ma che ne è delle scienze umane nell’epoca dell’Impact factor? E in particolare che ne è della filosofia? Come misurare un’espressione intellettuale che per molti aspetti trova la sua ragion d’essere nel sottrarsi ad una normatività oggettiva imposta dal senso comune?


2. Vizi italiani

Da qui vorrei partire per tentare di rispondere ad alcune delle domande poste dalla redazione di Cosmopolis. Non sono contraria ad una valutazione della ricerca. Se si riuscisse a trovare un metodo che non assumesse gerarchie epistemiche così inadeguate nei confronti delle scienze umane, credo che di per sé un monitoraggio della qualità dei prodotti, come li chiama l’ANVUR, potrebbe aiutare a ridimensionare alcuni dei vizi più diffusi delle nostre università. In fondo a tutt’oggi sono ancora gli Atenei i luoghi in cui si produce lavoro intellettuale, e dal buon funzionamento delle istituzioni universitarie dipende pure il livello della riflessione filosofica. La mia esperienza come membro GEV per la VQR, mi ha purtroppo messa di fronte ad alcuni casi di bassissima qualità che si spiegano solo alla luce del malcostume accademico. Un malcostume, il nostro, che non è deprecabile solo per questioni etiche, ma anche e soprattutto per i circoli viziosi intellettuali che può innescare. In non pochi casi i nostri metodi di cooptazione, che in questo non hanno davvero eguali in nessuna parte del mondo, abbassano il livello della discussione filosofica. Non perché i selezionati, o meglio i prescelti, siano necessariamente, come invece argomentano alcuni, i peggiori. È indubbio che se affermazione e promozione dipendono in maniera così massiccia da rapporti personali, e se i rapporti di dipendenza sono inevitabilmente segnati dalla logica del do ut des, la subalternità anche teorica diventa un reale pericolo. Malgrado i proclami a favore del pluralismo e del disaccordo, il conflitto teorico in Italia non viene mai davvero praticato. Quando c’è conflitto, questo è sempre uno scontro legato, o come causa o come effetto, ad una ostilità personale, la quale interrompe il confronto tra le idee e le posizioni. Ma può esserci filosofia senza confronto? Senza quel disaccordo, quello scontro che rimane franco e diretto, da cui la riflessione filosofica ha sempre preso fiato, non può esserci altro che pensiero ‘scolastico’ e convenzionale. E purtroppo il conformismo intellettuale non abita soltanto nelle filosofie che esplicitamente riconoscono un’autorità superiore. C’è conformismo anche tra le posizioni che amano definirsi radicali e antagonistiche. Perché se il desiderio di autorità è una costante antropologica, nel nostro paese e nei nostri ambienti intellettuali, il contrappeso offerto dal desiderio di libertà d’espressione, con le sue conseguenze a volte scomode, è molto spesso oggetto di autocensura.
Da questo punto di vista, il mondo anglosassone ha davvero qualcosa da insegnarci. A molti di noi è capitato di assistere a scontri brutali che in base alle nostre italiche esperienze non si sarebbero mai potuti ricomporre. Eppure con nostro grande stupore, fuori dalle aule del convegno o del seminario, i duellanti, che non si erano risparmiati colpi molto bassi, riprendono i normali rapporti di socialità precedenti gli incontri. Molto spesso, se sono colleghi, ritrovano senza sforzi l’intesa, anche su questioni di politica accademica. Poiché se c’è qualche cosa che davvero funziona in quell’universo geografico, è che l’interesse generale dell’istituzione è visssuto come inestricabilmente connesso al proprio. Pertanto, se un dipartimento di filosofia ha bisogno di un docente che sappia insegnare Nietzsche, Foucault e Deleuze, perché ciò risponde alle richieste degli studenti e dei curricula, anche il rawlsiano più radicale non opporrà resistenze. Le scarse risorse che l’Italia mette a disposizione per l’Università scatenano invece una vera e propria guerra tra e all’interno delle discipline, rendendo a volte l’offerta filosofica dei dipartimenti monotona, disegnata sul potere di affermazione e filiazione, teorica e personale, del capo cordata. Così che abbiamo corsi di laurea in filosofia la cui offerta didattica in realtà non offre vere alternative. Per non parlare delle recensioni che non fanno altro che lodare gli autori nell’auspicio di venir trattati nella stessa maniera.
Un altro ipotetico vantaggio di una valutazione veramente qualitativa ad essere qualitativa potrebbe essere quello di frenare l’emorragia delle pubblicazioni. Queste si moltiplicano a dismisura anche perché negli ultimi decenni il numero di pagine scritte è stato uno dei criteri chiave dell’accesso e della promozione universitari, in particolare nelle scienze umane. E anche qualora fossimo derridiani e ritenessimo un pregiudizio metafisico accusare la scrittura di tradire l’originario del pensiero, questo non significa elevare lo scrivere in sé e per sé a fine ultimo. Senza dubbio la scrittura non è semplicemente l’effetto sensibile e visibile di una causa immateriale; scrivere dà forma al pensiero, lo struttura, lo devia facendogli percorrere strade impreviste e risultati non programmati.
Tuttavia, la riflessione filosofica ha bisogno anche di vuoti, di silenzio, di battute d’arresto e di pagine bianche. È un tipo di riflessività che deve saper resistere al potere oggettivante delle richieste sociali. Ora, siamo così sommersi da testi, testi scritti per fare carriera, su argomenti scelti per calcolo e con freddezza, che non è facile trovare ancora autentica passione filosofica. Il difficile equlibrio tra visibilità, produttività e profondità non è certo un problema solo italiano. Ovunque il ‘publish or perish’ viene perseguito, portando con sé inevitabili effetti perversi. Ma in Italia, la situazione rischia di diventare parossistica per via delle note difficoltà del sistema di selezione e di promozione accademici.
Vi è da noi anche un’altra ragione che spiega l’iperproduzione di scritti filosofici: quella dovuta all’eccesso di uso pubblico, se possiamo chiamarlo così, della filosofia. Il mondo dei media sembra aver scoperto che la divulgazione filosofica fa audience. Iniziative quali i Festival, le partecipazioni di filosofi a programmi televisivi e radiofonici, i libri e i DVD sui classici della filosofia, che alcuni grandi quotidiani distribuiscono, rispondono senza dubbio ad un’esigenza reale, al bisogno di restituire una dimensione di senso non solo privato alla nostre vite, che va rispettata e tutelata. Ormai non esiste città italiana che non abbia messo in piedi un’iniziativa filosofica in grado di attrarre una buona parte della cittadinanza. È ovvio però che a questa spinta verso una divulgazione sempre più estesa corrisponda una perdita progressiva di problematizzazione. Se per certi aspetti semplificare aiuta la chiarezza, per altri un’eccessiva semplificazione dettata dal desiderio di andare incontro al gusto di un pubblico vasto e composito rischia di banalizzare il pensiero e di diluire la riflessione in una narrazione da buoni sentimenti. Non è un caso che le nostre librerie abbondino di manifesti e libretti di pop-filosofia che hanno l’indiscusso vantaggio di mettere d’accordo le ragioni del mercato coi gusti dei lettori non specialisti. Inoltre, è difficile per chi non gravita intorno ai circoli ‘giusti’ immettersi nei circuiti mediatici. Chi vi è arrivato, tiene ben saldo il privilegio, non da ultimo anche economico, che la diffusione comporta. È pertanto non semplice fare breccia nella strutturazione dei registri di divulgazione filosofica. Ragione per cui, anche in un ambito potenzialmente più libero, rispetto all’accademia, da vincoli personali e pressioni di conformità disciplinare, l’opinione filosofica rimane pressoché compartimentata e uniforme, segnata tutt’al più da un gioco delle parti che asseconda il bisogno di esposizione. Ma che ne è di una disciplina che si qualificava come ricerca della verità di contro ai luoghi comuni della doxa? Dobbiamo gioire di aver riportato il discorso filosofico nelle piazze in questa maniera o invece preoccuparci per l’eccesso di riflettori che ne attenuano la valenza critica e teoretica?


3. Filosofia politica e Italian Thought

Sono parecchi dunque i vizi nazionali che influenzano la qualità della filosofia: la gestione familistico-clientelare del reclutamento universitario; la ricerca di paramatri di giudizio biometrici che normalizzano l’originalità filosofica; l’eccesso di visibilità di una pop-filosofia che vuole compiacere; assenza di vero dibattito; blocco del ricambio generazionale. Nonostante ciò, è vero che la filosofia italiana vive oggi un momento fortunato. Se seguiamo il criterio, discutibile ma ormai incontrastato, della dinamica dell’accreditamento internazionale, o meglio nord-americano, quale indicatore del successo o dell’insuccesso di una specifica regione intellettuale, non c’è dubbio che in questi ultimi anni si sono intensificate le traduzioni dei lavori dei nostri filosofi e delle nostre filosofe. Questo riguarda una pluralità di contributi, dalla filosofia analitica all’ermeneutica. Bravi rawlsiani, famosi estensori del nuovo realismo, validissimi filosofi del linguaggio, eccellenti interpreti dei classici della filosofia: tutti dimostrano sicuramente di essere almeno all’altezza degli standards di una comunità scientifica allargata. Vi confluiscono, certo, con i tratti distintivi di una formazione fatta in Italia, ma inserendosi in correnti di pensiero i cui paradigmi di indagine sono stati fissati altrove. Tuttavia, l’internazionalizzazione della ricerca filosofica di per sé non risponde alla domanda circa l’esistenza di una specificità italiana della filosofia.
Negli ultimi anni si è parlato spesso di Italian Theory, a seguito soprattutto del libro di Roberto Esposito, Pensiero vivente, in cui con originalità l’autore individua a partire da Machiavelli una sorta di via filosofica italiana alla questione del biopotere. Nella persistente “triangolazione” tra la vita, la storia e la politica, una riflessione non nazionalistica sul potere troverebbe il suo tratto distintivo. Credo che a partire da questa lettura selettiva e profonda che Esposito ci ha fornito siano state disegnate genealogie della filosofia politica italiana contemporanea - quella che conosco meglio - che a mio parere rischiano di essere semplificanti, non da ultimo nei confronti della stessa ipotesi di Esposito. Non credo sia convincente la ricostruzione di un percorso lineare che dal marxismo eterodosso dell’operaismo degli anni sessanta arriva sino alle riflessioni sulla biopolitica di oggi. Non è un caso, ad esempio, che all’estero prevalga la percezione di almeno due itinerari italiani ben distinti: uno più militante, legato alle pratiche di determinati movimenti politici, ed uno più teoretico, legato ad una interpretazione ontologica del politico. Se dunque ha senso parlare di una specificità italiana della filosofia politica, essa va indicata nell’espressione di un rifiuto comune invece che nella persistenza di determinati contenuti e obbiettivi positivi. Esiste una famiglia di prospettive e di progetti filosofci diversi, anche divergenti, ai quali probabilmente è forzato imprimere l’etichetta di Italian Theory. È però legittimo, credo, parlare di un cantiere filosofico, ancora aperto, a cui lavorano pensatori e pensatrici italiani che si pongono il problema di ripensare il rapporto tra soggettività e potere da una prospettiva filosofico-politica che non si pone al seguito della scienza politica, della teoria del diritto e del funzionamento delle istituzioni. Credo sia plausibile parlare per questo ambito di Italian Thought, a patto di presentarlo come un paesaggio composito e disomogeneo, i cui luoghi tuttavia presentano uno stile comune nel concettualizzare la distinzione tra la politica, il politico e il potere. Una distinzione, questa, che è stata detta in molti modi in Italia: dalla filosofia dell’impolitico alla filosofia della differenza sessuale; dall’ontologia dell’essere-in-comune all’idea di comunità inoperosa, dalla storia dei concetti all’analisi della biopolitica. Tanti e divergenti sono stati e sono tuttora gli obbiettivi di questi percorsi, tutti, però, orientati a partire dalla messa in questione del nesso tradizionale tra potere, politica e soggettività.
A differenza di altri percorsi, come per esempio quello analitico anglosassone, l’articolazione concettuale della filosofia politica italiana che ho in mente si accompagna sempre, anche nei lavori più teoretici, alla necessità della storicizzazione. L’interrogazione del passato e delle metamorfosi cha la storia ha impresso ai concetti non risponde qui a un semplice interesse antiquario. A differenza dell’acribia storica di alcune ricostruzioni alla maniera tedesca, essa è quasi sempre volta a restituire la complessità del presente, la sua non ovvietà e dunque la sua ambigua normatività.
Inoltre, la filosofia italiana che potrebbe identificarsi con il cosiddetto Italian Thought ha resistito all’eccesso di frammentazione, a differenza, per esempio, di molte filosofie francesi. Forse per questo oggi, in un momento di stanchezza nei confronti dei discorsi sulla fine – fine della filosofia, fine della storia, fine delle grandi narrazioni – anche la struttura argomentativa che la filosofia italiana ha saputo mantenere ha contribuito ad un certo successo. Sensibilità storica unita ad un approccio ontologico al discorso politico, critica della normatività e senso della multilateralità del reale: l’interazione tra questi elementi è forse il tratto caratteristico di quella operazione decostruttiva che la filosofico-politica italiana ha saputo intraprendere, senza mai consegnarsi né al nichilismo impotente né al realismo più duro.
Ma nel tracciare la mappa di quel ‘displacement of politics’ di stile italiano che il mondo accademico globale ci riconosce, in patria si seguono le orme di un itinerario tutto al maschile, un vizio, quello del ‘maschilismo filosofico’ italiano, da cui la filosofia made in Italy non si è mai liberata e di cui spesso all’estero ci si stupisce. I filosofi citati come rappresentativi dell’Italian Thought sono tutti maschi, così come solo maschi sono i grandi pensatori contemporanei a cui essi avrebbero attinto: Nietzsche, Heidegger, Benjamin, Schmitt, Foucault, Deleuze... Eppure se c’è un’impronta originale che davvero tutti riconoscono come propriamente italiana, è quella lasciata sull’interpretazione dell’opera di una delle poche donne che hanno segnato la filosofia politica contemporanea: Hannah Arendt. A differenza che nel contesto tedesco e anglosassone, è in Italia che per la prima volta la Arendt viene letta in chiave di ontologia plurale, svincolandola tanto da una lettura di tipo liberale, e di etica del discorso comunicativo, quanto da una visione che la ritraeva come ripropositrice anacronistica della polis greca.
Senza entrare nei dettagli di questa pagina arendtiana scritta dalla filosofia italiana, credo però che non sia un caso che i primi filosofi di questo approccio ontologico-politico ad aver suscitato un forte interesse negli Stati Uniti abbiano entrambi a che fare, seppur in maniera molto diversa tra loro, con un originale rielaborazione di elementi tratti dal pensiero di Hannah Arendt. Mi riferisco a Giorgio Agamben e ad Adriana Cavarero. Del resto anche di Roberto Esposito, oggi letto e tradotto, viene menzionata la sua matrice arendtiana.
Ora, una delle ricorrenti critiche ‘domestiche’ mosse all’Italian Theory è quella di essere un costrutto elaborato per assorbire e neutralizzare le vere differenze italiane. In realtà, il rimprovero si riferisce più all’obliterazione di un’unica differenza, quella relativa all’operaismo come progetto politico di una soggettività alternativa. Non mi interessa ora entrare in questa discussione, ma sono d’accordo sul fatto che oggi il compito di un Italian Thought che voglia mantenere una suo spazio influente nella comunità scientifica globale sia innanzitutto quello di smentire i suoi critici e nominare a voce più alta le differenze che lo attraversano, non da ultima quella femminile.


Riferimenti bibliografici

Ferrara A., Farneti R. (2012), What is a Minor Philosophy? A Conversation on Thinking from the Pheriphery in a Global World, in “Philosophia”, Vol. 40, n. 4, pp. 717-739.
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