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Tempo e relazione: sulla fiducia come legame sociale

MICHELA MARZANO
Articolo pubblicato nella sezione Tempo, storia e politica.

1. Negli ultimi anni si è progressivamente affermata l’idea che basta credere in se stessi, avere fiducia in sé e essere certi del proprio valore e delle proprie qualità per andare avanti e ottenere qualunque cosa. Tutto si gioca sulla velocità e sull’onnipotenza della volontà. Gli altri contano relativamente. Ancora meno conta il tempo che normalmente si impiega per approfondire una relazione o creare legami sociali. Per sopravvivere, si deve essere capaci di capire velocemente quali siano i propri obiettivi, decidere quali siano le migliori strategie per ottenerli, valutare i rischi e le opportunità, utilizzare le competenze altrui identificandole il più velocemente possibile le debolezze e le potenzialità. «Dovete riconoscere che voi soli siete responsabili della vita che vi siete costruita», si legge in uno dei tanti manuali di sviluppo personale. «Dovete riconoscere che dipende solo da voi stessi il fatto di vivere in un mondo come quello in cui vi trovate. Il vostro stato di salute, le vostre finanze, la vostra vita amorosa, la vostra vita professionale, tutto ciò è opera vostra e di nessun altro» (Hernacki 2001, p. 47). Chi “vale”, impara presto a non dipendere da nessuno. Chi “vale”, capisce velocemente che è meglio aver fiducia solo in se stessi e non fidarsi mai degli altri. Certo, senza fiducia in se stessi, è difficile orientarsi nel mondo – il semplice fatto di apparire in pubblico presuppone un certo grado di fiducia in se stessi, la possibilità di sopportare, per esempio, di non essere percepiti esattamente come vorremo esserlo. Ma come si fa a creare relazioni senza aprirsi agli altri? E come ci si può aprire se non si accetta di passare un po’ di tempo per conoscerli e imparare ad accettare la dipendenza?


2. Numerosi studi contemporanei sulla fiducia si focalizzano sulla questione della sua razionalità e cercano così di ridurre la fiducia a una forma di relazione che scaturisce da due agenti morali. È in questa cornice che si inscrivono in particolare i lavori di Diego Gambetta (1988) e di Russell Hardin (2002). Basandosi sulla teoria della scelta razionale, che si propone di spiegare la condotta umana analizzando le motivazioni in termini di interessi personali, questi autori considerano che non si presta fiducia se non quando ci si aspetta, in cambio, un’azione vantaggiosa per se stessi. Riproponendo in tal modo che la fiducia è il risultato di un calcolo razionale che si può effettuare a partire dal momento in cui sia stato possibile accumulare un certo numero di informazioni riguardanti l’eventuale depositario della nostra fiducia e le probabili conseguenze del nostro atto di fiducia. La fiducia viene così a essere definita come «un certo livello di probabilità soggettiva», la qual cosa consentirebbe all’individuo di credere che l’altro compirà quanto si attende da lui. Prestare fiducia a qualcuno significherebbe dunque prevedere la possibilità di una cooperazione. Il che viene avvalorato se si cerca di cogliere le motivazioni che possono indurre il destinatario della fiducia a mostrarsi “degno” della fiducia accordata. Per Hardin, in effetti, bisogna sempre prendere in esame l’interesse che il destinatario della fiducia avrebbe a mostrarsene degno. Ecco perché il sociologo propone una teoria della fiducia basata sull’idea di interessi incastonati (encapsulated interests): presto fiducia a qualcuno se ho ragione di credere che risulterà nell’interesse di questa persona mostrarsene degna, in maniera appropriata e al momento opportuno. La mia fiducia riposa allora sul fatto che i miei stessi interessi sono incastonati negli interessi dell’altro: essa dipende dal fatto che il beneficiario della mia fiducia concepisce i miei interessi come se fossero in parte i suoi. Ma siamo veramente sicuri che la fiducia che fonda le relazioni sociali possa essere riassunta in una semplice “incastonatura di interessi”? Non si è anche in presenza di elementi affettivi che sfuggono al calcolo costi-benefici e, più in generale, alle componenti cognitive della fiducia su cui insistono Diego Gambetto e Russell Hardin, elementi che emergono con il passare del tempo e che si impongono come costitutivi di un rapporto che evolve e si trasforma, talvolta indipendentemente dalla propria volontà?


3. Il primo ad aver analizzato in modo sistematico la presenza, nella fiducia, di una componente diversa da quella cognitiva è stato il sociologo Georg Simmel. Per lui, la fiducia è indubitabilmente «una forma di sapere su un essere umano», ma questo sapere comprende sempre al suo interno una forma di ignoranza: «Chi sa tutto non ha bisogno di dare fiducia, e neanche chi non sa niente può, ragionevolmente, dare fiducia» (Simmel 1999, p. 355). Ecco perché non si può comprendere la fiducia senza immaginare l’esistenza di un «momento diverso» che accompagna il «momento cognitivo»: «Si ‘crede’ in una persona, senza che questa fede sia giustificata dalle prove che tale persona ne sia degna e spesso, talvolta, nonostante la prova del contrario» (Simmel 1909, p. 356). Simmel lega così direttamente il concetto di fiducia a quello di fede, sottolineando che spesso, nelle relazioni umane, c’è la tendenza a «credere in qualcuno» senza sapere esattamente perché, o perlomeno senza poter spiegare le ragioni precise di tale credenza. Succede comunque che, senza conoscerne i motivi, «il sé si abbandona in tutta sicurezza, senza resistenza, alla sua rappresentazione di un essere che si sviluppa a partire da ragioni invocabili che tuttavia non lo costituiscono affatto» (Simmel 1987, p. 197). Ma perché il sé si abbandonerebbe in tutta sicurezza, indipendentemente dalle ragioni oggettive che potrebbero spiegare la fiducia che si ripone in qualcuno? Quando ci si abbandona in tutta sicurezza non si corre il rischio di essere traditi? Quali legami esistono fra fiducia e tradimento?
Molte difficoltà inerenti al concetto di fiducia dipendono dal fatto che non sembra esservi coincidenza tra la fiducia (trust) e la sensazione di poter contare su qualcuno (reliance), su una persona le cui proprietà permettano di dire che si tratta senz’altro di una persona “affidabile” (reliable). Un individuo può in effetti essere considerato come affidabile a partire dal momento in cui possieda un certo numero di competenze tecniche e morali. Un medico, per esempio, è affidabile a partire dal momento in cui sembri padroneggiare il suo mestiere: mostra una competenza tecnica che lo rende capace di una buona diagnosi; sa quale genere di esami deve prescrivere al suo paziente; conosce le medicine indicate per una particolare infezione, eccetera. In breve, presenta un certo numero di competenze tecniche. Ma è affidabile anche quando si mostra all’altezza delle aspettative dei suoi pazienti riuscendo ad ascoltarli, lasciando loro la possibilità di lamentarsi, proponendo delle cure senza per ciò stesso imporle, eccetera (quelle che vengono definite competenze morali). Con tutto ciò si può però ridurre la fiducia alla semplice constatazione di tutte queste competenze?
In realtà, è tutt’altro che certo. Si può “contare su” questo medico senza per questo nutrire veramente fiducia in lui, vale a dire senza essere capaci di abbandonarglisi in tutta sicurezza. Una persona affidabile e su cui possiamo contare, in effetti, può deluderci, specialmente quando non adempie correttamente le sue funzioni e non risponde alle nostre aspettative. Ma non può tradirci. Ciò semplicemente per il fatto che non ci siamo resi vulnerabili nei suoi confronti. E viceversa: possiamo avere fiducia in qualcuno e renderci vulnerabili nei suoi confronti, accettando di dipendere dalla sua benevolenza, senza che nulla giustifichi la nostra fiducia in lui. Può sempre succedere che, nonostante numerosi segnali indichino che una persona non è completamente affidabile, si continui ad avere fiducia in lei. Può accadere, per esempio, che si abbia un amico al quale si vuole molto bene pur sapendo che si tratta di un individuo poco responsabile. Può darsi che ci abbia già delusi varie volte; magari, ogni volta, abbiamo giurato di non contare più su di lui. E nondimeno, può succederci di dimenticare i suoi errori e continuare ad avere fiducia in lui, di non smettere di sperare che quanto di buono abbiamo ricevuto da questa relazione sia più importante del timore del male possibile che ce ne può derivare.
Naturalmente non si tratta di negare qualunque legame fra la reliance (il fatto di contare su qualcuno che è affidabile) e la fiducia propriamente detta (trust). Spesso fra la sensazione di fiducia, e dunque della certezza che si ha di poter contare su qualcuno, e la fiducia, c’è una continuità. È quel che ha indotto il filosofo Simon Blackburn a parlare della reliance come di una base austera della fiducia (Blackburn 1998, p. 32). L’affidabilità di qualcuno, che si può constatare man mano che si frequenta una persona e che si conoscono le sue qualità e le sue competenze, è suscettibile di spingerci progressivamente a prestarle fiducia. Soprattutto se si riesce a instaurare un vero dialogo con questa persona e a dichiararle che ci si fida di lei: a partire dal momento in cui dichiariamo a qualcuno la nostra intenzione di contare su di lui, questa persona può a sua volta sentirsi motivata dalle nostre aspettative e impegnarsi in un processo alla cui foce può scaturire finalmente una fiducia reciproca. Tuttavia, nonostante tutto, la nostra fiducia non dipende direttamente dalla nostra volontà di avere fiducia: essa non è frutto di una conoscenza oggettiva, non si fonda su standard quantificabili. Allo stesso modo in cui non può essere pretesa, la fiducia non si può decretare. Si dà fiducia o non la si dà, con svariati gradi di coscienza: «Quando presto fiducia a qualcuno, dipendo dalla sua buona volontà nei miei confronti», scrive Annette Baier. «Non ho bisogno di riconoscerla né di credere che qualcuno l’abbia sollecitata o riconosciuta, poiché esistono cose come la fiducia inconsapevole, la fiducia non voluta, o ancora la fiducia di cui il suo destinatario non è cosciente» (Baier 1996, p. 235).
Nella fiducia, c’è sempre una dimensione inesplicabile che rimanda alla prima esperienza in assoluto di fiducia che si è vissuta con i propri genitori da piccoli. La fiducia è legata alla natura medesima dell’esistenza umana, al fatto che non siamo mai del tutto indipendenti dagli altri e autosufficienti, neppure quando abbiamo la possibilità di raggiungere un certo grado di autonomia morale. Da qui l’importanza di non dimenticare il ruolo della fiducia nelle relazioni fra genitori e figli, in un momento della vita in cui gli adulti ricevono un appello di fiducia assoluta da parte dei loro figli e devono essere in grado, per renderli autonomi, di ricevere questa fiducia senza tradirla. La fiducia dei bambini è totale, indipendentemente dalla “affidabilità” degli adulti. Questo spiega non solo la loro vulnerabilità assoluta, ma anche la grande responsabilità dei genitori. È solo quando un bambino viene riconosciuto nei suoi bisogni e accolto in seno alla sua famiglia che può cominciare a crescere e a diventare autonomo, pur accettando la fragilità a cui lo espone la sua fiducia. Come spiega Laurence Cornu, i «segni della fiducia accordata istituiscono il bambino come ‘nuovo venuto’ che costruisce la sua storia. Questi segni costituiscono momenti che fanno eventi e avvento, in cui l’adulto si assume il rischio di revocare il suo aiuto (il sostegno, l’accompagnamento, le rotelle della bicicletta) essendosi assicurato che la nuova situazione “tiene” (sfiducia ben impiegata) e rassicurando l’altro sul fatto che è capace di ‘tenere’» (Cornu 2006, p. 175).
In questa stessa cornice si inscrive anche l’analisi di Lars Hertzberg laddove spiega la differenza che esiste tra il fatto di contare su una persona affidabile e la fiducia che si presta o che si dà a qualcuno, indipendentemente dalle sue competenze specifiche, basandosi sull’esperienza dell’apprendimento: quando si accorda fiducia al proprio insegnante non si esercita alcun giudizio in proposito; colui che apprende non ha in linea di principio «alcuna prova dell’affidabilità o della inaffidabilità del suo insegnante nella materia in questione» (Hertzberg 1988). È proprio in quanto concede fiducia al suo insegnante senza conoscere le sue competenze che un alunno può facilmente essere tradito. La posizione che occupa l’insegnante rispetto ai suoi alunni, così come quella che occupano i genitori rispetto ai loro figli piccoli, conferisce al beneficiario della fiducia un potere considerevole. Al tempo stesso, è grazie al fatto che esiste questa fiducia incondizionata che il rapporto tra genitori e figli (così come quello tra gli insegnanti e i loro alunni) può permettere agli attori più vulnerabili di evolversi e di crescere, di scoprire il mondo e di scoprire se stessi. Ecco perché questo genere di relazioni permette meglio di ogni altro di comprendere i meccanismi della fiducia. Questa genera relazioni forti in cui la dipendenza e la fragilità si mescolano sempre alla possibilità di una trasformazione del sé e alla scoperta di un altro rapporto con il mondo (Origgi 2008). Ma essa permette anche di stabilire un altro rapporto con il tempo, specialmente con il futuro, dando alle persone la possibilità di credere che lo spazio delle possibilità è sempre aperto: a differenza della paura che induce ciascuno a rinserrarsi dentro un universo chiuso, in cui niente è più possibile, la fiducia autorizza a uscire dalla paralisi e ad aggirare gli ostacoli. Anche se non ci mette al riparo della delusione o, peggio ancora, del tradimento - poiché il fatto stesso di accordare fiducia a qualcuno implica che il beneficiario possa esercitare un certo potere su di noi -, la fiducia si oppone direttamente ai vicoli ciechi del timor panico che conoscono oggigiorno molte persone. Il problema, in effetti, è che le società occidentali sembrano oggi scisse fra, da un lato, una valorizzazione dell’onnipotenza della volontà e, dall’altro, una paura ossessionante di tutto ciò che sfugge, o sembra sfuggire, al controllo. Da un lato, si pensa di poter padroneggiare ogni cosa, al punto di colpevolizzare quelli che non vi riescono, considerando la mancanza di controllo come l’indice di una ignominiosa debolezza che è necessario, prima o poi, correggere. Dall’altro, si teme l’irruzione dell’inatteso: si ha talmente tanta paura del futuro, che si assume ogni sorta di comportamenti compulsivi allo scopo di neutralizzare ciò che si percepisce come pericoloso. Ma i comportamenti compulsivi posti in essere per combattere la paura spesso non fanno altro che generare un’angoscia ancora più grande. Il meccanismo finisce così per autoalimentarsi in una escalation progressiva della paura. In un siffatto contesto, la fiducia può intervenire per interrompere questo circolo vizioso, reintroducendo nel mondo la possibilità della speranza, inducendo ciascuno a scommettere nuovamente su se stesso, sugli altri e, più in generale, sul futuro.


4. È perché mi abbandono all’altro che spero possa essere motivato a non tradire la mia fiducia e a mostrarsene degno. Tuttavia, è proprio per il fatto di aver fiducia in qualcuno che posso esserne deluso e tradito. È in virtù del fatto che mi abbandono alla sua benevolenza che egli può approfittare della mia vulnerabilità e ferirmi. La fiducia umana, infatti, «contiene in se stessa il germe del tradimento» (Hillman 2004, p. 16) e si nutre prima di tutto delle debolezze e delle mancanze degli uni e degli altri. Aver fiducia in qualcuno non significa potersi appoggiare completamente su questa persona o aspettarsi in ogni istante il suo aiuto e il suo sostegno. Aver fiducia è ammettere la possibilità del cambiamento, del tradimento, del capovolgimento. Da un certo punto di vista, in effetti, fiducia e tradimento sono intimamente legati. Non solo la fiducia che posso nutrire per un altro non esclude la possibilità che questi mi tradisca, ma è anche proprio perché ho fiducia in qualcuno che posso esserne tradito: il marito che tradisce la moglie; una persona cara che tradisce l’amico; il patriota che tradisce la sua patria. Tradimento e infedeltà intervengono sempre in un rapporto che si fonda sulla fiducia. E questo a prescindere dalla ragione per cui si dà fiducia o dalle qualità della persona in cui si ripone la propria fiducia. Ma fiducia e tradimento sono, ciascuno a suo modo, manifestazioni di umanità: l’essere umano ha bisogno di fiducia, ma non riesce mai a sottrarsi durevolmente alle sue debolezze. Ecco perché accade che un individuo tradisca colui che gli concede la sua fiducia; ecco perché succede anche che lui stesso sia a sua volta tradito dalla persona di cui si fidava.
Fondare i rapporti umani sulla fiducia non significa credere che si incontrerà un giorno qualcuno incapace di deluderci, e neppure che si sarà capaci di non deludere mai a nostra volta. Non si tratta di credersi al riparo dal tradimento. In quanto esseri umani, ci risulta impossibile non desiderare o essere desiderati, sedurre o essere sedotti, ingannare o essere ingannati, fuggire o rovinare le cose. Come scrive Kant nella Metafisica dei costumi a proposito dell’amicizia, essa «è la piena fiducia che si accordano due persone che si aprono reciprocamente l’una all’altra rivelando i propri pensieri segreti e le loro impressioni» (Dottrina della virtù, I, II). Ecco perché essa permette spesso di rivelarsi senza falsità. Al tempo stesso, «tutti gli uomini hanno debolezze che devono nascondere perfino ai loro amici. Non può esserci fiducia completa se non quando sono in gioco intenzioni e sentimenti, ma la convenienza ci impone di dissimulare alcune debolezze». Benché accordare fiducia a una persona implichi sempre una certa forma di dipendenza rispetto alle sue competenze e alla sua buona volontà, c’è una differenza essenziale tra la fiducia cieca di un bambino e la fiducia che si impara a riporre nell’altro allorché si ha la possibilità di diventare autonomi. Un conto, infatti, è dipendere completamente da qualcuno e abbandonarsi totalmente alla sua volontà e alla sua benevolenza, un altro conto accettare la vulnerabilità in cui ci pone il fatto stesso di avere fiducia in qualcuno, pur sapendo che l’altro può non rispondere alle nostre aspettative, può non esserci per noi, può anche, talvolta, abusare della nostra fiducia.
Questa è tutta la differenza che c’è fra i bambini e gli adulti, sempreché vi sia stata la possibilità, per il bambino, di imparare a esistere attraverso e per se stesso. Ma c’è anche la differenza che esiste fra una concezione della fiducia costruita unicamente a partire dal modello della fede in Dio e una concezione della fiducia che tiene conto del fatto che gli esseri umani non sono del tutto affidabili. Aver fiducia non significa godere di una assicurazione totale. A differenza di Dio, l’uomo è impregnato di finitudine. Trasporre il modello di alleanza fra Dio e il suo popolo alle relazioni umane significa cadere nella trappola di credere che l’uomo possa, come Dio, essere senza fallo e senza limiti. Significa confondere due ordini di realtà giacché la fede – vale a dire la fiducia assoluta in un essere totalmente affidabile – non può avere lo stesso statuto della fiducia nell’uomo. A differenza della fede, la fiducia non è mai un puro “dono”: è qualcosa che si costruisce, per sé e per l’altro; qualcosa che si “fa” e che, talvolta, si “disfa”. Ecco perché, anche per un credente, la fiducia non è concepibile sul modello dell’alleanza tra Dio e gli uomini, a meno che non ci si voglia cullare nell’illusione di vivere ancora in un paradiso dove si farebbe un tutt’uno con Dio in una fiducia primordiale capace di offrirci protezione contro la nostra ambivalenza. La fiducia tra due esseri umani nasce a partire dal momento in cui ci si sforza di abitare e soggiornare in un luogo di transito, nello spazio dell’andirivieni dell’incontro. Certo, non può che svilupparsi in un mondo intelligibile, in un contesto che abbia senso; in una rete che le preesista – un nocciolo duro, un punto d’appoggio, l’esperienza vissuta durante l’infanzia dell’amore dei genitori. Ma non può sopravvivere se non si accetta che ogni persona abbia le sue zone d’ombra, i suoi lati oscuri. Le relazioni intime possono nascere e maturare soltanto se ciascuno accoglie l’altro con le sue ferite e le sue debolezze. La fiducia nasce dal legame – dai primi legami, quelli intessuti con i genitori e le persone care. Ma la sua vera forza risiede nel fatto che, benché resti per sempre fragile, genera sempre un legame.


Bibliografia

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