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Al tempo di Internet. Temporalità e logica della rete

MARCO BASTIANELLI
Articolo pubblicato nella sezione Tempo, storia e politica.

Un giorno forse, nel lontano futuro, qualche spirito nostalgico potrà affermare che “Al tempo di Internet si faceva così e così”, oppure che “Al tempo di Internet si viveva meglio”, e altre formule del genere più o meno stereotipate. Un po’ come quando oggi si sente qualcuno dire “Quando non avevamo i cellulari…” o “Ai tempi in cui Internet non c’era…” e simili.
“Al tempo di Internet”, pertanto, significa banalmente che vi è stato un tempo in cui Internet non c’era, ma anche che vi è un tempo in cui Internet pervade la vita delle persone e, infine, che probabilmente vi sarà un tempo in cui Internet diventerà qualcosa di diverso da come lo conosciamo oggi. E da questo punto di vista è chiaro che esso ha i caratteri di qualsiasi altro artefatto umano o entità finita, vale a dire è sottoposto alla temporalità, vive nel tempo e ne subisce gli effetti.
A un livello di indagine più profondo, però, se si considera la simultaneità della presenza-in-rete e lo stretto legame tra Internet e globalizzazione, allora ci si accorge che i cambiamenti introdotti dalla rete possono aver mutato lo stesso concetto di tempo, come indubitabilmente sembrano aver mutato quello di spazio. E se ciò è accaduto, allora “Al tempo di Internet” significa propriamente che vi è una temporalità dettata dalla rete, un nuovo modo di concepire il tempo e rapportarsi a esso, che è direttamente influenzato dal mezzo. Significa cioè che stiamo pensando, agendo e vivendo secondo un tempo scandito dalla rete, come se essa fosse il metronomo di una nuova musica collettiva.
Ebbene, probabilmente sarei fin troppo banale se mi limitassi a dichiarare che non credo in un mondo futuro senza Internet o, per lo meno, senza qualche sua evoluzione che ne implementi le funzionalità. Di fatto la rete globale ha cambiato per sempre la fisionomia delle nostre relazioni sociali, politiche, economiche e, entro certi limiti, i modi stessi della temporalità.
Perciò, se può considerarsi ancora attuale l’analisi dei media di Marshall McLuhan e la si applica alla rete, allora Internet, come ogni altro medium, non solo ha fornito uno strumento nuovo per cose nuove, ma ha anche modificato essenzialmente l’ambiente nel quale si è inserito. In generale, sostiene McLuhan a partire dalla nota tesi per cui i media sono “estensioni dei sensi”, «le conseguenze individuali e sociali di ogni medium […] derivano dalle nuove proporzioni introdotte nella nostra situazione personale da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia» (McLuhan 1964, p. 15). In particolare, se consideriamo Internet uno dei media elettronici, allora le nuove proporzioni sarebbero quelle indotte dal «campo simultaneo delle strutture informative elettriche», il quale ha come conseguenza di ricreare «il bisogno di dialogo e di partecipazione, invece che di iniziativa privata e di specializzazione, a tutti i livelli della vita sociale» (McLuhan 1962, p. 194).
Internet, dunque, oltre a una sua struttura fisico-elettronica, possiede anche una sua logica, che è quella dell’integrazione, della complessità olistica e dell’apertura, in risposta a esigenze sociali non più meramente individualistiche. La rete, del resto, è effettivamente una sorta di nuovo ambiente, il quale estende il mondo cosiddetto reale in uno spazio nuovo, che tuttavia chiamare virtuale è ormai riduttivo e fuorviante. Il web è infatti una parte significativa dell’universo, un ambiente con le sue regole, una sorta di ecosistema o microcosmo che ripropone e amplifica (e talvolta certamente distorce) le strutture del macrocosmo. Inoltre, ed è l’aspetto che mi sembra più rilevante, tutto ciò avviene su un piano che supera l’individuo in un’ottica collettiva.
A tale proposito, si può legittimamente parlare di cyberspazio, concetto che Pierre Lévy, senza facili ottimismi, definisce come «l’universo delle reti digitali» quale «luogo di incontri e avventure, oggetto di conflitti mondiali, nuova frontiera economica e culturale». Esso, continua il filosofo francese, «costituisce un campo vasto, aperto, ancora parzialmente indeterminato, che non bisogna ridurre a una sola delle sue componenti. È votato a interconnettere e mettere in interfaccia tutti i dispositivi di creazione e registrazione, comunicazione e simulazione» (Lévy 1995, p. 126)
È per questo motivo che la “rete” non è solo una metafora, ma descrive l’organizzazione e la trasmissione dei dati nel flusso continuo e incessante della infosfera. Luciano Floridi definisce l’infosfera come «l’ambiente costituito dalla totalità degli enti informazionali, che includono tutti gli agenti, i processi, le loro proprietà e relazioni reciproche» (Floridi 2009, p. 37). Sulla stessa linea, Terrel Ward Bynum precisa che, in ultima analisi, «ogni ente esistente nell’universo, se considerato a un certo “livello di astrazione”, è un “oggetto informazionale” con una caratteristica struttura di dati che costituisce la sua vera natura», di modo che il termine infosfera si può riferire all’«universo, osservato nella sua interezza» (Bynum 2009, p. 17).
La infosfera è dunque la sfera delle informazioni e, nei sensi appena indicati, Internet ne costituisce un aspetto e ne è anche l’espressione più propria. Il web è un ambiente a tutti gli effetti, anzi l’ambiente nel quale ormai passiamo gran parte del nostro tempo, secondo la logica della rete. Si tratta inoltre di un ambiente in continua interazione con quello delle relazioni meno complesse o del cosiddetto mondo reale o naturale, dai quali peraltro dipende sotto molti aspetti.
Ciò che intendo dire è che la navigazione nella rete avviene comunemente tramite software che trasformano impulsi elettrici in bit digitali o in immagini su uno schermo, i quali poi vengono trasmessi ai nodi della rete attraverso il processo inverso. In tal modo, i tempi della fruibilità dei dati e il loro scorrere nelle interconnessioni del web, non dipendono soltanto dal modo in cui lo facciamo nella vita di tutti i giorni; al contrario, il tempo del modo di vivere quotidiano ne viene influenzato ed è sempre più dettato dalla velocità pressoché istantanea dello scambio delle informazioni in rete.
In tal senso, è degna di nota la tesi di Adriano Ardovino il quale, in un recente studio sulla fenomenologia della rete, sostiene che «quello che Heidegger affermava della condizione umana, riformulando l’esistere qui e ora […] in quanto essere-nel-mondo, si può applicare, per molti versi, alla condizione attuale di una parte dell’umanità, al suo costante e quotidiano essere-in-rete che rinvia a un più ampio essere-nella-Rete». In tal modo, non solo il mondo è già, di per se stesso, «una rete di significati e linguaggi, di cose e comunità», ma Internet è come se ne fosse il potenziamento, prescrivendo «una ridefinizione della nozione culturale di presenza (quella che raccoglie e combina in sé lo spazio e il tempo), dissociandola in modo intensivo dalla sua cornice fisica e riqualificandola come presenza-in-rete» (Ardovino 2011, pp. 17-18).
Seguendo il filo di queste considerazioni, è allora probabilmente azzardato ritenere che Internet sia un microcosmo all’interno del macrocosmo dell’intera esperienza umana o che si limiti semplicemente a riproporre (virtualizzandole) le relazioni tradizionali. In primo luogo, come già si è detto, perché la rete è pur sempre dipendente da alcune parti dell’universo, cioè dalle connessioni elettriche e da tutto l’hardware necessario per farle funzionare; in secondo luogo, perché la rete non si limita a riprodurre i luoghi e le modalità della vita quotidiana ma li trasforma profondamente, nella fruizione e nella funzione, o ne crea di nuovi, come i network sociali; in terzo luogo, e banalmente, perché esiste un digital divide, per cui molta parte della popolazione, persino nei paesi più avanzati, è ancora analfabetizzata all’uso dei nuovi media o non vi ha affatto accesso, problema che non sembra destinato a risolversi nell’immediato.
In effetti, vi è un carattere di Internet che induce a pensare che il tempo della rete abbia delle peculiarità che influenzano le relazioni umane a tutti i livelli. Rete significa interconnessione, ma la logica della rete delle reti è tale per cui la simultaneità dei tempi e degli spazi si inserisce in una dinamica “anarchica”, derivante dal modo in cui le informazioni viaggiano tra svariati e potenzialmente infiniti nodi sparsi in tutto il mondo. In un testo risalente al 1989, quando ancora gli sviluppi delle reti di comunicazione che si servono di computer gli appariva «una realtà interattiva molto diffusa» ma «dagli sviluppi per ora imprevedibili», Gianni Vattimo aveva sottolineato che «il passaggio dalla tecnologia meccanica a quella elettronica porta con sé l’emergere del modello della “rete” al posto di quello dell’ingranaggio mosso da un unico centro» (Vattimo 2000, pp. 103-104).
Questo significa che la rete è per sua natura una circonferenza con centro in nessun luogo e che, come tale (e certamente anche per via della sua genesi come tecnologia militare), essa costituisce una sorta di grande organismo, che ha proprietà sopravvenienti e olistiche rispetto a quelle dei singoli dispositivi o individui che la compongono. Di conseguenza, la rete irretisce, cattura gli altri media e gli individui in un nuovo spazio digitale e li proietta tutti in una realtà, che ne esce non necessariamente violata, ma certamente aumentata.
Per questo motivo, non mi pare più sufficiente (e forse nemmeno corretto) parlare della rete come di uno strumento che erode il “principio di realtà”. Vattimo scriveva che, «nella società dei media, al posto di un ideale emancipativo modellato sulla autocoscienza tutta spiegata, sulla perfetta consapevolezza di chi sa come stanno le cose (sia esso lo Spirito Assoluto di Hegel o l’uomo non più schiavo dell’ideologia come lo pensa Marx), si fa strada un ideale di emancipazione che ha alla propria base, piuttosto, l’oscillazione, la pluralità, e in definitiva l’erosione dello stesso “principio di realtà”» (Vattimo 2000, p. 15). Aveva ragione, ma credo perché avesse in mente soprattutto i media classici, quelli che si fermano a una relazione duale tra mezzo e fruitore e che imprigionano il presente in tale relazione; e ciò, come egli stesso aveva dichiarato, perché forse non aveva ancora intuito bene gli sviluppi futuri delle reti di computer.
Internet non è dunque fuori dalla realtà, ma la amplifica riducendo gli intervalli dello spazio e del tempo. E se questo ha un senso, allora viene naturale pensare che la rete abbia un tempo e uno spazio propri, che non è sufficiente definire meramente virtuali, poiché hanno effetti reali e più che determinati. In essa le informazioni viaggiano alla velocità della luce, in quantità e tempi talmente elevati che per i canoni del mondo analogico risultano equivalenti all’istante. Il mondo interconnesso è il mondo in cui le distanze spaziali tra uomini e luoghi tendono a zero, perché tende a zero il tempo necessario a superarle.
Si può allora affermare che Internet opera nel tempo dell’eterno presente? Questa, a mio avviso, rischia di essere una semplificazione eccessiva, ma che va necessariamente presa in considerazione. Quando Heidegger individuava il senso autentico del presente nell’apertura al futuro, aveva in mente l’idea che «il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica è l’avvenire» (Heidegger 1927, §65). Il tempo autentico, cioè, non è riducibile alla databilità o alla mondanità. In quest’ottica, dunque, non sembra autentico l’eterno ora di quel tempo virtuale in cui milioni di persone, ogni istante, rendono pubblica la loro vita nella riproduzione fotografica di ogni singolo momento ed evento, ad esempio nei cosiddetti social network.
A proposito di questa possibile deriva nell’inautenticità dell’istante riprodotto e pubblicato, vale la pena ricordare le profetiche parole di Italo Calvino il quale, prevedendo le dinamiche della società dell’immagine (per noi amplificata a dismisura dai social network), ammoniva a considerare quanto è breve il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata. Come se tutto ciò che non è fotografato fosse perduto o mai esistito e, quindi, come se per vivere autenticamente occorresse fotografare ogni istante della vita. E quindi, scriveva Calvino, o si vive in modo quanto più fotografabile possibile, oppure si considera ogni momento della propria vita degno di essere fotografato: «La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia» (Calvino 1970, p. 47).
Sarebbe però improprio identificare Internet con i social network, che ne costituiscono solo un aspetto e una funzione, peraltro non necessariamente riducibile all’immagine. A mio avviso, però, tale riduzione può dipendere dal fatto che il tempo di Internet sembra scorrere almeno secondo tre modalità. La prima è quella del bit, dell’unità di informazione che viaggia alla velocità della luce e che permette di spostare una grande quantità di dati in un tempo che può dirsi istantaneo o simultaneo. La seconda è quella dell’immagine in senso stretto, che è la trasposizione dell’informazione nell’interfaccia. La terza è la modalità determinata dall’ipertesto, dall’interconnessione potenzialmente infinita, un aspetto della quale è la condivisione. L’utente della rete vive per lo più nella seconda e terza modalità del tempo, e non si accorge che la prima ne influenza la fruizione.
In altri termini, il tempo della rete è un tempo complesso. Perciò, è una semplificazione eccessiva ridurlo a mero presente, poiché come tale non sarebbe diverso da quello di certi media tradizionali quali la televisione. Il tempo del mondo interconnesso è veloce, perché tende a riprodurre la velocità con cui si muovono le informazioni, ma è anche ramificato, poiché segue una potenzialmente infinita serie di rimandi ipertestuali. Di conseguenza, esso modifica anche lo spazio, ma non perché sia un altro spazio rispetto a quello cui siamo abituati, bensì perché è uno spazio più dilatato e, al tempo stesso, più piccolo, in quanto le distanze sono annullate e colmate nel tempo di un istante.
L’istante è dunque la modalità introdotta dal tempo di Internet. Istante che può essere certamente inautentico, poiché consuma e distrugge il futuro in un eterno presente dell’immagine; eppure, è anche l’istante che avvicina, poiché in esso vive la presenza simultanea di un mondo interconnesso; non è cioè mera riduzione solipsistica di una relazione duale, ma accorcia le distanze dilatando al contempo lo spazio. Il World Wide Web, in tal senso, non è altro che un gigantesco racconto, in cui l’identità culturale è esplosa in una miriade di centri potenzialmente coincidenti con ciascun essere umano e i media che utilizza, ma di fatto ben più complesso della semplice somma di tali centri.
A tale proposito, De Kerckhove evidenzia come i contenuti essenziali della cultura, prima raccolti in libri, biblioteche, musei e monumenti di ogni tipo, ora stanno passando alla rete. Il web raccoglie tutto ciò che «si sa, si vede e si pensa nel mondo», mettendolo a disposizione di tutti. Si viene così a determinare una sorta di «memoria comune», in cui «alla sintesi psicosensoriale in tempo reale della diretta televisiva e all’interattività sempre più fluida del calcolatore, si aggiunge la compresenza del mondo intero». Il web, conclude De Kerckhove, non rinchiude l’utente nella dimensione privata dello scritto, né lo rende dipendente da un flusso unidirezionale come quello del tubo catodico, ma gli offre «la possibilità di aprirsi al mondo, e di aggiungere alla sua memoria privata tutta la memoria del mondo» (De Kerckhove 2008, p. 157).
Internet, pertanto, può essere inteso come una nuova grande narrazione, e non meramente come una post-narrazione. E il tempo in cui tale racconto si svolge è quello dell’intelligenza collettiva e connettiva, che influisce in modo determinante sulla nostra identità. Mi pare perciò che sia possibile elaborare l’analisi dell’identità narrativa proposta da Paul Ricoeur adattandola al tempo del web e, in tal modo, provare a considerare la rete, senza celare un certo ottimismo, come il luogo in cui si può forse sanare lo scarto tra tempo cosmologico e tempo psicologico. Ricoeur, in particolare, scrive che l’esperienza umana ha il carattere di essere temporale e che «il mondo dispiegato da qualsiasi lavoro narrativo è sempre un mondo temporale» o, il che è lo stesso, «il tempo diviene umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo». Ogni racconto è dunque significativo «nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale» (Ricoeur 1983, p. 15).
A suo avviso, inoltre, ogni racconto rifigura il mondo, poiché si stacca da esso per poi recuperarlo sul piano del linguaggio. È per questo che il web può rientrare a pieno titolo nella categoria del racconto. L’ipertesto globale della rete, tuttavia, non sembra essere un racconto come quelli tradizionali. In primo luogo, non ha il tempo lungo della parola scritta, ma quello istantaneo del bit di luce e, come tale, non induce alla meditazione ma alla fruizione anarchica, persino consumistica e dispersa; inoltre, non è veramente possibile chiuderlo o smettere di leggerlo, non esiste davvero un dentro e un fuori dal racconto, poiché la sua pervasività è tale che determina ormai gli aspetti principali della nostra esistenza quotidiana; e nemmeno risponde alla logica duale di autore/lettore, bensì a quella complessa dell’identità collettiva e connettiva, in cui siamo tutti autori e lettori al tempo stesso; infine, ed è forse la differenza principale, è un racconto che ha la capacità di inglobare e connettere tutti gli altri racconti, come un libro che non si limita a citare altri libri o a collegarsi virtualmente a essi attraverso l’indice o gli schedari di una biblioteca, ma li contiene in sé realmente e istantaneamente tutti.
Di tali dinamiche, però, è possibile fornire una duplice interpretazione. Da un lato, si può ritenere che l’identità personale, immersa in quella collettiva, ne risulti potenziata, secondo logiche olistiche cui già si è accennato. Da un altro lato, però, essa può anche uscirne indebolita o impigrita, poiché si rischia di delegare al tutto ciò che la parte non riesce più a fare. Quale sia la condizione dell’uomo al tempo di Internet è oggetto di ricerche e dibattiti sociologici, ma, con un certo ottimismo, De Kerckhove ritiene che il tempo e lo spazio di Internet modifichino o meglio implementino il funzionamento stesso della mente umana. Impariamo a pensare secondo logiche di rete e ciò non solo non ha effetti necessariamente negativi, ma probabilmente è anche il potenziamento di un’abilità che l’essere umano ha già da sempre sfruttato.
Lo studioso belga, del resto, ipotizza una sempre maggiore integrazione tra mente e web, un percorso probabilmente senza ritorno. Scrive che «i mezzi di comunicazione incidono a fondo sulla natura umana perché incidono sul linguaggio, il quale, a causa della sua presenza attiva nel cervello e nel sistema nervoso in generale, è l’elemento centrale del trattamento biologico e organico dell’informazione». Ma i mezzi di comunicazione, a loro volta, «rappresentano l’effetto specializzato di un lavoro sul linguaggio» ed esercitano come tali un’azione sui sensi e sul sistema nervoso (De Kerckhove 2008, p. 17).
Non bastano certamente le poche pagine precedenti per giustificare una conclusione generale. Eppure, mi sembra che da quanto si è detto possano emergere almeno le linee di una prospettiva che colloca il tempo della rete non necessariamente in contrasto con quello dell’identità. La logica della rete, in altri termini, non si può chiarire in un’ottica meramente postmoderna, poiché Internet non nega la possibilità di un grande racconto né erode semplicemente il cosiddetto principio di realtà. La rete, al contrario, globalizza il racconto e amplifica la realtà, ne aumenta le possibilità e lascia intravedere una sorta di “nuovo rinascimento”.
Certamente, però, come ogni profonda innovazione, anche la rete espone tutti al rischio di disperdersi e di restare prigionieri di una logica globale omologante, simultanea e anarchica. E, in effetti, esistono già nuove forme di schiavitù, alienazione, dipendenza e segregazione degli esseri umani e il web, come gli eventi ogni giorno lasciano trasparire, può potenziare tutti gli antichi mali del mondo. Ma l’aspetto che mi sembra più rilevante, e che forse nasconde anche la chiave per prevenire i vecchi mali che si ripresentano con mezzi nuovi, è che la rete collega gli individui e gli spazi, riducendo i tempi delle relazioni e collocandole su un piano potenzialmente globale. Come dire che, al tempo di Internet, siamo tutti più vicini e consapevoli di condividere una sorte comune.


Bibliografia

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