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La sanzione di ogni narrare: sulla morte

DAVIDE SISTO
Articolo pubblicato nella sezione I tempi della quotidianità

1. Il morire è uno spreco di tempo: l’eternità transumana e il tedio di Elina Makropulos

L’accelerazione degli sviluppi tecno-scientifici, a partire dalla seconda metà del XX secolo, ha modificato radicalmente le consolidate convenzioni relative ai cicli vitali e le idee acquisite sull’identità umana. Negli ultimi decenni, in particolare, la crescita esponenziale degli studi biogerontologici, dediti all’osservazione dei mutamenti psico-fisici e sociali che caratterizzano l’invecchiamento, all’analisi dei processi d’invecchiamento cellulare e all’elaborazione di teorie volte ad arginare le malattie legate al progressivo deterioramento organico, va di pari passo con la convinzione – sempre più diffusa – che l’invecchiamento e la morte non dipendano da un programma genetico previsto dal Dna, ma vadano interpretate come patologie.
La biogerontologia è di fatto una sotto-area della gerontologia, termine coniato nel 1903 dal biologo russo Il’ja Il’ič Mečnikov (1845-1916). Costui ritiene la vecchiaia un processo patologico e non naturale, causato dal venir meno dell’armonia corporea a causa del parassitismo e dello sfruttamento a opera di cellule non nobili, a loro volta provocati da intossicazioni che seguono le fermentazioni intestinali. Mečnikov mette in luce come la considerazione della vecchiaia e, di conseguenza, della morte nei termini della malattia e non della naturalezza non sia affatto un’utopia: il processo di invecchiamento magari facilita l’intervento della morte, indebolendo l’organismo nei confronti delle malattie, ma non per questo porta automaticamente alla morte in modo naturale. Pertanto, è possibile oscillare tra la naturalità e la normalità dell’invecchiamento e della morte in quanto fenomeni universali, nei confronti di cui non sono mai state attestate eccezioni e che sembrano inscritti nell’eredità genetica, e la loro presunta innaturalità e anormalità, rispetto a un’eventuale non mortalità biologica o al funzionamento ideale di un essere composto di elementi non mortali (cfr. Sisto 2013, p. 171).
In linea con le ricerche condotte da Mečnikov e consapevole dello spazio vuoto che separa naturalità e innaturalità in relazione ai processi di deterioramento psico-fisico aventi luogo in ogni singolo individuo con il trascorrere degli anni, il biochimico inglese Aubrey de Grey sta portando gli attuali studi biogerontologici nella direzione di una lotta radicale contro l’invecchiamento (e quindi contro la morte, quale suo ultimo atto). Fondatore dell’istituzione denominata Sens (Strategies for Engineered Negligible Senescence) e con l’appoggio del co-fondatore di Google, Larry Page, il quale ha creato la società Calico la cui missione consiste nello sviluppo di soluzioni per allungare l’aspettativa di vita, De Grey nei suoi due libri The Mitochondrial Free Radical Theory of Aging (1999) e Ending Aging. The Rejuvenation Breakthroughs that Could Reverse Human Aging in Our Lifetime (2007, scritto insieme a Michael Rae), parte dall’assunto che l’invecchiamento sia una patologia che si manifesta a livello molecolare e cellulare quale conseguenza di effetti collaterali prodotti dal metabolismo. Non essendo noi in grado di smaltirli, essi indeboliscono man mano l’organismo, fino a condurlo alla morte. Invece di soffermarsi sulle cause dell’invecchiamento, egli intende agire sugli effetti, di modo da mantenere il corpo in condizioni psicofisiche salubri per un tempo indefinito. Pertanto, individua sette principali cause di invecchiamento (rifiuti cellulari ed extracellulari, mutazioni dei cromosomi e dei mitocondri, cellule morte, cellule dannose, legami extracellulari fra proteine), la cui possibile risoluzione implica la sostituzione di organi naturali malati con organi artificiali, con i quali garantire a ogni singolo individuo un prolungamento dell’esistenza ad libitum.
Al di là delle spiegazioni medico-scientifiche, è interessante notare che il fondamento teorico di queste ricerche biogerontologiche coincide con la convinzione che l’epoca dell’umanesimo stia per entrare nell’età del transumanesimo. Se l’umanesimo mira a esaltare le potenzialità umane che si sviluppano all’interno di un ben delineato framework razionale e scientifico ma senza mettere in discussione il carattere “naturale” dell’identità umana, il transumanesimo rappresenta una corrente di pensiero che, facendo sua l’idea di progresso sviluppata dall’umanesimo, cerca di condurre l’umanità nella direzione di una realtà – per così dire – post-naturale. In questa nuova dimensione reale, in virtù delle radicali alterazioni della natura causate dalle innovazioni neuroscientifiche, biotecnologiche, nanotecnologiche e neurofarmacologiche, sembra concretizzarsi l’attuazione delle antiche speranze di Condorcet: vale a dire, pervenire a una fase storica in cui la morte avrà luogo solo come effetto di accidenti straordinari e il dissipamento delle forze vitali sarà sempre più lento (Condorcet 1988, p. 350). Il transumanesimo, come evidenzia uno dei suoi principali esponenti, Max More, pone le basi per la costruzione di un’ottimistica filosofia della vita, in cui sapere scientifico e sapere umanistico cooperano in funzione di un’estensione temporale illimitata dell’esistenza e di una trasformazione artificiale dell’organismo umano. I presupposti di fondo sono la necessità di abolire la morte intesa come «il più grande dei mali» (More 1990, p. 8), giacché il suo unico scopo è l’interruzione assoluta di qualsivoglia attività, e la volontà di raggiungere «l’estate senza fine di una giovinezza letteralmente perpetua» (De Grey, Rae 2007, p. 335).
L’attribuzione di un valore morale radicalmente negativo alla morte – il più grande dei mali – e l’idea che la felicità si consegua sostituendo la vecchiaia con una giovinezza perpetua rientrano, a nostro modo di vedere, all’interno di un orizzonte sociale, politico ed economico che ha fatto della disposofobia il suo cavallo di battaglia programmatico, in quanto strumento di potere garantito. L’accumulo compulsivo e la ricerca spasmodica della quantità, che s’innestano sul percorso rettilineo tracciato nel momento in cui il simbolo ha ceduto il posto al simulacro, rappresentano le cifre identificative di una realtà sociale il cui ordine è puramente meccanico. Tale realtà volge lo sguardo nella direzione di un modello di vita à la Metropolis (1927) di Fritz Lang, in cui turbe di uomini-schiavi attendono impauriti a macchinari giganteschi e mostruosi, affinché l’ordine e la perfezione dell’insieme siano tutelati quali (effimere) fonti di felicità collettive e individuali. All’interno di un meccanismo in cui ordine e perfezione risultano essere gli obiettivi ultimi, raggiungibili solo mediante la trasformazione del vivere in un ininterrotto processo di accumulo, la morte come interruzione non può che divenire «il più scandaloso degli sprechi» (Anders 2007, p. 227). Nell’éra del fare bandito è tutto ciò che contrasta l’accumulo, l’accelerazione e la produttività: «in Molussia – osserva Günther Anders – poco prima della distruzione della città, lavorava un gruppo di ricerca con il compito di scoprire se il continuare a morire dei cittadini senza alcun profitto non poteva, in qualche modo, essere trasformato in energia» (ibidem). La provocazione di Anders è in linea con il pensiero di Jean Baudrillard, il quale vede all’interno della società odierna una specifica corrispondenza tra la vita e il funzionamento senza limiti: «la nostra idea moderna della morte è governata dal sistema di rappresentazione della macchina e del funzionamento. Una macchina funziona o non funziona. Così la macchina biologica è morta o viva» (Baudrillard 2009, p. 176). L’equivalenza tra il vivere e il funzionare stabilisce, in primo luogo, l’esclusione reciproca tra la vita e la morte, su cui si fonda l’istanza di mediazione e di rappresentanza che incanala l’esercizio del potere e del controllo sui binari della iatrogenesi sanitario-culturale. Rende, in secondo luogo, la morte una vita residua, uno scarto di produzione in cui si riflette l’esecrabile fallibilità umana, e il morire la più grande anomalia sociale che ci sia, perché non programmabile né localizzabile all’interno del sistema cumulativo teso alla perfezione. Motivo per cui la morte è il più grande dei mali o, come dice Baudrillard in riferimento alla società odierna, «una delinquenza, una devianza incurabile» (ivi, p. 139). Determina, infine, l’incapacità individuale di comprendere e accettare la mortalità, come dimostra il processo di rimozione del morire che ha caratterizzato il secolo passato e su cui si sono soffermati numerosi studiosi e scienziati.
Che le costruzioni teoriche di De Grey e More, paradigmatiche di un preciso disegno socio-politico-economico contemporaneo, di fatto siano la sabbia dove essi infilano il loro capo da struzzi, per dimenticare che gli organismi sono a termine per definizione (cfr. Sozzi 2014, p. 68), lo dimostra bene il seguente paradosso: la maggior parte delle persone che manifesta sofferenza per la propria condizione mortale e che non accetta l’idea di poter morire, al tempo stesso, non ritiene affatto desiderabile una vita eterna, indipendentemente dalla presenza o dall’assenza del processo di invecchiamento (cfr. Hauskeller 2013, pp. 89-113). Senza scomodare il celebre caso di Elina Makropulos, frutto della finzione artistica di Karel Ĉapek e analizzato teoricamente dal filosofo Bernard Williams, vale a dire il caso di una donna che, raggiunti i 342 anni di vita, desidera con tutta se stessa morire poiché una vita senza fine l’ha portata soltanto a uno stato di tedio, indifferenza e freddezza, possiamo comprendere il menzionato paradosso, da un punto di vista filosofico, se poniamo il rapporto tra la vita e la morte in relazione alle caratteristiche proprie del divenire temporale. Pensare tale rapporto in termini di esclusione reciproca, arrivando al punto di considerare la morte come una patologia che i progressi tecno-scientifici un giorno saranno in grado di sconfiggere, significa ipotizzare una vita a cui si può sottrarre la morte, quindi una vita a cui mai è dato un limite e che funziona ininterrottamente. Ora, la sottrazione della morte alla vita e l’idea di un vivere/funzionare illimitato non possono che cagionare una trasformazione radicale dei ritmi temporali e un’inversione di velocità senza precedenti: come ben evidenzia Eugène Minkowski ne Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, una vita privata della morte è paragonabile a un film al rallentatore. Ogni pulsazione decelera progressivamente finché la vita stessa «estendendosi sempre più in lunghezza nelle sue manifestazioni isolate, finisce col fissarsi in un’immobilità completa» (Minkowski 2004, p. 124). Il mutamento perde di significato, il pulsare eccitato delle emozioni si inaridisce lentamente, la caleidoscopica energia agrodolce generata dal rapporto dialettico tra ciò che inizia e ciò che finisce si spegne; non è un caso che l’idea di immortalità terrena si manifesti puntualmente nel delirio melanconico, accompagnato dalle idee di negazione, come dimostra la stessa Elina Makropulos.
Da queste osservazioni si evince come l’equiparazione forzata tra il vivere e il funzionare porti nella direzione di una staticità che, oltre a non essere desiderabile per l’apatia emotiva che l’ammanta, di fatto non collima con le caratteristiche della vita stessa. La morte, pertanto, va interpretata e compresa non come struttura ma come forza dinamica della vita, ciò di cui necessitiamo per vivere e che salvaguarda il movimento temporale, per cui la sua eventuale soppressione coinciderebbe con la soppressione della stessa vita. Nelle considerazioni che seguono cercheremo di mostrare il legame indissolubile tra il vivere e il morire a partire da un noto pensiero di Walter Benjamin sull’arte del narrare.


2. Il limite del tempo come sigillo della perfezione

Walter Benjamin sostiene che la morte sia «la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare». La narrazione attinge la propria autorità dalla morte, la quale appare nella storia naturale, in cui si situano i racconti del narratore, «a turni così regolari come l’uomo con la falce nelle processioni che si svolgono a mezzogiorno intorno all’orologio della cattedrale» (Benjamin 2004, p. 330). Benjamin, per dimostrare quanto affermato, cita l’esempio del racconto Insperato incontro di Johann Peter Hebel, il cui inizio è segnato dal fidanzamento di un giovane che lavora nelle miniere di Falun. Poco prima della nozze, egli viene colpito, in fondo alla galleria, dal destino del minatore. La fidanzata gli serba fedeltà fino a quando, divenuta anziana, lo riconosce nel cadavere riportato alla luce dalla galleria oramai abbandonata, intatto e non sottoposto ai processi di decomposizione in quanto saturo di vetriolo. Dopo tale ritrovamento anche la donna muore. Benjamin nota come sia la morte – di fatto – la protagonista implicita della storia di Hebel: l’autore, infatti, per descrivere gli anni trascorsi tra la scomparsa del giovane e il ritrovamento del suo corpo elenca una lunga serie di avvenimenti storici – come il terremoto di Lisbona e la conquista della Finlandia russa da parte di re Gustavo di Scozia, tanto per citare un paio di esempi della cronologia riportata da Hebel – in cui lo scorrere del tempo e i cambiamenti storico-politici sono determinati e regolati dall’essenziale colpo violento inferto, a cadenze regolari, dal tristo mietitore con la sua falce esiziale. «Mai il narratore – conclude Benjamin – ha calato più profondamente il suo racconto nella storia naturale di quanto faccia Hebel in questa cronologia» (ibidem). Spiegando il senso proprio della narrazione in riferimento al ruolo temporale della morte per la vita, Benjamin sembra avvalorare la tesi secondo cui la morte – intesa come processo e non semplicemente come fatto o evento che ha luogo quando si termina di vivere – è criterio e misura della vita. Ciò vale sia da un punto di vista universale che da uno individuale.
Da un punto di vista universale, si evince dal racconto di Hebel che a definire con precisione la storia naturale sono la successione, la metamorfosi e la trasformazione, elementi che riempiono di significato il concetto di vita, nel cui continuo mutare la vita si manifesta – schellinghianamente – come «una sequenza che ritorna in se stessa, fissata e mantenuta da un principio interno» (Schelling 1997, p. 339). La continuità dei movimenti interni, il cui compito è serbare la vita in sé, implica un’ininterrotta lotta della vita contro il corso della natura, quindi contro se stessa. In altre parole, essa, per sostentare l’irrefrenabile produttività che la costituisce e che serba il ritorno in sé della sequenza, fagocita – famelica ma, per sua fortuna, mai sazia – ogni sua singola forma vivente e ogni avvenimento storico. La morte risulta essere, pertanto, misura e criterio della vita, proprio perché – in un certo qual modo – si auto-attribuisce il ruolo di quel principio interno negativo che la fissa e la mantiene in essere nella sua “incontentabilità”, garantendo la ciclicità del tutto. La morte è l’immagine-metafora della foglia che si stacca dall’albero, ultimo fotogramma del film The New World (2005) di Terrence Malick, regista filosofo allievo di Heidegger, con cui si rappresenta simbolicamente la morte della protagonista Rebecca/Pocahontas, la quale – attraverso la voce del marito – rammenta “con dolcezza” al piccolo figlio che tutti dobbiamo morire e che è sufficiente che sia lui a vivere, almeno per ora. L’immagine-metafora, quindi, di una vita che intona «il canto melanconico della morte, canto con il quale glorifica la linfa che le ha dato la luce, come l’ha data a tutte le altre foglie che ogni autunno un soffio di vento farà staccare dall’albero, ingiallite e appassite, per ridurle, in un eterno ricominciamento, in polvere» (Minkowski 2004, p. 127).
Da un punto di vista individuale, il fatto che la morte sia il criterio fondamentale di tutti i movimenti della vita, facendo sì che le cose abbiano inizio prima di noi e si concludano dopo di noi, non pare a primo acchito consolatorio. Ogni individuo, conscio della propria unicità, sente il peso opprimente dell’interruzione e dell’arresto, a cui si accompagna il penoso senso di ciò che è rimasto in apparenza incompiuto. Un’angoscia, quella dell’interruzione, dell’arresto e dell’incompiutezza quali plumbee radiografie della funzionalità perduta, particolarmente viva nell’odierna epoca dei social network, come dimostrano i numerosi dibattiti in corso sul destino più appropriato per un profilo virtuale privato a cui la morte ha sottratto il proprietario, ma non la visibilità pubblica.
A nostro modo di vedere, invece, l’unicità individuale viene inverata dal limite ultimo, che interrompe, allo stesso modo in cui la storia naturale, in cui il narratore cala il suo racconto, acquisisce il suo significato più profondo in virtù dei costanti arresti che strutturano la sua cronologia di morte. Il crescere all’infinito e il funzionare illimitato annullano l’unicità nel tedio del rallentamento. L’unità si disarticola e la narrazione perde la sua necessaria sanzione. Pensando il legame tra la vita e la morte come un grappolo di attributi, che possono essere presenti o assenti secondo differenti combinazioni (cfr. Botkin, Post 1992, p. 134), ci rendiamo conto che ogni vivente può essere compiuto solo da quel limite ultimo che gli dona un senso. Il limite che dona un senso al vivente, lungi dall’essere la testimonianza del fallimento della cura sanitaria, diviene, semmai, il sigillo della perfezione: nel momento in cui la morte interrompe una determinata vita, il limite ne mostra il compimento, la perfeziona, ne traccia i contorni che la rendono tale. Quando si vuole delimitare una strada si piantano tanti paletti sino ad arrivare a uno che risulta essere l’ultimo: questo è il solo che conta e quando questo viene piantato «tutti gli altri spuntano dal suolo come per incanto a segnare tutta la strada percorsa» (Minkowski 2004, p. 127). La morte svolge, pertanto, nella vita il ruolo che il sipario svolge a teatro: come a teatro è la discesa del sipario ad avvertire lo spettatore che lo spettacolo è terminato e, quindi, a metterlo nella condizione di comprendere il significato dello spettacolo assistito, così nella vita è la morte che sostituisce il sipario, segnando la fine. Non nel senso che interrompe una vita che è data, «ma nel senso – continua Minkowski – che apporta con sé la nozione di una vita, nozione che riunisce in una sola unità sintetica tutto ciò che ha preceduto questa morte. Non è nel nascere ma è con il morire che si diventa un’unità, un uomo» (ivi, p. 136). Tali considerazioni dimostrano l’inefficacia sia teorica che pedagogica del tentativo di rendere il vivere equivalente al funzionare. Si distorce il carattere proprio del tempo, si cela all’interno del mito dell’accumulo il valore proprio del limite e ci si dimentica della potente natura simbolica evocata da quell’interruzione che costituisce la morte nel suo senso più profondo.


Bibliografia

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Botkin J.R., Post S.G. (1992), Confusion in the Determination of Death: Distinguishing Philosophy and Medicine, “Perspectives in Biology and Medicine”, XXXVI, pp. 129-138.
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