cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Un tempo per l’utopia

ROMINA PERNI
Articolo pubblicato nella sezione Tempo, storia e politica.
Adesso è chiaro che la fabbricazione del tempo
consisteva proprio nella sconfitta dei nostri sforzi di fabbricarlo;
solo che non avevamo lavorato per noi, ma per voialtri.
Noi molluschi, che per primi abbiamo avuto l’intenzione di durare,
abbiamo regalato il nostro regno, il tempo,
alla più volubile razza d’abitanti del provvisorio:
l’umanità, che se non era per noi non le sarebbe mai venuto in mente.

I. Calvino, Le conchiglie e il tempo

C’è stato e forse ci sarà ancora un tempo per le utopie, quelle che noi consideriamo canoniche, dove esiste un luogo inventato, generalmente un’isola, la cui società è strutturata e funziona alla perfezione. Lì gli abitanti vivono in un’eterna felicità, in prosperità e benessere condiviso, a differenza dei luoghi che conosciamo e che esistono. Può essere un’isola in cui non esiste proprietà privata, una città educata alla “spartana”, un falansterio, un semplice luogo sognato, ricco, abbondante, appagante. C’è stato e c’è ancora un tempo per utopie un po’ sbilenche, dove il luogo “altro” è talmente diverso da non suscitare per nulla in noi il desiderio che si realizzi da qualche parte nell’universo. C’è il tempo delle utopie rovesciate dove il mondo immaginato è solo lo specchio della terra e, anche in questo caso, c’è poco da sperare per il futuro. C’è stato e c’è sicuramente il tempo delle distopie, visioni distorte delle utopie, svelamento o anticipazione dei loro lati oscuri, minacce o rischi di realizzazione di società perverse. Può esserci stato ed è forse quello che più di ogni altro è il tempo di oggi, il momento per qualcosa che ricorda le utopie, ma che è, invece, parzialmente diverso. Le eterotopie, controspazi, luoghi altri che lasciano poco margine di azione all’immaginazione perché sono reali e situati. Un’immaginazione resa reale, ma che preserva comunque il suo aspetto di illusione tanto da rendere – forse – illusoria la stessa realtà (cfr. Foucault 2006).
C’è sempre un tempo per l’utopia o per un suo surrogato, un concetto derivato, un aspetto di essa che viene preso e considerato a sé stante e, perciò, diverso dall’utopia stessa. Il destino dell’utopia è segnato dalla sua nascita, è tutto in quella ambivalente etimologia che la costringe ad esistere e a non esistere insieme: esistere, ma nella possibile realizzazione di quello che adesso (ancora) non esiste.
Quell’ancora lega l’utopia alla prassi politica, la trasforma, destinandola a coincidere con un aspetto di essa che può riguardare ogni donna e ogni uomo. L’utopia riguarda, in questo caso, il modo di intendere la politica in stretta relazione con un criterio normativo da trovare - o ritrovare – nelle pieghe poco prevedibili dell’immaginazione.
Quell’ancora è presente nelle donne e negli uomini che delle utopie si fanno gli inventori più che nell’utopia stessa, la quale potrebbe resistere nella sua non-esistenza di luogo felice senza che l’ingombro della realtà, della sua possibile realizzazione, la riguardi.
Le utopie vengono spesso collegate al tempo nel senso che si giudica della loro "bontà" o meno, della loro adeguatezza a rappresentare l’epoca in cui sorgono, in base a quanto riescono ad anticipare del futuro. Su questa linea si situano, anche se con atteggiamento opposto, le distopie, quando esse non sono altro che anticipazioni delle possibili conseguenze distorte delle utopie.
Si può affrontare la questione del tempo legato all’utopia in diversi modi. La prima via, la più immediata, è quella che considera l’utopia e le utopie un segno, anzi il segno dei tempi. La si considera nel senso della riflessione filosofica su di essa, ma anche delle singole utopie che in una data epoca vengono prodotte. È un approccio storico, che collega l’utopia al contesto nel quale essa viene prodotta e alla quale si collega una certa visione antropologica e della storia.
Probabilmente quello di oggi è il tempo che non prevede tempo per l’utopia: un gioco di parole che vorrebbe annullare la possibilità dell’utopia, eppure essa riesce a sopravvivere in una qualche sua forma. Non più come immagine di un mondo altro organizzato, costituito sulla base di un criterio normativo quale che sia, ma come criterio morale che guidi l’azione del singolo individuo, che difficilmente riesce a collocarsi in una dimensione collettiva stabile e duratura.


1. Pronostici e anticipazioni del futuro

Secondo Kant ci sono diversi modi di considerare la storia rispetto al futuro. Vi è la storia predittiva nell’ambito della quale si può predire un evento sulla base delle leggi di natura che conosciamo. Può anche darsi una storia pronosticante: in questo caso posso pronosticare un evento futuro, ma non sulla base di leggi della natura conosciute (questo tipo di storia è, comunque, sempre «naturale»). Infine vi è la storia divinatoria, l’unica che, a differenza delle altre due, è soprannaturale (Il conflitto delle facoltà; Kant 2014: http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s14.html).
Questo discorso interessa a Kant per la riflessione sul progresso. Si può infatti fare pronostici sul futuro – e quindi concepire una storia a priori - solo se «chi pronostica attua e prepara egli stesso gli eventi che annuncia in anticipo». Così hanno fatto i profeti ebrei, così fanno «i nostri politici» e gli ecclesiastici. Riguardo ai secondi, Kant lamenta il fatto che essi si comportano richiamandosi continuamente all’esperienza, agli uomini «come sono», veicolando in questo modo l’idea che non si possa agire politicamente sulla base di principi astratti, quelli dettati dalla morale, ma che bisogna piegarsi a quello che in Per la pace perpetua Kant chiamerà «il vantaggio dello statista» (Kant 2014: http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s10.html). Peccato, sembra dire ironicamente Kant, che sia sempre responsabilità dei politici, attraverso le loro scelte, di aver fatto diventare gli uomini «come sono». (Kant 2014: http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s14.html#idp15415520)
Il discorso kantiano ci consente di legare all’utopia il tema dell’anticipazione del futuro. Kant ritiene che non si possa stabilire una legge naturale che attesti in maniera definitoria il progresso del genere umano verso il meglio perché l’uomo è un agente libero: libero, cioè, anche di regredire, ad un certo punto della sua storia personale o collettiva. Si può però considerare che l’uomo (e gli uomini) agiscano come se quel progresso fosse realmente possibile e, allora, si adoperino comunque nella direzione dettata dal progresso (l’ideale regolativo è in questo caso rappresentato dall’assetto cosmopolitico della sicurezza statale pubblica).
Nella storia dell’utopia si è spesso parlato della capacità di questa di parlarci del futuro. In alcuni momenti storici – e, in questo caso, il ‘700 rappresenta il secolo aureo – il rapporto tra l’utopia e la fiducia che la società immaginata potesse effettivamente realizzarsi nel futuro è molto stretto. Non è un caso che proprio n questo secolo si c cominci a parlare di ucronie, che trasferiscono nel tempo quelle costruzioni fantastiche che avevano, invece, nell'alterità dello spazio l’elemento caratterizzante. Mercier immagina come sarà Parigi nel 2440, mantenendo quindi lo stesso spazio a lui contemporaneo, ma immaginando, ipotizzando le sue caratteristiche spostandole avanti nel tempo (è chiaro che, comunque, anche di altrove in senso spaziale si parla perché la Parigi del futuro ha un aspetto molto diverso da quella settecentesca).
Questo è possibile in Mercier perché vi è una fiducia molto forte nel fatto che Parigi avrà proprio quelle caratteristiche che egli immagina per il 2440. Con l’ucronia si inaugura sicuramente un nuovo modo di scrivere l’utopia (o si innova un modulo già esistente), ma si dice anche qualcosa in più. Si lega la carica immaginativa propria dell’utopia all’effettiva realizzabilità dell’utopia stessa. Il modello sociale descritto, a questo punto, «è un progetto che sta nella storia; sta nella coscienza storica umana come nella prassi storica» (Ferente, Introduzione a Mercier 1993, pp. 34-35).
Secondo Koselleck, è proprio con l’opera di Mercier che l’utopia si inserisce in una prospettiva temporale sbilanciata verso il futuro: «Il concetto di “utopia” assume un carattere politico generale, che si riferisce a progetti di possibili ordini politici nella prospettiva della loro realizzabilità e non in quella della loro irrealizzabilità». L’utopia, come accennavo anche precedentemente, diventa un tipo di prassi politica che può interessare «tutti coloro che guardano al futuro» (Koselleck 2009, p. 143).


2. L’aderenza alla realtà

Questa connotazione dell’utopia non è scontata, riguarda le aspettative e le intenzioni di chi, attraverso la scrittura, conferisce una certa forma alla sua utopia. Tale aspetto è importante da rilevare in relazione ai gradi di vivacità e nitidezza che l’immaginazione possiede, ma non è sempre un aspetto determinante l’utopia stessa. In questo caso Kant, il più lontano dall’orizzonte dell’utopia, è forse quello che più di tutti potrebbe avvicinarglisi (anche se con una forzatura che operiamo noi a posteriori). La capacità di anticipare il futuro è propria di un pronostico che è anche accompagnato da un’adeguata prassi. Se dico che in futuro la società assumerà una certa forma, è perché sto lavorando a che essa si realizzi in questo modo. È chiaro che qui a Kant non interessa l’utopia, ma gli preme marcare una differenza netta tra il moralista politico e il politico morale, quindi riflettere sulla possibilità o meno che si possa agire politicamente sulla base di principi dettati dalla morale e non ripiegati sull’esistente. Eppure, facendo questo, rintraccia uno spazio proprio di un’elaborazione teorica (astratta, potremmo dire, che è lì e esiste al di là delle sue possibilità di realizzazione o meno), che coincide in parte con lo spazio proprio dell’utopia.
Non è un caso che quest’idea, che rimarrà anche nell’’800, verrà poi puntualizzata, in senso negativo, dalla critica marxista-leninista all’utopia, che è poi quella che ha influenzato più di tutte la considerazione che ancora oggi (a volte anche volgarmente) abbiamo dell’utopia. Quella utopica è una «descrizione fantastica della società futura», che coincide con il «suo primo impulso, carico di presentimenti, verso una trasformazione generale della società» (Marx-Engels 2003, p. 51).
Marx e Engels si riferiscono qui alle società socialiste immaginate da Saint-Simon, Fourier, Owen (per dirne alcuni). L’unica descrizione ad essere agganciata alla realtà è quella marxista perché assegna al proletariato un ruolo e un compito ben precisi nel corso della storia.
Questo non significa che non possano riscontrarsi elementi positivi anche negli scritti utopistici, ad esempio gli elementi di critica della società esistente. In questo senso le utopie rappresentano una riserva ricchissima «per illuminare gli operai». L’importanza che hanno il socialismo e il comunismo critico-utopisitico è inversamente proporzionale allo sviluppo storico. Ciò che per Marx e Engels non funziona - e non avrebbe potuto funzionare data la non maturità delle condizioni esistenti - è il fatto che il corso della storia, per loro scientificamente determinata della lotta di classe e quindi destinata a far prevalere il proletariato e la società comunista, è per gli utopisti invece legato a sentimenti variabili (la «filantropia dei cuori») o a aiuti occasionali (i «borsellini borghesi») e a sperimentazioni parziali, quando la rivoluzione deve essere, invece, radicale e riguardare l’intera società (Marx-Engels 2003, pp. 51-53).
L’aspetto dell’utopia che questa critica prende di mira è la non scientificità, imputata però anche all’immaturità dei tempi. Ne salva il carattere di critica dell’esistente, ma non la fattibilità del programma politico che ad esso è collegato. I socialisti e i comunisti utopisti non preparano – per dirla forse in maniera inopportuna con linguaggio kantiano – il contenuto del loro pronostico, che è appunto, per Marx e Engels, del tutto fantastico.


3. Il tempo si ferma

Guardare al futuro, parlare del futuro, anche e soprattutto anticiparlo nel senso che abbiamo indicato, significa fissare quel futuro in un’immagine più o meno nitida e, forse, adombrare l’ipotesi che, in realtà, ulteriore futuro, cioè un futuro ancora altro rispetto a quello sognato che è già esso stesso altro rispetto al tempo presente, difficilmente si possa dare.
Le distopie, che non sono altro che anticipazioni delle possibili conseguenze negative legate alla costruzione di un’utopia, hanno spesso messo in luce questo aspetto: la fissità, intesa come riproposizione nel tempo di uno stesso assetto sociale, economico, politico inglobante che viene quindi considerato come definitivo, “ultimo” per l’uomo. Si tratta di utopie distorte, modelli di società da rigettare, invece che da proporre, ma descrivono, allo stesso tempo, i rischi, più o meno espliciti, interni alle utopie stesse e nelle quali non è previsto un ritorno indietro da una situazione considerata perfetta. Pur non utilizzando il termine distopia, mi sembra che Cioran colga questo aspetto nel momento in cui scrive che ««I sogni dell’utopia si sono per la maggior parte realizzati, ma in uno spirito del tutto diverso da quello in cui li aveva concepiti; ciò che per essa era perfezione, per noi è tara; le sue chimere sono le nostre disgrazie» (Cioran 2008, p. 106).
È chiaro che questo problema investe di nuovo il problema della realizzabilità o meno: i critici dell’utopia, anche coloro che hanno sostanziato la critica giocando lo stesso gioco dell’utopia, immaginando cioè una società altamente ingiusta e imperfetta, pericolosa essenzialmente per la libertà dei singoli individui, hanno pensato ai rischi dell’utopia nel momento di una sua parziale o totale realizzazione. L’utopia finisce per coincidere essenzialmente con il progetto razionale che vi è sotteso e del quale possono e devono essere giudicate la giustizia e la bontà: «L’anti-utopia tende dunque a ridurre l’utopia a uno solo dei suoi caratteri, la progettazione razionale, e a sottolineare la funzione di potere insita nel modellare le comunità umane sia nella letteratura, sia nella pratica concreta della politica e della tecnica» (Comparato 2005, p. 225).
Il problema della più o meno terribile (o temibile) concretezza dell’utopia varia con i momenti storici, con le aspettative, le aspirazioni, i bisogni che il sogno utopico intercetta di volta in volta. È inevitabile infatti che la riflessione, ad esempio, novecentesca sull’utopia, sula fine dell’utopia e anche su una sua possibile resurrezione, sia influenzata dal fatto che c’è stato un preciso modello politico che è stato fatto coincidere con l’utopia realizzata: il comunismo reale. Il marxismo, da critico dell’utopismo, è diventato esso stesso un sogno tra il profetico e l’utopico e che si è effettivamente realizzato (cfr. su questo Comparato 2005, p. 228).
Lo sforzo della riflessione filosofica di Ernest Bloch è altamente significativo in questo senso. Tenta un recupero, rimanendo nell’ambito del marxismo, ma intrattenendo con esso un rapporto altamente problematico, della positività dell’utopia, allargando le sue maglie. Essa diventa il centro di quell’ontologia del non-ancora che per Bloch coincide con l’esercizio stesso della filosofia aperta al futuro. Un’utopia concreta, però, è quella che Bloch vuole proporre, che affondi i suoi piedi nella realtà presente.
L’utopia diventa concreta quando è in grado di anticipare quello che Bloch definisce il «non-ancora-cosciente» e unirlo a ciò che nella storia è «non-ancora divenuto». Ma «sulla via verso il nuovo occorre per lo più, anche se non sempre, procedere passo passo. […] Perché possibile è per la verità tutto ciò per cui ci siano condizioni parziali sufficienti, tuttavia appunto per questo è di fatto ancora impossibile tutto ciò per cui non ci siano affatto condizioni» (Bloch 1994, p. 241). I processi in atto, per Bloch, possono variare e il tempo è multiversum, non lineare perché la speranza è costantemente sottoposta alla delusione, all’incertezza: di certo c’è solo il tendere verso qualcosa.


3. Ogni tempo ha le sue ucronie

Vi è un altro aspetto molto interessante da sottolineare. Il tema del tempo interessa le utopie anche e soprattutto perché, all’interno delle utopie, nella vita concreta di quelle società immaginate scorre un tempo diverso da quello esistente, che incide sulla vita degli abitanti che in quel luogo si immagina trascorrano le loro giornate. Bazcko ha dedicato una parte del suo intramontabile lavoro sull’utopia del’700 proprio al tema della festa perché immaginare un nuovo calendario, un nuovo sistema di feste significa dare forma plastica e sostanza alla natura profonda della città che si sta immaginando (cfr. Bazcko 1979, pp. 250-304).
È possibile immaginare oggi una diversa strutturazione del tempo, oltre che di spazi, mestieri, abitudini, leggi, ordinamenti politici? All’inizio ho utilizzato la nozione foucaultiana di eterotopia come quella che più di altre può forse modellarsi sull’oggi e darci conto di ciò che è concesso alle donne e agli uomini del nostro tempo ancora di immaginare. Non è un caso che Foucault avvicini a questo concetto anche quello di eterocronia.


Credo tuttavia che ci siano – e questo in ogni società – delle utopie che hanno un luogo preciso e reale, un luogo che si può localizzare su una carta; utopie che hanno un tempo determinato, un tempo che si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni. È molto probabile che ogni gruppo umano, quale che sia, si ritagli dei luoghi utopici nello spazio che occupa, in cui vive realmente, in cui lavora, e dei momenti ucronici nel tempo in cui si affaccenda e si agita (Foucault 2006, pp. 11-12).


Di questo tipo sono eterotopie del tempo che si accumula all’infinito, «eternitarie» (ad es., musei, biblioteche). Le eterotopie croniche, che si legano al discorso appena svolto della festa (il teatro, le fiere, i villaggi vacanza). Ancora, le eterotopie legate al passaggio, alla trasformazione, alla rigenerazione (i collegi, le caserme, le prigioni; Foucault 2006, pp. 20-22).
Potremmo dire che oggi l’ucronia si dà proprio nell’eterocronia o nell’eterotopia del tempo, nella possibile scelta di un tempo “altro” che sta al singolo individuo assumere come criterio normativo della propria esistenza, ma che difficilmente può essere inserita in una visione d’insieme, collettiva, generale, ampia.
Si scrive oggi dell’impossibilità di utopie «massimaliste», intendendo, forse, con questo termine tutte quelle utopie che hanno proposto un progetto politico di radicale trasformazione della realtà e che donne e uomini hanno anche tentato di mettere in atto, e si circoscrive l’utopia possibile a forme di eroismo minimalista, interiore, individuativo (cfr. Zoja 2013, p. 183). Al di là dell’inadeguatezza del termine usato, ci sembra che questa analisi colga, però, lo stato delle cose e lo stesso utilizzo di termini così generici e inglobanti per parlare di utopia ne è una dimostrazione (il massimalismo e il mininalismo). Non è un caso che non sia più, ad esempio, la filosofia ad interessarsi direttamente ed esclusivamente di utopia, ma essa trova dimora in ambiti più specifici come quelli della sociologia, della psicologia sociale, anche della politica, ma assumendo spesso la veste di una realistic utopia, nel senso di un possibile modello politico che potremo realizzare accordandoci su ciò che è ragionevolmente giusto (Cfr. Loche in relazione a Rawls: http://www.cosmopolis.globalist.it/Detail_News_Display?ID=75701&typeb=0&Quali-utopie-nel-mondo-contemporaneo-).
Eppure anche utopie in una forma più classica sono state prodotte nella seconda metà del ‘900. Si pensi a Ecotopia di E. Callenbach (1975), che racchiude in sé le aspirazioni di quel movimento ambientalista che proprio in quegli anni sta costruendo e si sta battendo per una propria idea di società futura possibile. Molti degli aspetti descritti in un questo mondo che si immagina esista proprio accanto al nostro (ancora la pregnanza dell’accezione eterotopica foucaultiana per la descrizione dell’oggi) sono effettivamente filtrati e realizzati nella nostra società: l’esigenza della raccolta differenziata e l’utilizzo di materiali biodegradabili, l’attenzione per le fonti energetiche rinnovabili, ecc. Anche di una diversa strutturazione del tempo si parla: a Ecotopia si utilizzano per gli spostamenti solo treni ad alta velocità e mezzi pubblici elettrici, le auto private non esistono. È chiaro che questo implica una diversa organizzazione del proprio tempo sulla base, ad esempio, dei mezzi di trasporto che si hanno a disposizione. L’immagine che ne deriva è, però, sempre legata al mondo possibile che avremmo se i singoli scegliessero di operare in una data maniera, piuttosto che in un’altra, considerata più o meno giusta anche in relazione alle conseguenze delle scelte dei singoli. È un’immagine frutto di volontà di singoli soggetti ai quali viene suggerito di comportarsi in una certa maniera per raggiungere un certo scopo (che può essere anche e soprattutto il “bene comune”).
Torna in soccorso, forse, ancora Bloch, che nel suo testo su Il principio speranza intende rintracciare tutti i possibili luoghi nei quali, a suo avviso, c’è un quantum di utopico. Dove si segnala quell’«oltrepassamento» dell’esistente, il desiderio di spingersi guardando al futuro. Arriva persino ad individuare il desiderio di andare oltre se stessi (e l’opera della coscienza anticipante) nei rossetti, nei trucchi, nei piumaggi, in tutto ciò che alimenta nel singolo «il sogno di se stessi a uscire dalla caverna» (Bloch 1994, p. 397). Ma Bloch non si ferma qui: «Tuttavia se non vi è alle spalle la forza di un io e di un noi anche la speranza diventa insipida» (p. 173). Forse è proprio questo che manca: anche solo immaginare quell’io e quel noi da cui deriva la forza di sperare in termini non del tutto individualistici e frammentati. E la creazione in un tempo altro (come di uno spazio altro) non riesce a superare l’orizzonte “microscopico” che sembra esserle destinato.


Riferimenti bibliografici

Baczko B. (1979), L'utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell'età dell'Illuminismo, Einaudi, Torino.
Bloch E. (1994), Das Prinzip Hoffnung (1959); trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo: Il principio speranza, intrdouzione di R. Bodei, Garzanti, Milano.
Callenbach E. (2012), Ecotopia – The Notebooks and Reports of William Weston (1975); tr. it. di F. Russo, Ecotopia, Castelvecchi, Roma.
Cioran E. (2008), Historie et utopie (1960); trad. it. a cura di M. A,. Rigoni, Storia e utopia, Adelphi, Milano 1982, 2008.
Comparato V. I. (2005), Utopia, il Mulino, Bologna.
Foucault M. (2006), Les hétérotopies. Le corps utopique (1966); trad. it. di A. Moscati: Utopie. Eterotopie, Cronopio, Napoli.
Kant I. (2014), Sette scritti politici liberi, a cura di M. C. Pievatolo: http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/.
Koselleck R. (2009), Il vocabolario della modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti, il Mulino, Bologna.
Loche A. (2014), Quali utopie nel mondo contemporaneo?, in “Cosmopolis”, n. 1: http://www.cosmopolis.globalist.it/Detail_News_Display?ID=75701&typeb=0&Quali-utopie-nel-mondo-contemporaneo-
Marx K., Engels F. (2003); Manifest der Kommunistischen Partei (1848); tr. it. di D. Losurdo: Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 1999, 2003.
Mercier L.-S. (1993), L’an 2440 (1770); tr. it. di L. Tundo Ferente, L’anno 2440, Edizioni Dedalo, Bari.
Zoja L. (2013), Utopie minimaliste. Un mondo desiderabile anche senza eroi, Chiarelettere, Milano



E-mail:



torna su