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Politica e previsione all’epoca della mondializzazione

GIANFRANCO BORRELLI
Articolo pubblicato nella sezione Tempo, storia e politica.

Attingendo da Freud e Kelsen, in un saggio divenuto ormai un testo classico (Angst und politik: 1957) che aveva la finalità di contribuire a spiegare gli orrori posti in essere dal nazismo, Franz Neumann delinea le articolazioni di quella forma particolare di alienazione politica che sta alla base della duplice regressione del soggetto, storica e psicologica, che può indurre ogni genere di perversione nei comportamenti umani: accade normalmente che gli esseri umani vivano interiormente quell’angoscia nevrotica, depressiva e persecutoria, che in relazione all’insorgenza di un pericolo esterno assume i caratteri della massima distruttività/autodistruttività. Il soggetto, posto in situazione di perdere sicurezza del vivere ed esercizio dei propri poteri, rinuncia al dialogo con l’oggetto ideale interno e viene via via identificandosi con quella polarità esterna che si presenta come l’ultimo ancoraggio alla conservazione della vita: tanto accade poiché l’individuo non ha contezza del futuro e, ancora prima di tentare di comprendere quanto sta accadendo, interviene per evitare in anticipo la più remota minaccia di pericolo.
Conviene assumere questo avviso preliminare di Neumann per aprire un contesto più determinato di discorsi riferiti al tema di quanto si possa intendere per previsione sul piano politico. In accordo con il senso espresso dallo sforzo delle filosofie decostruttive del primo novecento (con Heidegger in prima fila), Neumann contribuisce a farci riflettere sul fatto che il pensare umano non è fondamento razionale per ciò che è conoscibile; in corrispondenza, sul piano pratico, l’agire dei soggetti non assume ordinariamente il senso tempestivo e determinato dell’azione conformata a comportamenti di verità e di giustizia: può anzi aprire ad ogni genere di efferatezza e crudeltà. Bisogna dunque ammettere che ogni genere di futurizzazione costruita su princìpi primi o canoni ideologici fa riferimento ad una ragione presuntuosa, che rifiuta di riconoscere la duplice disgiunzione tra pensare/conoscere e tra agire/cooperare. La teoria critica considera quindi impossibile ogni genere di previsione efficace e di adeguata azione corrispondente: questa posizione comporta anche immediatamente la denuncia delle argomentazioni, antiche e moderne, relative alla linearità del tempo. Da un lato, si tratta di rinunciare alla nozione di temporalità come funzione numerativa del divenire naturale descritta da Aristotele oppure all’essenziale espressione agostiniana del tempo come estensione spirituale dell’anima; sul versante moderno, converrà prendere distanza dal paradigma meccanicistico posto a base della composizione fisica dell’universo ed ancora dalla dialettica storica impegnata a conciliare la negatività delle relazioni conflittuali di cui resta costituito il processo infinito dell’essere. In partenza, per quanto concerne la sfera specificamente politica, bisogna dunque assumere che – nel contesto del dibattito vivo della contemporaneità – l’impossibilità di qualsiasi tipo di previsione sembra doversi riferire al dato per cui, al di là di ogni ragione che intenda operare nei termini della temporalità teo-teleologica, bisogna considerare la presenza come il punto dei flussi temporali che costituisce, da un lato, la dimensione determinata della leggibilità possibile dell’universo fisico e, contemporaneamente, come la condizione propriamente umana del vissuto estatico dell’interiorità. Peraltro, prima di giungere all’approfondimento critico di tali assunti, conviene rendere conto, anche in forme breve, di come la teoria politica della modernità abbia voluto dare credito alla possibilità di congiungere politica e previsione: assegnare quindi agli sforzi della ragione conoscitiva la funzione decisiva di congetturare per il futuro aperture effettive per la costruzione della comunità civile. Cerchiamo di ricostruire qualcuno dei percorsi che hanno offerto insieme speranza e disillusione, ideologie e tragedie.

1. La prevedibilità degli eventi nella sfera politica prende sostanza nell’epoca della modernità allorquando l’accumulazione organizzata delle conoscenze e i vantaggi sociali indotti dal progresso conoscitivo spingono i soggetti a fare della verità il risultato di un primato conoscitivo che non esige più l’autotrasformazione del soggetto. Non risulta più necessario per l’individuo – così come restava segnato nella spiritualità antica – quel lavoro su di sé che costituisce la precondizione per accedere alla verità: la produzione razionale viene invece esaltata al fine di decidere circa le regole formali di metodo e le condizioni oggettive per l’acquisizione della verità. Stabilito questo genere di ancoraggio, la politica artificiale si separa dalle pratiche del governo di sé e procura di descrivere un ordine civile fondato su un sistema di leggi naturali e civili. Questo progetto di strutturale esteriorizzazione dei criteri politici, chiamati a fare funzionare le relazioni di comando-obbedienza, impone modalità diverse di considerare e impegnare i tempi. Già con Guicciardini, come interpreta Reinhart Koselleck (Koselleck 1986, pp. 21-22), viene oltrepassata la concezione della profezia ed al suo posto subentra il concetto di previsione razionale, di prognosi. Secondo il fiorentino – ma il criterio viene assunto dagli scrittori di ragion di Stato come costitutivo della discrezione propria della prudenza politica, che è in grado di collegare in modo efficace tempi e tecniche del governo politico – gli eventi futuri restano segnati dalla contingenza: di essi non abbiamo verità, tuttavia costituiscono un campo di possibilità finite, che si articola in gradi di maggiore o minore possibilità. Tale consapevolezza elimina ai credenti quella certezza del giudizio universale, mentre apre all’analisi approfondita delle future tendenze possibili: la prognosi viene considerata momento ineliminabile dell’azione politica.
Da qui risulta breve il passaggio ulteriore introdotto da Thomas Hobbes: il punto effettivo della differenza antropologica e culturale tra i selvaggi americani e gli individui della civile Europa consiste nella capacità propria di questi ultimi di computare i tempi secondo una ratio politica: calcolo per la previsione e la progettazione del futuro. Il concetto del futuro viene analizzato in relazione al concetto di potere in grado di produrre qualcosa: «chiunque si aspetta un piacere futuro, deve concepire insieme qualche potere che egli abbia in se stesso, grazie al quale quel piacer possa essere conseguito» (Elements, 58). Tale possibilità viene resa effettiva grazie a quel carattere essenziale dello Stato-Leviatano che vive di una temporalità propria, un’eternità di vita artificiale (Leviathan, 189), che costituisce lo sfondo dell’esercizio dei singoli poteri, che vivono come tempi individuali in maniera distinta e subordinata rispetto all’eternità artificiale dello stato. Contemporaneamente, l’escatologia hobbesiana afferma la temporalità artificiale del Leviatano, opera dell’uomo, come mezzo necessario nel piano divino della salvazione eterna. Tra temporalità artificiale e temporalità divina, Hobbes ha cercato di ricostruire i livelli differenti attraverso i quali si dispone la separazione tra temporale e spirituale nell’animo stesso del credente: egli ha letto a buona ragione lo spostamento di questa separazione sul lato dello stato moderno, del politico che cerca di improntare di sé tutti i tempi. Tale spostamento rende possibile l’analisi della «previsione (foresight) delle conseguenze buone o cattive dell’azione su cui deliberiamo, il buono o cattivo effetto della stessa dipende dalla previsione di una lunga catena di conseguenze, della quale molto raramente si è in grado di intravedere la fine» (Leviathan, 60).
Dall’epoca di Hobbes, la politica afferma dunque la possibilità della previsione a condizione che gli individui entrino a far parte di quella rete d’interessi, pubblici e privati, che si costituisce come sistema compiuto di rappresentanza dei poteri in campo. Da un lato, le soggettivazioni indotte dalle trasformazioni dell’homo oeconomicus introdurranno tecnologie di sé improntate alla soddisfazione di bisogni/interessi/desideri secondo modalità via via crescenti di liberazione delle energie naturali e spontanee rivolte a configurare la sfera relativamente autonoma della società civile; per un altro versante, il governo rappresentativo diventerà, attraverso il suffragio universale, il criterio di misura e di ponderazione dei differenti carichi dei poteri politici, individuali e collettivi. In questo sistema chiuso, la previsione cerca di intercettare con qualche successo le dinamiche e gli spostamenti dei poteri nelle relazioni tra governanti e governati, tra chi comanda e chi viene assoggettato. Tuttavia la logica di gestione del sistema tende a sfuggire alle volontà dei singoli individui: gli eventi storici smentiranno qualsiasi rosea previsione circa l’affermazione indolore di un modo di civilizzazione politica ed economica. Le conseguenze si riveleranno drammatiche agli inizi del novecento, allorquando l’idea liberale di poter contare sulla funzione positiva di un mercato autoregolato rivelava il carattere di una grossa, irrealizzabile e distruttiva utopia; nella sua opera principale, La grande trasformazione, Karl Polany spiegava che quel tentativo di autoregolazione aveva operato – dagli anni trenta dell’ottocento e fino ai primi decenni del secolo successivo – nel senso di decostruire le energie produttive del capitale industriale e aveva portato all’esasperazione degli antagonismi tra le classi fino al punto di fare implodere la società. Oltre gli eventi della prima guerra mondiale e la successiva depressione economica, la soluzione fascista e nazista aveva risolto l’impasse del capitalismo liberale, dando origine ad «una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica. Il sistema economico che era in pericolo di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti ad un rieducazione destinata a snaturalizzare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico» (Polany 1944).

2. La nozione teorica e la prassi della frattura temporale che interviene nel sistema conservativo dei poteri assumerà, a partire della fine del secolo diciottesimo, la veste concreta della conversione alla rivoluzione (Foucault 2001, p. 185; 2009, p. 181). Processi sicuramente inediti di soggettivazione sono in formazione alla fine del Settecento legati agli eventi rivoluzionari dell’America del Nord e della Francia; elemento centrale è sicuramente la composizione di una soggettività che persegue pratiche di sé come processo autopoietico di rinnovamento radicale del sé: disposizione coltivata, meditata e vissuta, rivolta a favorire cambiamenti interiori al fine di produrre trasformazioni decisive, fratture e scarti, nelle condotte di vita proprie e degli altri, di quanti costituiscono la comunità che bisogna assolutamente modificare e migliorare. Si tratta in effetti di una soggettività che produce un ordine simbolico più che speculativo, rivolto a tracciare registri comportamentali, massime dell’azione, tecniche di condotte, finalizzate a produrre uno scarto d’innovazione nei modi interiori del sentire e nelle istituzioni civili; un soggetto che non vive di astratte enunciazioni, ma che fa di sé il terreno della permanente testimonianza di una vita altra, della sperimentazione di pratiche di vita radicalmente nuove.
Sembra tuttavia che al discorso specificamente filosofico sfuggano – certamente per le sue prevalenti attitudini di separatezza teoretica – i caratteri particolari di questo determinato processo di soggettivazione che mette capo alla figura di un individuo che vuole agire se stesso come soggetto rivoluzionario in ogni campo del vivere, che s’impegna a realizzare una conversione radicale di se stesso. Certamente da un numero impressionante di personaggi (dagli sforzi teorici di Marx fino a Lenin) si cerca di dare rappresentazione teorica a questo genere di progetto politico che assorbe le energie vitali di coloro che s’impegnano a trasformare il mondo e qualifica un modo di vivere che antepone la politica ad ogni sfera del vissuto umano; peraltro, ancora in questi casi, dove persiste l’utilizzo di un criterio dialettico e storicistico, viene ad operare una sorta di riduzione scientista, che assume pure in misura crescente le vesti di una pericolosa escatologia. Al centro, il rilievo assoluto del nesso scienza-rivoluzione: conviene assegnare alla conoscenza e al lavoro di teoria – sia per il campo etico che per quello scientifico – il rilievo di strumenti idonei e principali per conseguire l’innovazione politica e l’avvento della società comunista; la verità è per eccellenza rivoluzionaria: bisognerà quindi pretendere da sé e dagli altri – sotto la forma dell’impegno politico – lo sforzo della migliore comprensione della realtà fisica, storica, spirituale in cui è immersa la nostra vita.
Dagli inizi del novecento, di quell’inedita soggettivazione – che opera al fine di attivare una più autentica cura di sé – vengono via via esaltati gli aspetti puramente ideologici; di conseguenza, la portata di frattura, di scarto, che questi nuovi comportamenti inducono, viene smussata e attutita – nelle configurazioni istituzionali e partitiche, ed anche nella produzione letteraria ed artistica – dal registro separato e riduttivo della contesa tra le idee, tra gli opposti punti di vista. Una tipologia definita di militanza partitica s’impone di rifuggire dalle maniere di vita costose e dagli stili borghesi di vita; si sviluppa in concreto un’etica del lavoro che rinuncia alla proiezione simbolica dei desideri, operando soprattutto per la sicurezza sulla vita; la sfera di desideri/godimenti viene fortemente ridimensionata, mentre le tonalità del vivere respingono le ambizioni eccessive e assumono la misura dell’essenzialità e della frugalità; l’adesione al mercato dei consumi di massa abbassa le soglie dell’inquietudine esistenziale e favorisce la pratiche dei piaceri. Questa tipologia di militanza politica viene vissuta come adesione disciplinata alla struttura gerarchica dell’organizzazione partitica; essa viene praticata come atto di scelta fideistica e comporta l’obbedienza indiscutibile alla funzione propria della direzione partitica (comportando pure la separazione, non esplicitata ideologicamente ma di fatto praticata, tra leaders con formazione intellettuale e base militante costituita in prevalenza da lavoratori). Viene sempre esaltato il valore emancipativo della conoscenza seguendo ancora il principio per cui la verità è sempre rivoluzionaria; viene tuttavia prodotto un ridimensionamento: non si può attribuire al popolo una ragione autonoma e indiscutibile; la pratica e l’ideologia del partito si affermano come mediazioni essenziali nei registri dei comportamenti ordinari ed in ogni campo dei saperi e dell’espressione artistica; in definitiva, il singolo militante non cura più un rapporto particolare con la verità come pratica interiore della cura di sé.
In effetti, a metà del secolo scorso, l’ultimo periodo del fenomeno della conversione alla rivoluzione vive il ridimensionamento e la mutazione di quelle soggettività radicali in forme adattive e disciplinate di comportamenti. Le organizzazioni partitiche e sindacali del movimento operaio sedimentano esperienze storiche di lotte e mettono capo alla normalizzazione della soggettività rivoluzionaria che per oltre un secolo aveva indotto conflitti e avanzamenti sul piano sociale e politico. La teoria rivoluzionaria – che ha rischiato di riattivare attitudini di profezia (Schumpeter 1954, pp. 5-7) – mostra con evidenza il suo fallimento: non esiste alcun automatismo diretto tra sviluppo teorico della critica e crisi concreta del capitale, così come è risultato eccessivo teorizzare che una classe particolare potesse assumere su di sé il compito della previsione politica e l’apertura ad un futuro di radicale trasformazione. Il residuale soggetto militante afferma ancora di voler praticare la violenza come mezzo principale di risoluzione dei conflitti; ma la tensione malinconica per un’epoca ormai trascorsa diventa pratica autodistruttiva: si può anche passare direttamente all’impresa terroristica, se la sofferenza indotta dalla depressione diventa incontenibile.

3. Nella seconda metà del secolo scorso le straordinarie vicende del processo di conversione alla rivoluzione sono difatti concluse: ovunque, nei paesi occidentali, le politiche democratiche cercano di operare con la nuova veste del neoliberalismo. Dagli ultimi decenni del secolo passato, pratiche e teorie di governance vengono via via a prendere il posto della democrazia parlamentare, rappresentativa e elettiva, che aveva costituito la forma di affermazione del capitalismo democratico (Streeck 2013).
In effetti, lo strumento particolare che da alcuni decenni costituisce la chiave della conversione economica del processo di globalizzazione è quel complesso di dispositivi e di procedure cui viene assegnato il nome di multilevel governance. Al di fuori della prassi di legittimazione per via rappresentativa-elettiva e della moderna divisione dei poteri, questa serie di organismi indipendenti danno vita ad una specie di autogoverno collettivo degli interessi attraverso procedure negoziali/concorrenziali che sottraggono spazio alla sfera del pubblico statuale. Le caratteristiche del funzionamento di queste politiche di governance sono giustificate teoricamente come forma di un pluralismo limitato che interviene per porre rimedio – anche attraverso l'utilizzazione di dispositivi straordinari d'emergenza – alle difficoltà delle politiche pubbliche: una rete di autorità ed agenzie non statuali, indipendenti, vengono attivate dai fuochi dei governi centrali al fine di offrire regolamentazione e produrre diffusi comportamenti di autodisciplina. Si tratta del complesso delle Autorità Amministrative Indipendenti, authorities e agencies poste in essere da organismi internazionali (FMI, ONU, UE, BCE, OCSE, etc.), fino alle reti delle NGOs (Non Governamental Organizations) che avvolgono a rete il mondo; anche questi organismi e le relative politiche possono essere analizzati come risposta sul lungo periodo alle difficoltà effettive vissute dalle procedure di legittimazione del government, che opererebbero ormai in modo inefficace tramite i mezzi rappresentativi e costituzionali tradizionali.
L'obiettivo principale di questi dispositivi sarebbe quello di contribuire su piani diversi (multilevel) alla produzione di un efficace rapporto di comando/obbedienza attraverso l’utilizzazione di tecnologie particolarmente efficaci a fare di ciascun soggetto l’individuo per eccellenza consumatore. Nei contesti nazionali e sul piano mondiale, i dispositivi di governance contribuirebbero ad incrementare il cosiddetto capitale umano, a rendere più funzionali corpi, energie e poteri dei singoli che si impegnano a fare di se stessi i veicoli di forme sempre più flessibili dell’impresa. Se prendiamo in considerazione i documenti ormai storici che per primi hanno descritto queste forme efficaci del governo democratico – prodotti dalla Commission on global governance dell'ONU (1995), il White Paper on European Governance (2001) e l'enorme letteratura prodotta dai politologi per conto dell'UE –, governance sta a significare un complesso di nuove modalità di comportamenti che gli individui assegnano a se stessi: governance «is a continuing process trough wich conflicting or diverse interests may be accomodated and cooperation action may be taken. It includes formal institutions and regimes empowered to enforce compliance, as well as informal arrangements that people and institutions either have agreed to or perceive to be in their interest» (Commission on global governance, 1995). To manage themselves, to equip themselves, arrangements: tutti questi termini vengono a significare, nominare, dispositivi che – a vari livelli – dovrebbero contribuire a rendere funzionali caratteristiche dei poteri prodotti dai singoli, rinforzati dai supporti delle nuove tecnologie; gli effetti di queste dinamiche risultano evidenti: incorporare/integrare le capacità conoscitive individuali negli schemi astratti dei grandi hardware dei sistemi esperti: contemporaneamente, orientare pratiche di soddisfacimento egoistico degli interessi individuali e di gruppo secondo forme cooperative, creative ed efficaci, anche se non partecipative; in breve, espropriazione emotivo-conoscitiva degli individui e disattivazione dei codici istituzionali pubblici della partecipazione.
In definitiva, questo nuovo tipo di politica non è più partecipativo, anzi rifiuta la definizione ex ante della legittimazione politica; nell’epoca della mondializzazione non si possono adottare in politica i criteri della prognosi moderna, piuttosto le best practices dovranno assumere la forma dei processi funzionali ex post: solamente i risultati delle pratiche realizzate possono dirci qualcosa circa la positività di una decisione dell’istituzione pubblica o dell’impresa economica. Nei tempi dell’incertezza della mondializzazione si dismette completamente la veste della previsione; sopra ogni cosa valgono le strategie della conservazione finanziaria che deprimono il ruolo inventivo e progettuale della politica, mentre assegnano sempre maggiore spazio alle attitudini tecnologiche e ideologiche dell’economia. Economia e politica vengono nei fatti trasformandosi radicalmente: questi ambiti del vissuto degli essere umani diventano porosi, mescolano e confondono pratiche di vita e modi di pensare tenuti ben distinti fino ai nostri giorni; sembrano anche perdere le caratteristiche di scienze autonome. In particolare, economia viene a significare l’insieme della pratiche governamentali che si rendono necessarie nell’epoca della messa in discussione delle relazioni di poteri tra le regioni che dominano il mondo; questo significa non solo che l’economia sembra impegnare modelli e procedure decisionali della politica tradizionale, assumendo tratti fortemente autoritari: soprattutto, gli sforzi della scienza economica – riconosciuti pure negli ultimi decenni dalle istituzioni scientifiche prestigiose dell’Occidente – sono rivolti a delineare registri comportamentali e strategie disciplinari finalizzati a incidere sui comportamenti di soggetti considerati, nel lavoro così come in ogni forma del vivere, unicamente come individui produttori e consumatori di reddito, coinvolti direttamente nelle vicende della formazione dei debiti pubblici degli stati, responsabili diretti dell’effettivo sviluppo della comunità. Psicologia relazionale, neuroscienze, scienza del comportamento diventano riferimenti importanti per la ricerca teorica in economia; i vincitori del Premio Nobel nei primi anni del 2000 – Daniel McFadden, Daniel Kahneman e Vernon L. Smith (Motterlini-Piattelli Palmarini 2012) – sono economisti preoccupati di offrire indicazioni decisive su come governare l’inatteso attraverso il migliore impiego delle menti umane e della consapevolezza collettiva (Weick-Sutcliffe 2010). Come suggeriscono Thaler e Sunstein (Thaler-Sunstein 2009), l’economia deve offrire suggerimenti decisivi su quali siano le migliori tecnologie capaci di convincere i soggetti ad autotrasformarsi per conseguire migliori risultati di ricchezza e di benessere: ecco allora la teoria del nudge, della spinta gentile che scienza, media e governi devono argomentare e praticare con tecnologie performative al fine di incoraggiare gli individui a prendere le strade più efficaci per conseguire vantaggi e sicurezza.

4. L’esaurimento dei processi della moderna conversione alla rivoluzione nei paesi dell’Occidente non significa tuttavia la scomparsa delle eccedenze di singolarità: queste prendono piuttosto altre strade, alla ricerca di tracciati e passaggi che oltrepassino l’impianto modernistico-illuministico e dialettico. Almeno fin dalla metà dello scorso secolo, singolarità in rivolta danno vita a percorsi individuali di autonomia e di rifiuto delle pratiche di vita neoliberali: dai beatniks ai rockers, da Berkeley ai situazionisti, da Albert Camus a John Cage, dai cyberpunks a Luther Blisset, da Occupy Wall Street agli indignados; espressioni di differenze nei comportamenti e nelle pratiche di sé testimoniano la volontà di volersi sottrarre alla parametrazione sistemica delle condotte e all’imposizione mediatica/pubblicitaria degli stili di vita. Ai processi di trasformazione sociale e culturale immaginati e praticati come soggetti convertiti alla rivoluzione si sostituiscono i percorsi delle singolarità individuali che tentano di praticare forme di rivolta, rifiutando però di assumere come piano principale la produzione di potere politico. Ancora in questo caso assistiamo ad una sorta di rinuncia alla previsione specificamente conoscitiva: ogni genere di prospettiva futurizzante non può essere separata dal complesso delle pratiche che i soggetti mettono in campo. Sembra che nuovi movimenti di resistenze, in qualche modo consapevoli della crescente disgiunzione tra democrazia e governo rappresentativo, cerchino di operare puntando sulla presenza, cercando di evitare lacerazioni e sofferenze che possono provenire da futurizzazioni irrealizzabili e irresponsabili fughe in avanti. Come scriveva Foucault, si apre forse l’epoca di immaginare e praticare una politica di noi stessi (Foucault 2012, p. 92): cresce sicuramente il bisogno di offrire più diffusa autorappresentazione ai soggetti individuali e collettivi. Se la politica diventa sempre più debole e frazionata, tuttavia la democrazia si conferma comunque come l’unica possibilità di aprire ad un vuoto che renda possibile l’autocostituzione pratica delle singolarità e delle soggettivazioni che cercano ancora di affermare libertà e autonomia per gli essere umani.


Bibliografia

Arienzo A. (2013), La governance, Roma.
Foucault M. (2001), L’herméneutique du sujet (1981-1982), Paris (riferimento a trad. it. a cura di M. Bertani, Milano 2009).
Id. (2009), Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II, éd. établie par F. Gros, Paris (riferimento a trad. it. a cura di M. Galzigna, Milano 2011).
Id. (2012), Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Napoli.
Hobbes T. (1640), Elementi di legge naturale e politica, Firenze 1972, trad. di A. Pacchi;
Id. (1651), Leviatano, Firenze 1976, trad. di G. Micheli;
Koselleck R. (1979), Futuro passato, Genova 1986;
Motterlini M. - Piattelli Palmarini M. (2012), Critica della ragion economica. Tre saggi: Kahneman, McFadden, Smith, Milano.
Neumann F. (1957), Angoscia e politica, in Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna 1973, trad. di G. Sivini, pp. 113-147.
Polany K. (1944), La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino 1974.
Schumpeter J. (1954), Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano 1967.
Streeck W. (2013) Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano.
Thaler R. H.-Sunstein C. R. (2009), La spinta gentile, Milano.
Wieck Karl E.-Sutcliffe, Kathleen M. (2010), Governare l’inatteso, Milano.



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