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Approssimazioni al tempo simbolico

GIULIO M. CHIODI
Articolo pubblicato nella sezione Rappresentazioni del tempo.

Estrapolo sintetici spunti apicali dal tracciato di un ampio lavoro di ricerca, che ho in corso sulla ricostruzione della temporalità simbolica. Non partirò, perciò, da definizioni ad hoc di tempo, ma mi accosterò, con le osservazioni che seguono, soltanto al concetto di coscienza in relazione a specifici tagli prospettici della travagliata nozione di tempo. Preciso che il termine coscienza comporta anche il riferimento alla coscienza liminare, quale sede di incontro inscindibile tra dimensioni realmente coscienti e ponderabili e dimensioni dell’inconscio e imponderabili.


Cenno di sfondo generale e contrastivo

C’è chi ritiene che l’esistenza dell’anima sia frutto di fantasia e di credenze errate; c’è invece chi è convinto che non solo possediamo un’anima, ma che questa sia la nostra vera essenza o, comunque, la parte più importante del nostro essere; c’è chi la considera preesistente a noi, chi la vuole simultanea o perfino conseguente, mortale o immortale. C’è anche la possibilità di pensare che possediamo più anime, dotate di potenzialità interiori diversamente orientate; e non è detto nemmeno che queste siano tra loro compatibili o complementari. Non intendo qui prendere posizione in proposito e, qualunque siano le convinzioni in merito, tutti sappiamo in realtà di possedere una coscienza, che non vediamo, ma che percepiamo. È coscienza del mondo esterno e coscienza anche di noi stessi, anche se, a rigore, non siamo in grado di stabilire se questa nostra coscienza abbia in sé o non abbia un punto nucleare veramente unitario.
È questa coscienza che ci fa dire: io. E in quell’io noi ricostruiamo, nelle maniere più svariate la nostra unità, riassumiamo l’insieme, anche contraddittorio, delle nostre sensazioni e delle nostre esperienze. In quell’io riponiamo con consapevolezza tutta la nostra esistenza personale, e ci riconosciamo in quell’io (in tutto quello che ci piace e non ci piace di noi stessi e in quello che vediamo e che constatiamo del mondo che ci circonda), perché ne viviamo la continuità. Continuità, abbiamo detto, e dunque temporalità.
È la continuità nel tempo, che ci rende consci della nostra identità e ci permette di dire “io”. È un “io” che si trasforma costantemente, che muta, che spesso entra in contrasto con se stesso, ma che sempre si riconosce come uno, come sempre il medesimo. Perciò diciamo: io ero, io sono, io sarò o farò. Tanti io, eppure sempre un solo io, grazie alla percezione di una continuità sulla quale costruiamo l’”io” e che qui definiamo ciò che definiamo “coscienza”. Se possiamo dire consapevoli di noi stessi, e anche narrare episodi vissuti, lo dobbiamo alla continuità temporale che attribuiamo al nostro io, intendendolo come memoria di sé. Privato di memoria l’io non c’è più. Il tempo, perciò, ossia la memoria, è elemento decisivo della nostra autocoscienza, tanto che ci sono filosofie che sostengono che la coscienza stessa non sia altro che temporalità, ossia memoria di sé; è una definizione che dà anche ragione dell’aspetto ansioso e assillante che percepiamo nel tempo e, all’opposto, di quello che viviamo come nostalgico o frutto del desiderio.
Parlare di memoria significa riferirsi a un insieme di maschere mnestiche, che rivestono, ma più ancora forgiano nel presente, quanto la mente attribuisce al passato. Le maschere mnestiche sono immagini mentali (ma, più precisamente, della mente e del cuore), che sono frutto di una contaminazione di eventi reali e di pulsioni emotive, consegnati alla sfera tassonomica e idio-affettiva della psiche. La temporalità si fa, dunque, fattore costitutivo e imprescindibile di ogni stato di coscienza.
Il tempo, tuttavia, in sé e per sé non esiste. È solo, da quanto detto, una struttura mnestica metricamente pensabile. Fisicamente il tempo non esiste, infatti, ma noi lo misuriamo, perché è esso stesso un criterio di misura, anzi è soltanto una misura, è memoria misurante. L’interiorizzazione vitale che Bergson chiama durata si distingue dal tempo proprio perché quest’ultimo funge da unità di misura. Sotto il profilo della coscienza, possiamo sempre considerare il tempo una sorta di linguaggio astratto numericamente calcolabile. Ed è proprio per misurare che lo usiamo o, meglio ancora, per misurarlo nelle cose, concependolo dunque intrinsecabile ad uno spazio, che può essere anche completamente immaginario. Lo misuriamo con mezzi naturali, come il moto del giorno, degli astri o delle stagioni, oppure semiartificiali, come per esempio i calendari, oppure anche del tutto artificiali, come gli orologi o i cronometri. In realtà il tempo, nell’uso che ne facciamo, non è altro che la sua stessa misurazione, è una cronometria; e perciò noi lo immaginiamo dotato di moto uniforme e costante, condizione per farne l’impiego che siamo usi fare.
In realtà, però, noi conferiamo al tempo, in quanto misuratore, una natura statica ed informe, in cui il movimento è soltanto la segmentazione regolare di un intervallo che calcoliamo tra due estremi di decorrenza, cosicché i suoi mezzi di misurazione lo fanno simile a un nastro invisibile e numerabile, di cui non scorgiamo né l’inizio né la fine. Come numerato è il metro del sarto, del falegname, del geometra, con la differenza che essi misurano solo spazi materiali. Quella specie di invisibile nastro misuratore è la durata, nel senso esteriore e non bergsoniano del termine. In essa, proprio perché misura, si confonde il principio se il tempo sia il metro dello strumento, che lo misura, o se lo strumento misuratore sia il metro del tempo, soprattutto quando consideriamo la ripetitività delle sue scansioni, sia naturali (giorni, notti, settimane, stagioni, fasi lunari) sia in quelle della temporalità meccanica (contatori, orologi, clessidre, e così via). Da qui si diparte una ricca fenomenologia di temporalità, che va dall’elementarità lineare dei termini stabiliti per un appuntamento o da scadenze arbitrariamente fissate fino alle complessità del tempo cumulativo, che trasforma l’evento e a quelle indistricabili della temporalità storica e delle sue cronotopie.
Filosoficamente, il tempo è definibile come la quarta dimensione della percezione. In tal modo vengono spiegate, sottraendo il tempo alla spazialità, tanto la sua astrazione quanto la natura di a priori dell’intuizione, secondo il carattere che gli ha conferito Kant. Se la quarta dimensione non è considerata quale categoria di una grandezza indipendente e neppure quale costante dipendente (questa seconda è la vecchia tesi del tempo che non è, ma è riflesso del divenire delle cose), allora del tempo si fa una variabile dipendente. E da qui si arriva alla dimensione teorica spazio-tempo e alle fenomenologie cronotopiche, tra le quali trova posto anche il tempo reversibile.
Fenomeni consimili si riscontrano anche riferendosi ad eventi ritagliati dal decorso della storia, dove si ritrovano i caratteri che qualificano le specificità del tempo storico. In quest’ultimo possiamo scorgere altresì immagini decomposte e paratattiche del tempo (la loro provocazione, per esempio, viene accolta in giudizi del tipo: “quel personaggio o quell’idea non erano all’altezza dei loro tempi”, oppure “i tempi non erano ancora maturi per”). Così dicendo si costruisce una cronotassi dotata perfino di forti analogie con le figure metamorfiche della mitologia, in cui si ha la compresenza di momenti diversi, riprodotti e circoscritti in un medesimo spazio, e raffiguranti staticamente un’immagine dinamica, ossia è messa in luce l’incorporazione di tempi diversi della medesima figura oppure di figure diverse nella simultaneità di un unico spazio e in un’unica forma statica. Qui si scompongono e ricompongono nella coscienza dell’osservatore momenti temporali sottratti alle continuità cronologiche uniformi. Simile è la temporalità che si coglie in un’immagine artistica, temporalità che nasce dall’immagine stessa; ma sono tanto l’artista che l’ha creata quanto l’osservatore che l’ammira a scomporla e a ricomporla unitariamente in sé, ossia entrambi la temporalizzano, sottraendola ad ogni cronologia predefinita. Periodizzazioni competono soltanto a descrizioni storiografiche, che operano secondo schemi temporali predefiniti. La fruizione estetica in quanto tale, invece, è indifferente alla cronologia e si immette in una temporalità coessenziata all’immagine, che si attiva ad opera della coscienza di chi la produce o di chi l’ammira. In questi cronotopismi iconici siamo evidentemente al di fuori di qualsiasi continuità cronometrica lineare.
La cronometria, ossia il tempo-misura, psicologicamente inteso, è concepito invece in maniera lineare, perché fondato sul paradigma prima-dopo.
Nel “prima” psicologico la nostra mente colloca ricordi e antecedenti. La memoria è il serbatoio in cui la coscienza sistema il “prima”; nel “dopo” colloca quello che ritiene essere successivo a ciò che l’ha preceduto. Il “dopo” può anche essere il serbatoio della memoria, quando è un “dopo” già accaduto, oppure il serbatoio del possibile o del probabile e del desiderato o paventato, quando non (o non ancora) accaduto e, perciò, non consegnabile alla memoria; noi lo chiamiamo futuro. Invero, alle nostre spalle il passato è uno solo, ancorché multiforme, mentre di fronte a noi ci sono tanti futuri possibili, prima che si facciano presente, dipendenti dalle alternative che scegliamo o finiamo per imboccare.
L’immagine lineare che conferiamo al tempo risente, però, di pesanti influenze culturali, quando noi consideriamo quella immagine come se fosse estesa a tutto, al tutto divenire delle cose e dell’universo. Questa idea è soprattutto erede, nella nostra civiltà, della cultura giudaica e cristiana, secondo la quale il mondo sarebbe stato creato da una volontà divina una volta per tutte. Questa idea attribuisce al mondo un inizio e quindi, a partire da qui, una direzione verso una fine (temporale) o un fine (escatologico), seguendo un percorso irreversibile, senza ritorni. L’unico ritorno immaginabile è connesso solo con la fine del tempo e dei tempi. L’evoluzione scientifica con le sue ipotesi è giunta a concepire anche altrimenti questa linearità, considerandola il risultato di determinate condizioni di osservazione e relativizzando il tempo a seconda dei contesti o delle dimensioni nel quale si rende osservabile e, tra queste, va soprattutto annoverato lo spazio. Tuttavia, nelle condizioni di vita abituali e nel sistema di relazione che instauriamo individualmente e socialmente, la nostra percezione coscienziale del tempo è strettamente dipendente dalla natura lineare che gli attribuiamo. E in tal modo leggiamo la nostra esistenza, quella degli altri e l’intera storia degli eventi umani e naturali.
Dicevamo, comunque, che è un’attitudine culturale quella di attribuire una natura lineare al tempo-misura. Infatti dobbiamo ricordare almeno due altre importantissime varianti che presenta il tempo, anch’esse in diversa maniera concepibili come misura. L’una è legata alla cultura praticata dalle civiltà sacrali, di cui l’esempio dell’Antico Egitto ci offre una tipologia altamente rappresentativa. Quivi il tempo non è concepito in senso lineare, come lo scorrere incessante da un “prima” a un “dopo”, ma in senso ritmico; tant’è che in quella civiltà perfino l’eternità era intesa ritualmente, ossia la si credeva tale in virtù della continua osservanza di appositi riti che la coltivavano e la sorreggevano. Quella sacrale è nella sua essenza una società rituale, nella quale i gesti e le relazioni sono caratterizzati dalla ripetizione evocativa, similmente ad una celebrazione liturgica, che esprime l’invisibile, di carattere numinoso e misterioso. La seconda variante è il cosiddetto tempo ciclico, tipico della civiltà classica precristiana. La civiltà antico-greca e quella romana non pensavano alla creazione; per loro la natura era sempre esistita e di conseguenza ogni evento temporale comportava in sé la ripetizione, anche se non in forma rituale certamente fisio-cosmica, come se si trattasse di ritorno a un precedentemente già accaduto, secondo un’immagine circolare dell’andamento temporale.
Naturalmente non veniva meno, in quelle civiltà, l’idea lineare, ma questa va intesa come un segmento legato alla singolarità di un essere o di più esseri, o di un complesso di cose all’interno di una medesima identità; segmento, detto in altri termini, appartenente episodicamente all’interno, rispettivamente, di un continuum ritmico o di un più ampio ciclo. Quindi segmento curvo e non rettilineo, per il quale ogni futuro, nel farsi presente, si farà attimo ritmico o, rispettivamente, diventerà passato, passato già di per sé preordinato al futuro. Legato alla memoria, che consente di stabilire un contatto col passato, il tempo dei greci conosce anche altre cadenze, tra le quali spiccano quelle che non possono avvalersi della memoria, perché delle vicende che le riguardano non vi è nulla e nessuno che sia in grado di ricordare; si pensi ai segmenti curvilinei del ciclo di lunghezze eoniche, dei quali si ignorano i due estremi.
Quelle ora citate sono tutte modalità, pur nelle loro diversità, di tempo-misura, tranne, per quanto diremo, il tempo rimico. Infatti ciascuna obbedisce ad un proprio genere di regolarità.
L’idea di tempo-misura ora descritto ha una doppia natura: o è tempo mnestico-psicologico oppure astrattamente noetico e logico. È in una consimile doppia valenza che cercò di spiegarlo Sant’Agostino, quando, secondo un’ottica lineare (ma teologicamente con sottintesi escatologici) lo definì, nella sua inesistenza materiale, una distensio animi. Nozione, questa, non priva di influssi greci, di portata esplicitamente soggettuale ed oggettivabile nell’applicazione a noi stessi e alle cose. Il tempo-misura è dunque un’espressione psicologica e mnemotetica, che noi siamo in grado di astrarre quantitativamente, grazie alla numerazione, e perfino di incorporare artificialmente in un contatore o in un cronografo qualsivoglia.
Ma la definizione agostiniana va più in là: contiene spunti di psicologia del profondo. La riduzione ad extensio animi comporta una diretta chiamata in causa di aspetti strettamente esistenziali. L’esistenzialità, nella concretezza del vissuto, non può darsi che nel presente. Il desiderio o il ricordo, extensiones animi rispettivamente nel futuro e nel passato, non sono possibili che in un presente, con tutta la sua carica di stato transeunte. La drammaticità del suo significato, senza patetismi, ha trovato la più alta espressione poetica nel goethiano “attimo fermati” del Faust. Se si arrestasse quell’attimo, ossia il presente, sotto il profilo della vita vorrebbe dire la fine, cioè la morte; sotto il profilo del sogno, invece, il mito dell’eternità. L’attimo e l’eterno sono coincidenti.


Il tempo psichico

Il riferimento esistenziale cha abbiamo ora fatto ci porta a considerare un genere di tempo, che non conosce misure, né vincoli di linearità, di ciclicità o di ritmo. Nella multiformità di specie le sue durate non sono numerabili e qualora lo fossero sarebbero senza unità di misura oggettivabile. Stiamo parlando del tempo psichico in senso stretto. Si tratta del tempo che, pure inesistente nella sua sostanza, entra a fare parte del nostro essere, del nostro vissuto in maniera patica, intima, trasformandosi in una componente inscindibile della nostra coscienza e del nostro sentire in generale. Il tempo psichico è parte integrante del nostro vissuto e contribuisce insostituibilmente a dargli un’impronta connotativa e singolarmente personalizzante. Non sarebbe improprio addirittura asserire che il tempo psichico è elemento costitutivo, e quindi assolutamente ineliminabile, della nostra personalità. Anche se, a rigore, dovremmo distinguere tra tempo esopsichico, che è sempre oggettivamente misurabile, e tempo endopsichico, che misurabile non è, se non con metri soggettivi, al livello logico a cui ci stiamo attenendo possiamo prescindere dalla distinzione.
Noi non possediamo nessun metro uniforme e generalizzabile, ancorché oggettivabile, per misurare il tempo meramente psichico, anche perché esso non perde mai la sua natura metromorfica, nella quale non siamo in grado di riconoscere nessuna forma geometrica relativamente stabile. Non è temporalità lineare secondo un movimento uniforme e costante; non è neppure ciclica secondo scansioni regolari, e nemmeno è concepibile come manifestazione ritmica. Il tempo psichico interiore non è certo privo di tali caratteristiche, che a tratti si possono anche rendere riconoscibili, ma li esprime in maniera promiscua e frammentaria, con salti e rotture, discontinuità, diversioni e ritorni. È tempo psichico quello che viviamo nei momenti più svariati della nostra esistenza emozionale, perché è tempo completamente soggettivato.
Pur nella sua dispersione, ci accorgiamo che il genere personale di cronotopismo in una situazione che ci dà gioia fa correre in fretta il tempo; nella durata di una sofferenza o di una condizione che disturba o annoia, il tempo sembra che non trascorra mai. Si tratta di un tempo patico, politropico e discontinuo. A volte abbiamo la possibilità di scegliere tra più percorsi materiali che conducono alla medesima meta, e capita spesso che uno più lungo ci si presenti più gradevole di uno più breve, sì che questo secondo ci fa sembrare lungo e più lento il tempo di percorrenza. La cronotopia meramente psichica è idioaffettiva ed esclusivamente circostanziale. Su un’analoga lunghezza d’onda si pone il tempo dei ricordi – è questo certamente tra i tropismi del tempo psichico più ricorrenti - nel quale la mente dilata, ritaglia, arresta le immagini a suo arbitrio, ripete, sovrappone, congiunge e disgiunge. Anche il tempo di chi si rilassa e si lascia attraversare liberamente dallo scorrere spontaneo delle cose e dalle immagini che lo visitano, o il tempo delle scadenze, che assillano e angosciano, delle accelerazioni o dei rallentamenti, che si imprimono a taluni eventi, rientrano nella medesima tipologia.
Quando soffermiamo la mente in quegli atteggiamenti che definiamo di soprapensiero, il tempo si discioglie in tanti stati, ora statici, ora effimeri, ora intrecciati o accavallati; si effonde su quanto si presenta spontaneo nel pensiero, senza una precisa misurabilità e senza mostrare caratteri propri, perché riconducibile ora a una forma ora a un’altra o a nessuna o comunque totalmente irrappresentabile. Sempre psichici sono ovviamente i tempi della nostalgia, della speranza, degli anticipi, delle attese, dei sogni ad occhi aperti e della libera immaginazione. Qui non si tratta di tempo misurabile con metro uniforme, perché il metro è esclusivamente occasionale e soggettivo. Il tempo meramente psichico, sottratto ad ogni rigore commensurabile, ad ogni regolarità, ad ogni misurabilità, è dunque un tempo prettamente interiore e informale; contrariamente al tempo-misura è un tempo esteriore e ha natura solo formale.
Condiviso da tutti, esso non può essere in alcun modo uniformabile, né è uniformabile per tutti. Ognuno lo esperisce nel suo intimo, a seconda delle sensazioni, dei bisogni e delle esperienze personali. È appunto una temporalità radicalmente non universalizzabile e, a rigore, nemmeno trasmissibile, anche se si possono trovare vie per farne intuire ad altri il senso. È – data la sua costitutività d’ordine squisitamente soggettivo - il tipo di temporalità che ci fa più direttamente sentire l’”io”, oltre che nella continuità anche nella discontinuità. Non paia qui contraddittorio dire “nella continuità (affidata alle operazioni della memoria) delle sue discontinuità (affidate invece alle circostanze evenziali) e nelle discontinuità della sua continuità”, condizione che esprime l’irriducibilità delle temporalità personali che caratterizzano le peculiarità dell’io.
Mentre gli studi degli psicologi ci mettono a disposizione importanti indicazioni sulle differenze tra io, ego, superego, sé, e dalle scienze neuronali conseguiamo risultati sorprendenti sull’azione determinante del nostro cervello, anche in merito alle definizioni delle manifestazioni della personalità, gli studi di simbolica, che indagano nel mondo immaginale, hanno da parte loro messo in evidenza un aspetto specifico della nostra psiche, essenziale alla sua funzione di attribuzione di senso alle percezioni: è l’io proiettivo.
Quando pensiamo a noi stessi, cerchiamo di vederci in un certo modo piuttosto che in un altro, ci costruiamo delle immagini che ci fanno da guida al pensiero. In sostanza ci costruiamo una personalità immaginaria, che coltiviamo e che spesso ci proviamo anche a realizzare nella vita concreta o a correggerla nei difetti che vi scorgiamo o a potenziarla. L’io proiettivo è una proiezione di noi stessi nell’immaginazione, ed è molto di più e molto di meno che un nostro specchio. È molto di più, perché è realmente una sorta di nostro doppio: se ci riflettiamo bene, ci accorgiamo che siamo portati ad attribuire una grande e insostituibile importanza a questa figura immaginaria, alla quale affidiamo tutte le nostre aspirazioni e la nostra rappresentanza nel mondo, accorgendoci di avere molta più cura per questo nostro doppio che realmente per noi stessi; infatti lo consideriamo essere veramente noi stessi, caricandolo soprattutto delle nostre eccedenze psichiche (che in realtà coprono inconfessate carenze). Ma nel contempo esso è anche di meno, perché è in realtà un entità soltanto proiettiva del nostro essere e intrinsecamente priva della capacità di esaurire in se stesso.
Il tempo psichico che annettiamo all’io proiettivo può essere perciò anch’esso definito a sua volta come tempo proiettivo. Di esso fa parte anche il tempo narrativo, costruito tanto dal fabulista, dal romanziere o dal novelliere, con personaggi ed eventi inventati, quanto dallo storiografo con personaggi ed eventi reali, che lo allungano, lo accorciano, lo frammentano a piacere con gli espedienti del regista e dello scenografo. Merita una riflessione, in tema, l’intuizione letteraria dello Steppemwolf di Hermann Hesse, quando descrive l’irritazione del protagonsita di fronte a un ritratto di Goethe, che egli considera troppo melenso rispetto a quello raffigurato dalla sua immaginazione. In realtà, osserva l’autore, non è più vero l’uno dell’altro, constatazione che si completerà con la comparsa in sogno di Goethe, che dirà che le pretese di fondatezza derivano dalla sovrastima che viene concessa al tempo, che nell’eternità non esiste, perché è soltanto l’attimo.
È ovvio che l’organizzazione comune della vita comporta anche la necessità di distribuzioni temporali, impone scadenze, durate, finalità, orari, puntualità, tempi di esecuzione e così via. Pur essendo situazioni che rientrano nel tempo cronologico, lineare, irreversibile e altresì numerabile, producono riflessi condizionanti sul tempo psichico, ossia danno luogo a psicocronie, a loro volta condizionanti l’andamento del tempo misurato. Si pensi, per esempio, agli orologi meccanici, che sono alcunché di impersonale e spersonalizzanti: con essi si misura il tempo, che altrimenti non potrebbe essere calcolato e gli uomini sentono il bisogno di calcolarlo, di controllarlo e pretendono perfino di dominarlo, con la conseguenza che sono gli uomini a rimanere calcolati, controllati e dominati. Questo fa pensare alla battuta del shakespeariano Riccardo II, rinchiuso in carcere, quando esclama di aver gettato via il tempo per finire poi con l’essere gettato via dal tempo.
Il tempo psichico deve essere considerato preliminare necessario, tuttavia non sufficiente, per definire il tempo simbolico che, per così dire, riplasma il tempo psichico, ora presentificandolo incorporato in ciò che è simbolo, e ora conferendogli un grado di ritualità che lo sacralizza; in entrambi i casi ne fa un tempo di espressione immaginale.


Tempo simbolico come ritmo e presente discronico

Abbiamo definito informale il tempo psichico; ma esso può essere partecipe anche di una temporalità rappresentabile secondo una formalità sui generis: si tratta della temporalità ritmica. Il ritmo è la forma specifica della temporalità rituale, ma esso è altresì la modalità di tempo che si sviluppa nella musica e nella danza, che ce ne offrono l’esempio più evidente.
Il ritmo non è semplicemente la ripetizione in quanto tale, ma è ripetizione che esprime sempre un grado nuovo di intensità e di partecipazione. Il ritmo, tanto nella temporalità dei riti, quanto nella sua espressione artistica non è mai un automatismo, perché generativo e rigenerativo. Il ritmo della danza, sottratto alla linearità cronologica, trascina in dimensione corporee e spaziali, che continuamente si annullano e che si ricostituiscono a nuovi livelli ricettivi, così come il ritmo della musica, similmente strappato al divenire lineare cronologico e uniforme, evoca mondi invisibili e supersensoriali. Entrambi prendono forma solo nel presente, acquisendo senso da quanto precede e unitariamente consegue, ma la peculiarità della loro forma sta nel perdersi nell’informale, nel mentre che – è questo un ossimoro che non si fa paradosso - l’informale in loro si consegue proprio attraverso la forma. Nella fruizione soggettiva di questi ritmi si realizza un genere speciale di temporalità, nella quale si affaccia la percezione che la psichicità del tempo esperito supera le dimensioni soltanto soggettive dell’esperienza.
Mentre il tempo, nei suoi riflessi soggettivi, ci richiama il peso del decorso e della fine delle cose, della nostalgia che accompagna il prima e il poi, della differenza tra passato e futuro e, in generale, ci immette nel transeunte, i ritmi possono essere sempre ripresi e possono essere rivissuti liberamente, perché avulsi da ogni cronologia. I ritmi, in sostanza, come avviene nella musica, sono di fatto una liberazione interiore dal tempo, dal tempo genericamente decorrente, perché sono in grado di rigenerarlo. Perciò è lecito pensare, attraverso essi, anche all’esistenza di una via capace di realizzare una libertà dal tempo, per nulla caotica, bensì ordinata, ossia guidata da una temporalità interiore, affidata appunto al tempo ritmico. Il ritmo, proprio della musica e della temporalità sacrale, si sottrae alla misurazione cronologica, si sottrae alla linearità irreversibile, si sottrae anche alla ripetitività meccanica, perché tempo interiormente partecipato e interiormente rigenerantesi, come energia facente parte integrante del nostro essere e sentire.
Il ritmo è infatti la forma di temporalità che scandisce la celebrazione liturgica, le ritualità cultuali, la giornata del monaco, ma scandisce anche, quanto più i vincoli legano alla terra e alla natura, il lavoro commisurato all’arco del giorno, alle stagioni, alle celebrazioni periodiche. L’intrinseca energia creativa del ritmo, lo ha fatto erigere a modello delle attività artificiali dell’organizzazione sociale e dell’operare collettivo che, appropriandosene, lo hanno però snaturato, riducendolo a mezzo per fini e funzioni ad esso estranei e facendone un criterio di misurazione: quindi trasformandolo da evento in sé creativo in tempo-misura.
Il ritmo, invece, cadenza di per sé l’azione, il fatto, il gesto e addirittura il fine, perché lo incorpora in sé. Il senso che esprime il ritmo è incorporato nel ritmo stesso, che lo presentifica, lo rende simultaneamente vissuto, senza rinvio a risultati successivi. Il ritmo è dunque simile al respiro, che dà e mantiene la vita. Riuscire a ritmare la propria esistenza, partecipando ovviamente alle sue esteriorità, ma sottraendola al loro dominio e alla loro esclusiva temporalità misurabile, significa riscoprire la propria libertà, che è in primo luogo non sudditanza al tempo-misura. Il ritmo non soffoca mai la libertà interiore, ma la alimenta reiteratamente, perché consente il contatto con la realtà esterna, a cui esso stesso dà espressione, senza imporre di subirla, senza forzare la mente e l’animo alle esigenze sollecitate dalla materialità cronicizzata, la quale tende a trasformare il nostro fare e sentire in artefatti misurabili.
Il ritmo, dunque, non obbedisce alla cronologia, che ha natura astratta, ma attiene assolutamente a una realtà assolutamente presente e immediata, essenzialmente vitale. La cronologia, lineare e irreversibile del tempo-misura, che si modella sul prima e sul poi, su passato e futuro, quanto più impone il suo metro tanto più nullifica il presente vitale, creativo e rigenerativo, sorretto dal ritmo. Il presente del tempo-misura è solo l‘estensione di un punto illusorio, perché la sua reale estensione è costituita da un prolungamento artificiale, puramente mentale, del passato oppure da un anticipo, anch’esso artificiale e puramente mentale, del futuro. Il ritmo, di contro, non vive né in un passato, che più non è, né in un futuro, che non è ancora, ma li assimila in un presente che non li nega, perché è appunto un presente ritmato. Il ritmo fa sì che il passato e il futuro non siano realtà astratte (ciò che era e ciò che sarà), ma siano realtà effettuali fuse nel e del presente, che può dirsi reale ed ha senso in quanto realtà vissuta, grazie a tale fusione.
Ora siamo meglio in grado di avanzare la definizione di una tipologia di temporalità che esprime molte affinità col tempo ritmico, ma che può essere specificata in una sua particolare natura. Intendo dire della temporalità che si addice in senso stretto all’oggetto simbolico; si tratta della temporalità propria nella quale si incontra il simbolo: è il presente discronico, di cui il ritmo può essere una variante regolata. Anche nel presente discronico la cronologia, nel suo dualismo passato-futuro, si annulla completamente.
Chiedersi quale sia il genere di temporalità che concerne il mito, come molti hanno fatto, vuol dire ricorrere al simbolo, perché il linguaggio del mito è soltanto simbolico: il suo genere di temporalità è il medesimo che si manifesta in riferimento ai simboli. Ma che cosa significa tempo simbolico o temporalità intrinseca al simbolo?
Quando un simbolo fa parte del nostro mondo coscienziale, tale evento prende consistenza nella coscienza liminare, che reagisce attraverso l’elaborazione di cronotopie immaginali, che sono un misto inscindibile di elementi consci ed inconsci. Di primo acchito il simbolo, inteso come realtà vissuta e non solo rappresentata, sembra indurci a pensare che esso sia dotato di valori metacronici. Tuttavia, questa osservazione è esatta solo in quanto esclude dal simbolico il tempo-misura; ma in realtà il simbolo comporta sempre il vissuto di chi lo percepisce come tale, e chi lo vive coglie in se stesso, se pensa alla temporalità, la presenza di discronie. Le discronie ora avvicinano, ora allontanano rappresentazioni che appartengono alle varietà del tempo psichico, poiché sono manifestazioni di multiformità temporale che si sottraggono alla cronologia e alle sue misurazioni. La discronia, allora, è assimilabile ad una sorta di temporalità trasposta e completamente sottratta ad ogni diacronia. Il “prima” e il “dopo” non soltanto scompaiono, annullandosi in una assolta presentificazione, ma vivono simultaneamente continuità e discontinuità, come avviene quando il tutto è nelle parti e le parti sono nel tutto. È questo aspetto che ci consente di definire la temporalità simbolica come presente discronico, ossia come temporalità molteplice, priva della unilinearità del prima e del dopo e unitariamente compatta in modalità totalizzante. In essa, potremmo dire, sogno, durata, attimo faustiano, eternità si fondono in uno indistintamente.
Anatomizzare il presente discronico significa smontarlo e dissiparlo in movimenti ora lineari ora ciclici, ora sinuosi e ripetitivi, ora fuggenti in avanti alla ricerca di precedenze e ora trainati, ora paralleli o intrecciati e ora acceleranti o frenanti e così via. E ciò costituirebbe una descrittività scompositiva che ridurrebbe il presente discronico a un concentrato caotico di tempo psichico. Ma un osservare di questa natura prescinderebbe completamente dal riconoscere la presenza del simbolico, che di fatto sta negando. Il simbolo unifica ogni temporalità soggettiva in una totalità esistenziale e identitaria e mantiene compattezza alle discronie che lo abitano, contestualizzandole unitariamente, ossia omologandole in sé: supera anche ogni stato caotico, strutturandosi, sotto il profilo temporale, appunto come presente discronico. Ciò accade quando il vissuto coscienziale si esprime pienamente in uno stato di coscienza liminare, che è generativo e ricettivo insieme di ogni realtà simbolica.
La vissutezza, nella coscienza liminare, non si limita a sincronizzare le diacronie del tempo-misura, ma incorpora anche le estensioni multidirezionali che le investono. E perciò la temporalità tipica del simbolico è il presente discronico, giacché il tempo semplicemente sincronico può appartenere a qualsiasi forma di tempo psichico. Detto altrimenti, la coscienza liminare, dalla quale e nella quale sempre prende consistenza il simbolo in quanto simbolo, opera una presentificazione omogeneizzante in un oggetto specifico (appunto il simbolo) di tutte le discronie, che lasciate a stesse condurrebbero ad una temporalità caotica, confusionale, o cronologicamente segmentata. Il prima e il poi, il passato e il futuro, l’essere stato, quello che sarà o che potrà essere o immaginato che sia, nelle sue parti che contengono il tutto e nel suo tutto che contiene tutte le parti, sono scissioni che non hanno senso nel simbolo, perché sostituite dal suo presente senza tempo e con più tempi, discronico ed unitario insieme. Presentificare nella coscienza le discronie significa acquisirle come un tutto compresente alla coscienza. La discronia esce in tal modo dal caotico, che le fa “diabolica” e si sostanzia in un presente acronologico e immisurabile che la rende “simbolica”.
È quindi insufficiente limitarsi a parlare di metatemporalità del simbolico, giacché questo non solo non trascende il tempo, come anche non esce dallo spazio, ma lo cattura, dentro di sé presentificandolo nel vissuto e assimilandone le diacronie.
Cercare risposte logiche alle domande esistenziali che il presente discronico solleva non può avere altro esito che la caduta nelle più svariate ambiguità o nel completo non senso, che è scongiurato dalle valenze che caratterizzano il simbolo. La coscienza liminare, infatti, si sviluppa sulla soglia tra conscio e inconscio, che concepisce inseparabilmente, attribuendo senso identitario a quanto li incontra nella loro indissociabile unità. Probabilmente concorderebbe su ciò Gustav Jung quando sostiene che l’uomo equilibrato vive conscio e inconscio non in contrasto tra loro, ma in parallela armonia. L’aggettivo “parallelo” sta qui a significare la consapevolezza della fondamentale differenza intercorrente tra conscio e inconscio, che deve accompagnare la vissutezza di un uomo equilibrato e non la loro alternativa.
Introdurrò soltanto due riferimenti a titolo esplicativo.
Il primo si misura con la psicologia. Un’esperienza di temporalità simbolica nella forma di presente discronico alla portata di tutti si riscontra nel sogno. Il tempo onirico ha infatti profonde affinità col tempo simbolico, anzi è anche definibile esattamente come tale, soprattutto se nell’interpretazione dei sogni teniamo conto più della posizione di Gustav Jung che non di quella di Sigmund Freud.
Si ritiene generalmente che tre punti, in ultima analisi, differenzino le posizioni di Jung e di Freud a proposito nell’interpretazione dei sogni. Per Jung, prima di tutto. le immagini del sogno non vanno interpretate pensando necessariamente ad altro da quello che sono, cioè andando a cercare significati esterni: interpretando le manifestazioni oniriche, egli ritiene anche conti di più la natura intrinseca dell’immagine sognata che il che cosa possa significare. In secondo luogo egli ritiene che anche il materiale onirico vada preso tutto in considerazione nel suo tutto e che si debba evitare di staccarsi dalle sue immagini, da quanto esse mostrano nel loro specifico linguaggio. In terzo luogo bisogna staccarsi dall’idea che il sogno sia soltanto espressione di un già vissuto e in particolare di ricordi rimossi, ma rendersi conto che esso ha in sé sempre qualcosa di originale e di esclusivo che sta manifestando. Il sogno, dunque, stabilirebbe una sorta di incontro tra la soggettività del sognante e qualcosa di esterno che gli si presenta in quella forma. Volendo configurare modalità di temporalità che si addicono al sogno così inteso, penso che il genere di temporalità che ne venga espressa assuma proprio i caratteri del presente discronico.
Condenso in poche battute il secondo riferimento, che richiederebbe lunghe analisi. Le famose figure delle tre solitudini incise da Albrecht Dürer (Il cavaliere la morte e il diavolo, Melancholia I, San Gerolamo) tra la ricchissima simbologia che racchiudono, sono anche tre figure della temporalità. Non è casuale che in tutte e tre sia presente una clessidra: è una presenza che non si limita a ricordare che “il tempo scorre”. Nella raffigurazione scorgiamo innanzitutto tre paradigmi geometrici fondamentali della geometria simbolica: la simmetria, l’asimmetria e la proporzione. Vi scorgiamo le tre geometrie fondamentali della simmetria, asimmetria e proporzione.
Nella prima incisione la temporalità contenuta nell’immagine è quella dell’azione, dove domina il principio simmetrico, ossia, in termini temporali, la sincronia, come è richiesto dalle energie coesive dell’azione medesima, personificata dalla figura immanente e fiera del cavaliere. Il cavaliere è immagine dell’assoluta concentrazione nel presente, non conosce distrazione, mostra la più completa indifferenza tanto allo scorrere del tempo, che la morte gli vuole ricordare mostrandogli la clessidra, quanto alle insidie, che il diavolo gli vuole tendere. Nella compattezza della figura del cavaliere si attua la più integrale sincronicità di ogni parte del suo essere.
Nella seconda incisione si cela la temporalità della mente e dell’intelletto, ossia il tempo asimmetrico: l’angelo della malinconia, che è l’umore dell’intellettuale, si mostra in atteggiamento inerte, ma il suo sguardo è folgorante e mostra la profonda tensione dell’inquietudine creativa, perché guarda e scorge lontano, sia al dentro che al fuori di sé. Vi leggiamo la scissione tra il già costruito e il da costruirsi, tra realizzazione e realizzabilità, tra distacco dall’azione e pensosa protensione verso la sua ripresa. La figura mostra che il tempo divide e si divide, si diacronizza e discronizza, perché spezzato tra interiorità ed esteriorità, tra passato e futuro, tra ciò che è stato e ciò che potrà essere, tempi che investono e dissolvono il presente.
Nella terza incisione ci troviamo di fronte alla piena conciliazione del tempo e col tempo, che ci ricorda la geometria della proporzione, mediante lea quale si stabilisce la giusta distanza tra sé e le cose e tra sé e sé, in quanto presente, passato e futuro si contemperano in un’unità metanoica e metacronica. La luce soave che avvolge San Gerolamo in lettura e da lui si promana, perché luce interiore, manifesta come la pace un presente non transeunte, nel quale si incontrano l’attimo e l’eterno: l’attimo che non fugge, l’eterno che si lascia raggiungere. Quanto avremmo da commentare su questi tre meravigliosi capolavori! Ma lo lascio alla riflessione personale di chi vorrà farlo.


La sosta, ovvero la sospensione interiore della temporalità

Nei rapporti con noi stessi non possiamo fare a meno di confrontarci col nostro io proiettivo, di cui più sopra si è detto e che è inesorabilmente mutevole, proteiforme, capace altresì di manifestarsi addirittura attraverso più “io” (rispetto al tempo, abbiamo anche in “io” dotati di fretta e velocizzanti, e “io” rallentanti e dilazionanti e “io” deviatori). Anche se non sempre sappiamo stare bene in asse con noi stessi, ognuno però possiede un axis sui, che ci dice che c’è sempre un qualcosa o un come al di sopra di noi, al quale obbedire o conformarci o che costituisce un meglio rispetto a quanto nel momento siamo, e che c’è sempre anche qualcosa o un come al di sotto di noi, che non è da seguire o non è desiderabile e che è peggiorativo di quanto al momento siamo. È buona regola, dunque, riconoscere l’alto e il basso e controllare i movimenti verticali del nostro io, onde non esaltarlo o non deprimerlo nelle sue proiezioni, ossia non sopravvalutandolo o sottovalutandolo. Ma siamo anche in grado di poter spostare la nostra attenzione a una dimensione che da quegli io proiettivi si distoglie. Ciò avviene nella sosta.
Possiamo definire la sosta come una sospensione del tempo psichico. Ciò è connesso con una dimensione che si carica di tensioni che non dobbiamo temere di definire di ordine mistico. Infatti la sosta ci pone in contatto con la luce interiore, secondo una definizione ormai di tradizione millenaria. La sospensione del tempo psichico consiste, prima di tutto, nell’assoluta noncuranza del tempo-misura. La sosta, perciò, realizza una sorta di metatemporalità, alla quale la psiche si abbandona, entrando in tal modo in contatto col mondo soprasensibile, che può essere tanto di natura metafisica quanto di natura trascendente. È in questa dimensione sostanzialmente apofatica che si può accedere alla luce interiore, nella quale il tempo-misura è completamente neutralizzato.
Ricorro qui all’antico concetto di luce, che ha attraversato variamente il mondo biblico, neoplatonico, veterocristiano, patristico, fino alla scolastica e all’umanesimo. Sappiamo che la percezione temporale avviene sempre col ricorso ad immagini spaziali, anche irreali, astrattamente proiettive e meramente immaginarie, prodotte da associazioni mentali con rappresentazioni estensive, per quanto informali o desostanziate queste possano essere. L’immagine comporta immancabilmente una visione, sia pure immaginaria e metafisica; ed ogni visione è possibile solo in una luce, sia pure immaginaria e metafisica.
Che la temporalità sia strettamente connessa alla luce è provato anche da esperimenti scientifici e tanto più questo fenomeno è confacente anche al tempo nella dimensione coscienziale, della quale stiamo parlando. Il nesso tempo-luce, come ci viene descritto dall’osservazione scientifica, riguarda ovviamente la coscienza del tempo-misura, quello che abbiamo individuato tanto nel tempo esteriore quanto nel tempo psichico, ma nell’ambito della sosta sospensiva dobbiamo pensare al tempo-luce interiore e del nostro profondo. Le zone del nostro profondo si fanno accessibili soltanto a partire dalla sosta.
Sospendere il tempo vuol dire interromperne il corso nella nostra coscienza. La possibilità di conseguire lo stato di sospensione della temporalità dipende da un’operazione meditativa, alla quale partecipa in primo piano la corporeità. La sosta sospensiva richiede, prima di tutto, di riuscire a percepire la propria fisicità senza rivestimenti o riempimenti mentali, concependo se stessi semplicemente come entità puramente naturale in mezzo a tante altre. La sospensione dello scorrere del tempo coincide, infatti, col prendere le distanze dalle immagini mentali di qualsiasi genere, che ci costringono sempre a seguirle anche se effimere e banali. Riuscire in questo atteggiamento significa predisporsi all’ascolto, quale ascolto totale. La capacità di sospensione del tempo esteriore può essere aiutata anche da apposite tecniche di concentrazione psichica. Qui ci basta mettere in risalto che l’interruzione in noi del tempo esteriore è sostanzialmente la cessazione di elaborazione di immagini mentali e che il suo effetto è direttamente proporzionale all’abbandono ad uno speciale tempo ritmico o, se così si preferisce dire, alla sua incorporazione. Ciò accade quando il tempo viene totalmente assorbito dal ritmo sintonico del cuore e del respiro, che è la condizione speciale della ritmicità della sosta. Un seguace di religioni orientali potrebbe, per esempio, configurare in tal modo l’entrata in una sorta di nirvanico ciclo cosmico, un naturista l’assunzione di energie vitali della terra, un cristiano, invece, di accesso alla natura e ai ritmi creaturali. Comunque la si viva, la sosta avvia certamente ad imbattersi in un terreno pregno di evocazioni metanoiche, che tendono a caratterizzarsi misticamente.
Significativo in area cristiana, ma non ad essa esclusivo, è l’incontro tra questi ritmi interiori con la parola senza immagine, perché la parola stessa si fa immagine, e con l’immagine senza parola, perché l’immagine stessa si fa parola. È nell’approfondimento di simili eventi che la sosta può farsi preghiera e innestare altresì le radici della liturgia, ossia di quella che con buone ragioni è detta opus dei. Nella preghiera e nella liturgia la parola non è dizione, ma è ascolto, dove l’immagine non è visione, ma è essere veduti. In modo particolare la patristica orientale e il monachesimo esicasta, ma per certi versi anche il sufismo e le pratiche dello yoga, hanno in proposito molto da insegnare.
Oggi non si è molto abituati ad ascoltare il silenzio, e quindi ad accedere ai ritmi del nostro mondo interiore. La nostra civiltà mostra una spiccata propensione a far sì che ogni spazio silenzioso o potenzialmente tale, venga invaso da suoni e rumori, come intenzionalmente avviene in luoghi pubblici e privati di ogni genere, resi preda di dispositivi fonici, o per consuetudine personale tramite appositi congegni. La fuga dal silenzio compromette fortemente le capacità di ascolto. Anche prescindendo da una reale sosta sospensiva, ascoltare il silenzio o i semplici suoni puramente naturali abitua a stabilire quelle distanze dalle cose, che consentono la presa di giuste misure tra sé e le cose stesse e – ciò che è ancora più che mai difficile – le giuste misure tra sé e sé. La soppressione del silenzio ricettivo annulla quelle distanze, facendoci invadere dalle cose e addirittura diventare a nostra volta soltanto cose. Solo la sosta sospensiva presta il più grande aiuto per ripristinarle. Saper trovare un percorso vitale e costante richiede, del resto, la capacità di accedere ad una temporalità ritmata; ciò perché il ritmo ha una natura rigenerativa e non semplicemente ripetitiva, non automatica, ma di espansione scalare e cumulativa, ascendente e discendente, similmente agli effetti del respiro.
Indipendentemente dalle motivazioni e dai possibili effetti, la sosta cronosospensiva è una pratica raccomandabile di fronte ad un altro genere di annullamento del tempo-misura e del tempo psichico. Alludo al superamento temporale operato dalla virtualità del mondo informatico. La potenza e la facile disponibilità dei mezzi informatici, abbandonata alla sua autoriproduzione, accanto agli enormi vantaggi delle prestazioni che se ne ottengono, sollevano fondate preoccupazioni, giacché operano sostituzioni e altresì invasioni dei campi della mente umana, relegandola sempre più ai margini dei processi generali di relazione. Quanto più l’intelligenza artificiale sostituisce l’intelligenza naturale, nonostante i benefici prestati, tanto più la sua funzione strumentale si converte in funzione strumentalizzante. Anche la virtualità informatica, come la sosta, sottrae i suoi oggetti allo spazio e al tempo, ma diversamente dalla sosta sospensiva, l’atopia e l’acronicità che la distinguono annullano ogni cronotopia nella simultaneità esteriore, in un qui senza spazio e in un ora senza tempo. La sosta sospensiva, di contro, non sopprime il tempo in nessuna simultaneità esteriore, ma esclusivamente e volontariamente in una ricettività interiore. Nella sosta c’è l’ascolto naturale e creaturale, quindi l’apertura alla libertà interiore; nella virtualità, invece, c’è artificio e quindi l’interiorità è respinta e soggetta a contrazione.



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